Gabrielli_La defascistizzazione nella stampa della RSI

LA "DEFASCISTIZZAZIONE" NELLA STAMPA DELLA R.S.I.

QUADERNI

della

F.I.A.P.

n.47

di Gloria Gabrielli

La defascistizzazione nella stampa della R.S.I.

ABBREVIAZIONI

ACS, PCM, R.S.I. = Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Repubblica Sociale Italiana

ACS, SPD, CR, R.S.I. = Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, Repubblica Sociale Italiana

ACS, SPD, CO, R.S.I. = Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Ordinario, Repubblica Sociale Italiana

CLNAI = Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia

TAA = Testimonianza all’autore

B. = busta

f. = fascicolo

stf. = sottofascicolo

Ringrazio vivamente per le testimonianze ed i consigli Ugo Manunta, Raimondo Manzini, Mons. Giuseppe Bicchierai e il dr. Sandro Setta.

Un valido aiuto nel reperimento della documentazione mi è stato fornito dai funzionari e dagli impiegati dell’Archivio Centrale dello Stato, del Saint Anthony College di Oxford, della Biblioteca Nazionale Braidense, della Biblioteca Pubblica Comunale di Milano, della Fondazione G. Feltrinelli e dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione verso i quali sento molta riconoscenza.

Un particolare ringraziamento alla F.I.A.P. ed al prof. Lamberto Mercuri per l’impegno con il quale ha seguito la pubblicazione di questo saggio.

© I Quaderni della FIAP

È permessa la riproduzione integrale

a fini scientifici e divulgativi del presente articolo

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Quaderni della FIAP, n.47

La "defascistizzazione" nella stampa della R.S.I.

di Gloria Gabrielli

Quaderno n.47

[La versione integrale del testo è disponibile nel formato pdf]

CAPITOLO 1

I GRANDI QUOTIDIANI

«[...] Quali sono i princìpi fondamentali sulla stampa riconosciuti e stabiliti dal fascismo repubblicano? Libertà di contributo effettivo, sia di collaborazione che di critica e controllo, nell’ambito di una fede e di una direttiva politica comune. Più che libertà, dovere. Questo è il regime di stampa implicito nel Manifesto di Verona per la Repubblica Sociale Italiana, regime che esclude naturalmente qualsiasi facoltà di propaganda per idee antinazionali o antisociali, per interessi personali o di gruppi in contrasto con gli interessi generali del Paese [...]»[1].

Il problema del ruolo, dei contenuti e dei principi cui doveva ispirarsi la stampa della R.S.I. fu uno dei temi maggiormente dibattuti all’interno del Partito fascista repubblicano. Il brano di Giorgio Pini, riportato in nota, rappresenta la posizione assunta dalla maggior parte dei direttori dei grandi quotidiani e da una buona parte dei giornalisti che parteciparono al dibattito[2].

In realtà, i giornalisti protagonisti della R.S.I., quelli che uscirono allo scoperto siglando o firmando per esteso gli articoli, non furono molti: la maggioranza restava nell’anonimato, che voleva significare non adesione o addirittura opposizione al nuovo fascismo[3].

La guerra e la disgregazione del movimento fascista avevano creato enormi difficoltà al ripristino di un sistema d’informazione controllato da uno stato neoricostituito ed ancora evanescente quale era la R.S.I. Compatibilmente con questa situazione, le polemiche sulla stampa della Repubblica Sociale furono vivaci e testimoniarono l’esistenza di rinnovate energie e desideri di ricostruzione.

Spesso questa vitalità si esprimeva in modo caotico evidenziando le fratture che esistevano non solo fra le varie tendenze del partito, ma anche fra gli organi preposti al controllo delle informazioni, come il Ministero della Cultura Popolare ed i giornalisti stessi che queste informazioni dovevano divulgare[4].

A sua volta, il Ministero della Cultura Popolare non godeva affatto dell’autonomia propria di un organismo statale, specialmente riguardo al controllo della stampa, che pure era uno dei suoi maggiori obiettivi. L’occupazione dell’Italia del Nord da parte delle truppe tedesche fin dagli inizi di settembre e la ricostituzione di uno stato fascista da essi voluta, doveva soprattutto rispondere alle esigenze della guerra in atto.

Uno stato fascista funzionante, pur nella sua disorganizzazione, poteva rappresentare un valido strumento politico per i tedeschi che avrebbero così avuto minori difficoltà nel disporre dei settori più importanti della amministrazione della R.S.I..

Il controllo da essi esercitato sulla stampa fu opprimente e, in alcune zone, come il Litorale Adriatico e le Prealpi, rispettivamente sotto l’amministrazione dei due gauleiter Friedrich Reiner e Franz Hofer fu totale[5]. La propaganda Staffel, diretta dall’incaricato speciale Krause, era l’ufficio che controllava tutti i giornali dell’Alta Italia e, nel farlo, varcava di molto il limite di intervento stabilito, di comune accordo, dalle autorità tedesche ed italiane. Tale limite prevedeva una censura tedesca nei soli casi di avvenimenti riguardanti le operazioni militari ed era stato fissato in seguito ad un intervento del Ministro della Cultura Popolare presso il «Duce» affinché questi prendesse accordi con l’ambasciatore Rudolph Rahn per evitare la soppressione di giornali italiani e la pesante influenza sui direttori da parte delle autorità tedesche:

«[…] Il Ministero ha bisogno di poter controllare ed indirizzare pienamente, in collegamento con i competenti organi dell’Ambasciata, la stampa e la radio. È necessario ed urgente, quindi, che il Ministro Rahn intervenga autorevolmente presso i Comandi Militari invitandoli a desistere da una attività che ingenera confusione nei giornali e confusione nei direttori […]»[6].

In effetti, la riorganizzazione del Ministero della Cultura Popolare, attuata da Ferdinando Mezzasoma nel novembre 1943, presupponeva la piena ed autonoma azione del governo italiano. I principi di unità di indirizzo politico ed operativo che avevano animato la riforma ministeriale, si traducevano nel decentramento delle forme di controllo sulla stampa e sulla propaganda, affidate agli addenti stampa provinciali. Questi, di fatto esautorati dai tedeschi e dagli stessi prefetti italiani, non furono in grado di esercitare pienamente i loro ampliati poteri.

A livello centrale, fu istituito un Comitato consultivo per la propaganda, composto da cinque giornalisti, responsabili di altrettante sezioni del Comitato, che avrebbero dovuto «dare a ciascun settore una inquadratura unitaria e coerente e suggerire di volta in volta idee e iniziative propagandistiche»[7].

Numerosi altri provvedimenti per lo sviluppo di queste attività furono presi per tutto l’arco di tempo in cui il Ministero esplicò le sue funzioni.

Venivano emanate periodicamente, dal Ministro, alcune direttive generali per la propaganda che contenevano indicazioni su come trattare i maggiori problemi del momento sulla stampa, attraverso la radio o per il tramite di qualsiasi altra fonte.

A proposito dello svolgimento della guerra, quale settore di azione propagandistica, i giornali avrebbero dovuto parlarne con «serietà ed obiettività, senza euforie da un lato, e senza allarmismi dall’altro»[8]. Avrebbero dovuto demolire gli argomenti della propaganda avversaria documentandone la falsità e sviluppando nuovi metodi per influenzare, in modo consapevole e sistematico, le opinioni non solo dei fascisti, ma anche della popolazione residente nell’Italia liberata:

«[…] L’iniziativa fino ad oggi è stata quindi della propaganda nemica che con una perfetta conoscenza delle nostre correnti di idee e del nostro mondo politico ha saputo suonare le corde più sensibili fino a creare la frattura fra governanti e governati. Noi siamo rimasti in difesa, abbiamo smentito, ma non abbiamo contrattaccato. Ora che le armate dell’Asse sono sulla difensiva, la propaganda dovrà sferrare il suo attacco […]»[9].

Anche con riferimento alla situazione dell’Italia «invasa», altro caposaldo della propaganda fascista, vennero impartite direttive al fine di una possibile riconquista dell’opinione pubblica[10], ma nonostante le ripetute lamentele del Ministro, i tedeschi, molto più realisticamente, ostacolarono questo progetto non rispettando gli accordi per il finanziamento e l’attuazione di iniziative propagandistiche[11]. Pertanto, la risonanza degli argomenti che trattavano la situazione nell’Italia del Sud era circoscritta nei confini territoriali della Repubblica.

Nei bollettini periodici, emanati dal Ministero della Cultura Popolare, i temi della libertà e della «defascistizzazione» nell’Italia «invasa» occupavano un posto considerevole[12], anche se meno rilevante di quello riservato al mito dell’onore, del tradimento o della socializzazione.

Nel secondo capitolo del bollettino del 22 settembre 1944, intitolato Atrocità fasciste ed epurazione, si afferma:

«Sono di questi giorni i rapporti e i notiziari più diffusi sulle presunte “atrocità” tedesche e fasciste nell’Italia “non ancora liberata”. Queste notizie sono sintomatiche e tali da essere poste nel dovuto rilievo perché chi legge faccia le sue deduzioni. Infatti, nell’Italia “liberata”, gli Sforza, Scoccimarro e Berlinguer sono costretti a far procedere “l’epurazione solo sui maggiori ‘colpevoli’, che altrimenti la quasi totalità degli italiani sarebbe da epurare” sono loro parole!).

Ora delle due una: o il Fascismo è una quantità trascurabile e allora non si spiega come debba tanto turbare i sonni o la coscienza dei suoi nemici. O è una grande forza politica e allora epurata dalla porta rientrerà dalla finestra.

Quanto poi alle atrocità, basti leggere e ascoltare i quotidiani incitamenti all’agguato e al delitto per identificare da quale parte siano i criminali e i violenti»[13].

In linea di massima, i quotidiani rispettavano queste direttive, tuttavia le notizie sull’epurazione e sulla situazione politica nell’Italia liberata assumevano la caratterizzazione propria del giornale che le riportava.

Così alcune notizie sono commentate, altre sono brevi segnalazioni sugli arresti di fascisti effettuati al Sud ed altre ancora riguardano l’emanazione di nuovi provvedimenti legislativi per le sanzioni contro il fascismo. Nel tentativo di dare un giudizio complessivo sugli articoli esaminati, si deve tener conto della considerevole entità numerica, mentre, lunghezza, titolazione e firma si rivelano del tutto trascurabili.

Il quotidiano «Regime Fascista», ad esempio, diretto da Roberto Farinacci ed espressione dell’ala più intransigente del partito, corredava le notizie di procedimenti legali nei confronti dei fascisti con istigazioni alla vendetta basata sul principio: «occhio per occhio dente per dente».

Altrettanto sembra fare «Il Resto del Carlino», diretto da Giorgio Pini, che pure rappresentò la corrente revisionista dell’autoritarismo fascista ante 25 luglio. Bisogna tuttavia osservare che molti degli articoli che annunciavano future rappresaglie da attuare come reazione ai provvedimenti epurativi, comparvero oltre che su «Il Resto del Carlino», anche su altri quotidiani nazionali e provinciali; probabilmente si trattava di notizie di agenzia che i vari giornali riprendevano più o meno integralmente. Nella maggior parte dei casi, le notizie sull’epurazione riportate da «Il Resto del Carlino», anche se brevi e nel contesto di lunghi articoli riguardanti la situazione «drammatica» dell’Italia del Sud, avevano un commento di fondo che solitamente esprimeva disapprovazione e condanna per i metodi usati nell’epurare e poneva in evidenza gli effetti negativi da essi provocati.

Non è possibile dire altrettanto de «La Stampa», quotidiano diretto da Concetto Pettinato, prevalentemente interessato a questioni sociali e non esente da accenti di operaismo demagogico. Il direttore apparteneva anch’egli, come Giorgio Pini, alla corrente di conciliazione nazionale che mirava ad una «distensione psicologica con la parte ribelle, al fine di una pacificazione, evitando violenze e rappresaglie alle violenze della parte opposta»[14]. La maggioranza degli articoli sull’epurazione, apparsi soprattutto dal luglio 1944 in poi, sono notizie brevi o telegrafiche, semplici note informative senza alcun commento. Quantitativamente rilevanti, segnalazioni ed articoli apparivano in coincidenza di nuovi provvedimenti epurativi adottati dal governo antifascista, specialmente con riferimento a quelli emanati nella capitale dopo la sua liberazione.

Anche «Il Messaggero» riporta brevissime notizie, inserite per lo più nella rubrica «Onde Corte», che essendo strutturata in trafiletti di vario contenuto, non permetteva l’inserimento di commenti alla notizia. Probabilmente «Il Messaggero» dedicò scarso spazio all’epurazione, anche perché la legge fondamentale sulle sanzioni contro il fascismo, che sollevò commenti e critiche su tutta la stampa fascista, fu promulgata nel luglio 1944, quando ormai la liberazione della capitale da parte degli Alleati era già avvenuta. Inoltre, la popolazione romana viene descritta dalla stampa fascista come non particolarmente interessata agli avvenimenti che si susseguivano in quei giorni: questo spiegherebbe l’assenza di accenni all’epurazione anche quando non sarebbe mancata l’occasione di parlarne. Molti sono invece gli appelli alla pacificazione fra le opposte fazioni, sotto forma di articoli, talvolta firmati dal direttore, Bruno Spampanato, che proprio a causa delle sue aperture fu sostituito nel maggio 1944[15].

A questo proposito intervenne anche il «Corriere della Sera», pubblicando vari articoli che auspicavano la fine della guerra civile e la costituzione di un fronte unico contro gli «invasori». In particolare, l’articolo di fondo del 9 ottobre 1943 affrontava il problema della conciliazione nazionale commentando positivamente il provvedimento del governo della R.S.I. per la riassunzione in servizio di tutti coloro che a datare dal 25 luglio erano stati estromessi dal loro posto di lavoro per ragioni politiche:

«[…] L’atto arbitrario contrario al più elementare sentimento di giustizia, non poteva non determinare, ora che le ragioni di incompatibilità su cui le rappresaglie si fondavano sono venute a cadere, un atto di completa riparazione. Ciascuno dei colpiti deve tornare al proprio posto di lavoro […] senza che nuovi turbamenti si producano. È ora che la lotta fra le fazioni si plachi e che gli italiani capiscano che di fronte alla tragedia della Patria non c’è che un dovere: stringersi intorno all’unica bandiera, far tacere ogni rancore, affratellarsi […]»[16].

Nell’articolo viene esplicitamente dato un giudizio sulle prime misure contro il fascismo emanate dal governo dei «45 giorni». Viene presa posizione nei confronti di quei principi di risanamento dello Stato cui tali provvedimenti si ispirarono e che costituirono, successivamente, i presupposti fondamentali dell’epurazione. I messaggi che il giornalista ha voluto inviare all’opinione pubblica con questo articolo, sono sostanzialmente due: il primo indica come obiettivo primario la continuazione della guerra, il secondo suggerisce di reagire alle misure antifasciste tentando di sopire il rancore nei confronti degli avversari nel comune intento di difendere la patria:

«[…] L’ordine di sanare l’anormale situazione creatasi dal 25 luglio in poi in seguito alla prescrizione di tanti lavoratori che di null’altro erano colpevoli se non di aver fedelmente servito la Patria nei ranghi di un partito che si identificava con la Nazione, non ha, non deve avere nessun carattere di rappresaglia. Si ripara ad una ingiustizia ristabilendo l’imperio della legge. Ma se all’atto arbitrario dovesse seguire un atto di imposizione altrettanto infondato non si farebbe che perpetuate quell’accanimento fazioso che deve necessariamente cessare. Anche coloro che hanno influito ad estendere gli effetti della persecuzione politica nell’ambito professionale e familiare devono riconoscere di aver infranto una norma di convivenza e di giustizia. Il diritto al lavoro ha le sue basi fuori della politica […]. Rappresaglie, è stato detto, non ce ne dovranno essere. Sarebbe assurdo che all’ondata dei licenziamenti che colpirono i fascisti dovesse seguire una contro ondata che estromettesse gli antifascisti, specialmente in un momento in cui tutte le forze del Paese debbono mobilitarsi per la ripresa […]»[17].

Queste posizioni furono comuni a molti giornalisti della R.S.I., anche se ciò non traspare facilmente scorrendo i vari giornali. Infatti, i problemi di spazio ed un certo appiattimento di idee, dovuto tanto alle esigenze belliche quanto alla pesantezza dei controlli, facevano sì che la maggior parte delle notizie riportate fossero note di agenzia dallo stile secco e talvolta anodino[18].

Proprio in relazione agli atteggiamenti da assumere nei confronti della «defascistizzazione», gli stralci di agenzia differiscono notevolmente dal giornalismo personalizzato. Rivestono, infatti, il carattere di direttive alla stampa piuttosto che di notizie mentre l’articolo del singolo giornalista, quale mezzo per esprimere opinioni personali, si discosta sensibilmente dalla povertà di argomenti e dalla carenza di riflessioni delle note di agenzia e delle emanazioni del Ministero della Cultura Popolare:

«Nuovi odiosi atti di persecuzione contro i patrioti, sono segnalati da Roma. L’italo-americano Poletti, il famigerato governatore militare dell’Urbe, si accanisce di preferenza contro i funzionari delle pubbliche amministrazioni. A tutt’oggi ammontano a diverse migliaia i dipendenti degli organi statali e parastatali licenziati, sottoposti ad ogni genere di vessazioni e gettati sul lastrico insieme alle loro famiglie, solo per aver mantenuto un atteggiamento coerente e non essersi prestati alle manovre dei mestatori politici […]. Di fronte a questi metodi indegni di gente civile, ha prodotto la più viva impressione in questi circoli culturali la dichiarazione della Radio Italiana che ha detto: “Sarà bene precisare che le autorità della Repubblica hanno nelle loro mani numerosi ostaggi. Nei confronti di costoro, se occorrerà, sarà proceduto con atti di inflessibile giustizia, in segno di rappresaglia, per le inumane persecuzioni a carico di persone ree di fedeltà alla Patria […]”»[19].

Il brano citato è un dispaccio di agenzia che, come accennato, si differenzia dalla maggioranza di quelli emanati sull’argomento, poiché lo stile non ha la durezza né la violenza che spesso li contraddistingue. Infatti, ricorrono con frequenza frasi come «Il sangue al di qua ed al di là del Garigliano grida vendetta; i traditori, tutti i traditori ricordino che il piombo italiano saprà fare giustizia»[20] , per lo più inserite in articoli che si riferiscono alla situazione dell’Italia «invasa», pur senza trattare specificamente l’epurazione. L’opportunità di esprimere un giudizio sull’epurazione viene talvolta fornita dai processi nei confronti dei fascisti che si celebrano al Sud:

«Il processo promosso dalle autorità governative bonomiane contro il questore repubblicano Caruso, si è concluso con la condanna a morte di quest’ultimo, a quanto informa Radio Roma. È stata presentata domanda di grazia. Si sarebbe così chiuso il grande processo inscenato per soddisfare le brame sanguinarie dei vari Sforza e Togliatti che, come si è visto, hanno ben eccitato la teppaglia e credono propiziarsela con la condanna a morte del questore Caruso. Ciò non può che destare negli animi degli italiani che hanno il culto della giustizia il più fiero sdegno e se un fatto del genere dovesse essere portato a compimento, tutte le rappresaglie da parte del Governo della Repubblica Sociale sarebbero più che giustificate. A Roma si permette come cosa più che normale il linciaggio dei cittadini, si lascia libero sfogo alle passioni di parte, si condanna a morte con simulacri di processi funzionari ed autorità ritenendoli responsabili dello scrupoloso assolvimento dei loro mandati. Sono cose che richiamano alla ribellione ed ispirano alla più fiera vendetta […]»[21].

Numerosi altri spunti per parlare di epurazione si presentavano quando la stampa della R.S.I., fedele al mito dell’onore, descriveva figure di uomini che furono apertamente fascisti o che vissero «lautamente» durante il regime, ma che dopo il 25 luglio si schierarono con gli avversari del fascismo.

Tutta la stampa repubblicana, dai grandi quotidiani ai fogli di provincia, alle note scritte da Mussolini, non mancò di pubblicare prove e documenti sui trascorsi fascisti di uomini che ora occupavano una posizione politica di rilievo nell’Italia del Sud. Ciò che differenzia gli uni dagli altri articoli è il modo in cui lo stesso argomento viene affrontato:

«Intanto l’epurazione, principale fatica del governo Bonomi, non risparmia nessuno. Oggi è la volta dei traditori schieratisi dopo l’8 settembre dalla parte dei vili, e precisamente allo scopo di sfuggire alla giusta pena: domani inevitabilmente toccherà agli epuratori di oggi […]»[22].

Alcuni articoli forniscono elenchi di persone epurate corredati da un breve commento analogo a quello sopra riportato; altri, invece, prendono di mira quei personaggi che avevano ricoperto una carica politica o una funzione pubblica durante il fascismo. A proposito del deferimento al Tribunale Militare di Domenico Soprano, prefetto di Napoli durante i «45 giorni», il «Corriere della Sera» interviene per ricordare che gli scritti e le opere di quest’ultimo durante il regime erano ispirati da «fede» fascista:

«[…] E forse per far dimenticare il suo passato si dimostrò quanto mai zelante nelle persecuzioni e nelle diffamazioni antifasciste. Evidentemente però tanto zelo non gli è servito ad entrare nelle grazie dei nuovi padroni […]»[23].

Il concetto veniva ripreso anche da altri giornali ogni qualvolta se ne presentava l’occasione; in particolare, ciò accadeva quando giungevano notizie di provvedimenti adottati dal governo del Sud a carico di personalità ex fasciste, che avevano ricoperto cariche di minore importanza.

In particolare, una consistente quantità di articoli fu dedicata al capitano Giuseppe Giulietti che, schieratosi con gli angloamericani, riprese la sua attività lavorativa dopo la fusione dell’Unione lavoratori del mare con la Federazione italiana lavoratori del mare. Egli aveva collaborato pienamente con il regime, e la stampa fascista, dopo aver appreso la notizia del suo «tradimento», pubblicò alcune sue calorose lettere indirizzate a Mussolini:

«[...] Se dunque, la defascistizzazione è una cosa seria nell’Italia invasa, il capitano Giulietti dovrebbe essere sottoposto al più rigoroso procedimento penale previsto per tutti coloro che hanno trascorsi fascisti. La materia davvero non manca»[24].

Analogo trattamento fu riservato, dai quotidiani fascisti, a Giacomo Paolucci de’ Calboli, ex delegato alla Società delle Nazioni, ex presidente dell’Istituto Luce ed ex ambasciatore a Bruxelles e poi a Madrid, il quale fu richiamato dalla Spagna per rispondere del suo passato fascista davanti alla commissione per l’epurazione[25].

Nei confronti dei personaggi più noti, naturalmente, l’atteggiamento era diverso. L’accusa si personalizza, il tono è perentorio ed anche lo spazio dedicato dal giornale alla notizia è sensibilmente maggiore. I casi clamorosi furono pochi ed il riflesso più o meno ampio ottenuto sulla stampa da questi personaggi dipendeva soprattutto dalla notorietà che essi avevano raggiunta durante il regime e dalla facilità con cui avevano saputo disfarsi del passato fascista, al momento opportuno e nel volgere di pochissimo tempo.

Vi sono numerosi articoli riguardanti Dino Grandi, il principale dissidente alla seduta del Gran Consiglio[26], altri sul duca Pietro Acquarone, Ministro della Casa Reale e senatore fascista, altri ancora che descrivono le figure di Ettore Casati, Primo Presidente della Corte di Cassazione nel 1941, Tito Zaniboni, autore dello sventato attentato contro Mussolini nel 1925[27] ed ora nominato Alto Commissario per l’epurazione.

I bersagli preferiti erano senz’altro i responsabili della resa a discrezione: Pietro Badoglio, il Re Vittorio Emanuele III, i generali che si arresero all’esercito degli angloamericani ed i promotori delle misure contro il fascismo quali Sforza, Scoccimarro, Togliatti ed altri.

Gran parte dello spazio concesso dai giornali alle passate attività di questi personaggi fu riservato, in particolare, a Pietro Badoglio. Una conversazione dal titolo Badoglio sogna trasmessa da una radio fascista, «Radio Roma», e riportata integralmente dal quotidiano «L’Arena» il 5 giugno 1944, è indicativa del contenuto degli articoli pubblicati da tutta la grande stampa sul ruolo svolto dal Maresciallo nel processo di «defascistizzazione»[28]:

«Badoglio sogna d’essere sul palco col cappuccio rosso in testa, la scure in mano, di fronte al ceppo. Ora gli accompagnano le vittime da giustiziare. La legge è stata applicata: la severa legge che qualifica criminale l’attività fascista durante tutta l’esistenza del regime e condanna all’ergastolo o alla pena di morte i colpevoli […]. I condannati a morte sono al palco. Badoglio ne riconosce qualcuno, e ancora altri e molti. Egli ha il cappuccio del boia sul volto e non può essere riconosciuto. I condannati hanno riconosciuto nelle aule dei tribunali soltanto il Re, nelle immagini che pendono dalle pareti: il Re, nel nome del quale, il loro crimine fascista fu compiuto e la relativa condanna è stata pronunciata [...]. Quanti ne riconosce, Badoglio: uomini illustri ed oscuri, vecchi criminali e delinquenti occasionali, tutti intorno al palco in attesa del proprio turno [...]. Badoglio riconosce quei delinquenti, ma cerca di non farsi riconoscere. Egli vorrebbe usare più braccia ed altrettante scuri, quanti sono i criminali da giustiziare, da mettere finalmente a tacere […]. Intorno al palco la folla dei condannati a morte è paurosa. Quanti criminali in vent’anni! Vi sono anche alcuni giovani, reduci di guerra, contadini, uomini di pensiero: tutti colpevoli del crimine di attività politica fascista […]. Sono tutti colpevoli, tutti criminali in attesa di esecuzione, non vi sono spettatori, né ve ne possono essere [...]».

Il racconto di questo fantasioso ed ironico sogno continua con la descrizione dell’esecuzione capitale di uno dei condannati, il quale, avvicinatosi al «boia» Badoglio, gli strappa il cappuccio e con esso la testa. Attraverso metafore burlesche di sicuro effetto su lettori sensibili alle facezie del linguaggio «repubblichino» si esprimevano, quindi, le critiche al complesso di leggi che regolavano il processo di «defascistizzazione».

L’entrata in vigore della più recente legge in materia, a partire dalla data di pubblicazione del brano sopracitato, risaliva al 26 maggio 1944: il R.D.L. n. 134 che aboliva l’Alto Commissariato per l’epurazione e lo sostituiva con un altro «per la punizione dei delitti e degli illeciti arricchimenti del fascismo». L’emanazione di nuovi provvedimenti costituiva sempre una buona occasione per commentare i principi ispiratori del sistema giuridico instaurato dopo la caduta del fascismo. Le categorie di persone suscettibili di essere sottoposte a giudizi epurativi comprendevano una infinità di casi. Il provvedimento più importante fino ad allora preso dal governo Badoglio era il R.D.L. n. 29 del 28 dicembre 1943 che prevedeva giudizi a carico di chiunque avesse rivestito il ruolo di squadrista, marcia su Roma, gerarca o sciarpa littorio[29].

Fu chiara fin dall’inizio tanto ai fascisti quanto agli antifascisti l’oggettiva difficoltà a perseguire gli scopi che le leggi si prefiggevano. Ovviamente le motivazioni che animavano le critiche degli uni e degli altri erano di diversa natura.

Gli stessi antifascisti che promossero le misure per la «defascistizzazione» dello Stato si resero presto conto delle enormi difficoltà ad avviare un sistema di epurazione pratico ed efficiente. Infatti, nonostante già esistesse una parte degli strumenti legislativi necessari per l’attuazione di tale processo, questo ebbe luogo soltanto dopo la liberazione di Roma, nel giugno 1944[30].

La stampa della R.S.I. riporta in varie occasioni gli interventi critici sull’epurazione degli uomini del governo bonomiano:

«Anche i codici mussoliniani saranno epurati per accordarli con i principi democratici. Epurazione, sì, ma con judicio, ha detto manzonianamente il ministro bonomiano della giustizia, Tupini, perché le realizzazioni compiute dal fascismo anche nel campo della procedura son tali che nemmeno lui può negarle. Anzi, ha dovuto ammettere che “i progressi acquisiti hanno avuto eco profondo anche in altri Paesi di alta e bassa civiltà”. Quasi a confermare questa affermazione di Tupini, un avvocato italiano si è affacciato dal microfono di Nuova York per sostenere che “non tutte le leggi contenute nei codici mussoliniani devono essere abolite in quanto fasciste, e ciò perché abolire in blocco tutte le norme sociali perché fan parte dei codici fascisti, sarebbe un controsenso e un assurdo” […]. Verso costui nutriamo un sincero ed umano sentimento di pietà: per aver detto un po’ di bene del fascismo, egli rischia indubbiamente di essere gettato sul lastrico […]. E la cosa è tanto più grave in quanto l’avvocato Viganò è un dichiarato antifascista»[31].

Anche il filosofo Benedetto Croce espresse le sue riserve nei confronti dei metodi con cui l’epurazione veniva condotta. Sul «Corriere della Sera» del 9 agosto 1944 comparve un articolo, non firmato, dal titolo La sarabanda dell’epurazione, che riporta alcuni brani di una lettera di Croce pubblicata su «Risorgimento Liberale», nella quale il filosofo ammoniva gli uomini di governo a fare «giustizia e non vendette»[32]. L’articolo, quasi interamente dedicato all’epurazione, oltre a fornire notizie sugli ultimi provvedimenti contro 309 senatori dichiarati decaduti dall’Alta Corte di Giustizia, emana un giudizio su tutto il sistema epurativo, tanto più incisivo in quanto stimolato dalle critiche del filosofo:

«[…] [Dalla lettera] risulta con che animo Croce assiste alle carnevalate vendicative della cosiddetta epurazione e che razza di spettacolo debba offrire questa orgia di impotenti resuscitati […]. La sarabanda di Roma deve essere di una specie vile se un avversario irreconciliabile del Regime sente il bisogno di fare un richiamo come questo».

A loro volta gli Alleati, pur volendo conservare intatte le strutture dello Stato, mostrarono una maggiore decisione nell’epurare manifestando, in più di una occasione, il loro dissenso dal totale ricambio del personale amministrativo. Misure di questo genere erano irrealizzabili poiché avrebbero paralizzato il funzionamento degli organi dello Stato.

Le critiche rivolte dai fascisti all’epurazione, invece, ricalcavano i temi delle ingiustizie e parzialità dei metodi epurativi; della demagogia di leggi e uomini che volendo colpire il fascismo in tutte le sue manifestazioni raggiungevano livelli persecutori; della campagna denigratoria che individuava ovunque furti, corruzione, danni allo Stato compiuti dai fascisti; del ruolo degli Alleati i quali, in veste di invasori, avevano interesse a distruggere l’unica forza che si opponeva alla «colonizzazione» dell’Italia; infine, della denuncia di connivenza col fascismo di uomini che ora si dichiaravano antifascisti.

Fra i personaggi processati che interessarono la stampa della R.S.I., il generale Mario Roatta fu tra i casi che ottennero l’eco più vasto. Non soltanto perché egli, dopo aver ricoperto alte cariche militari durante il regime, fu uno degli uomini dell’armistizio, ma anche perché riuscì incredibilmente a fuggire dall’ospedale militare presso il quale era detenuto, mentre si stava svolgendo il processo nei suoi confronti. La fuga del generale Roatta sollevò grosso scalpore anche sulla stampa antifascista poiché erano evidenti le collusioni di organismi che avrebbero dovuto tutelare il rispetto del nuovo ordine democratico. La ricerca delle responsabilità e le congetture sulle complicità si protrassero a lungo sulla stampa di entrambe le parti, ma non portarono ad alcuna pratica soluzione.

Un complesso di fattori, che non è possibile analizzare in questa sede, determinò quella assurda situazione, che ebbe comunque il vantaggio di rendere chiare e inequivocabili le incongruenze e le disfunzioni del processo epurativo. Infatti, non solo si verificò l’assurdo della fuga di un imputato, ma il processo si concluse con una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia del 12 marzo 1945, che «passò in giudicato per alcuni condannati, mentre per altri venne ampiamente annullata, in contrasto con la precisa disposizione del Decreto Legislativo 13 settembre 1943, n. 198, che stabiliva la esclusione di ogni mezzo di impugnazione per le sentenze dell’Alta Corte di Giustizia»[33]:

«Il caso Roatta diventa molto interessante. La fuga del generale ci lascia perfettamente indifferenti. Sebbene i giornali ed i microfoni dell’Italia invasa gareggino a chi strilla più forte che è scappato il “fascista”, che connivenza fascista ci deve essere nell’imbrogliata faccenda, che tutto dipende dal modo con cui è stata condotta la epurazione, la quale si sarebbe risolta in una farsa, è fin troppo chiaro che Roatta è un falso fascista ed un autentico traditore. I voti dei veri fascisti sono per la cattura e la condanna del più intimo e fattivo collaboratore del Re e di Badoglio. Ma l’interesse nostro al caso Roatta è un altro. L’episodio ha messo improvvisamente in luce tutte le menzogne politiche dell’Italia regia: l’estrema debolezza del governo di Bonomi, le rivalità dei partiti e i contrasti profondi che esistono fra la sedicente democrazia italiana e i suoi fondatori, cioè gli invasori […]»[34].

La stampa fascista dedicò ampi articoli al caso Roatta e dal principio dell’anno 1945, data in cui ebbe iniziò il processo, l’argomento epurazione fu trattato quasi sempre in relazione ad esso. Inoltre il processo Roatta, che era il quarto celebrato dinanzi all’Alta Corte di Giustizia, offriva lo spunto per descrivere la situazione politica e sociale della capitale. Si erano infatti già tenuti a Roma i processi contro l’ex questore della città, Caruso, l’ex governatore della Banca d’Italia, Azzolini, e contro i generali Pentimalli e Del Tetto:

«Le agenzie di informazione angloamericane hanno trovato nella fuga del generale Roatta dall’ospedale di Roma, in processo in corso, un interessante diversivo da propinare, in abbondanti dosi, alla stampa romana per distrarre la gente dai problemi più immediati e assillanti. Una bella avventura romanzata tempestivamente buttata là, fra il preoccupante momento alimentare e una dura necessità di occupazione, ha quasi sempre un effetto di alleggerimento particolarmente apprezzabile […]. Per il momento bastano le indagini, le inchieste, le taglie, gli arresti dei più o meno responsabili, gli interrogatori della moglie del generale, le destituzioni e le sostituzioni; le campagne di stampa che cercano, come il solito, nelle più intime sozzure di Tizio e di Caio le sozzure della strana avventura […]»[35].

Il carattere di diversivo che l’epurazione rivestiva, a giudizio della stampa fascista, trovava una ragione di essere nella difficile situazione della popolazione dei territori liberati. La carenze alimentari e dei trasporti, la difficile ricostruzione del nuovo Stato democratico, la guerra in atto, non permettevano al singolo individuo di interessarsi a problemi che non riguardassero il soddisfacimento dei suoi bisogni primari. Le polemiche sull’epurazione sembravano essere appannaggio della classe politica ed intellettuale antifascista e nonostante si cercasse di coinvolgere l’opinione pubblica nella «defascistizzazione» con l’introduzione di giudici popolari nei processi epurativi, quest’ultima mantenne il suo sostanziale distacco.

Nella capitale, tutto ciò sembra essere particolarmente accentuato: la stampa fascista riporta spesso episodi che rivelano un generico disinteresse dei romani nei confronti delle misure epurative. A proposito della rimozione «della lapide dei caduti fascisti che ricordava la rivoluzione», «La Stampa» scrive: «[…] la rimozione ha dato la stura ai soliti discorsi, che non hanno però trovato alcuna eco nella cittadinanza»[36].

Da ciò una profonda critica alla politica dei governi democratici e alla loro incapacità od impossibilità di risolvere i problemi che rendevano intollerabile la vita quotidiana:

«[…] Il governo Bonomi, invece di risolvere problemi gravi e vitali, si perde fra commissioni, sottocommissioni oppure ordina l’allargamento dello spazio riservato al pubblico nell’Aula della Alta Corte di Giustizia. Quest’ultima trovata desterà grande interessamento fra i romani. In virtù della maggiore disponibilità dello spazio stesso potranno i romani assistere in massa compatta all’eminente grande processo che in nome della concordia, della libertà, della compattezza nazionale sarà trattato dall’Alta Corte di Giustizia da uno pseudo governo amico degli angloamericani»[37].

Anche il processo nei confronti dell’ex questore di Roma, Pietro Caruso, rappresentò un’occasione per alimentare, sulla stampa fascista, vivaci polemiche.

La popolarità di questo processo derivava, oltre che dall’essere il primo celebrato a Roma dopo la liberazione e, per di più, nei confronti di uno dei maggiori esponenti della polizia fascista, anche dal suo tragico svolgimento.

Pietro Caruso era imputato, fra l’altro, di aver collaborato con i tedeschi nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, fornendo loro i cinquanta detenuti richiesti per compiere la rappresaglia.

Il processo avrebbe dovuto aver luogo al Palazzo di Giustizia, il 18 settembre 1944, ma non fu possibile poiché una folla in tumulto, dopo aver travolto le barriere di sicurezza, irruppe nell’aula del processo con l’intenzione di linciare Pietro Caruso. Non riuscendo a raggiungere l’ex questore, che si trovava in una sala attigua, la folla riversò la sua ira su Donato Carretta, ex direttore delle carceri di Regina Coeli presente nell’aula del processo quale principale teste a carico dell’imputato. Dopo un orribile linciaggio, debolmente ostacolato dalla polizia italiana, Donato Carretta fu gettato nel Tevere ed ucciso spietatamente mentre cercava di non annegare.

L’esplosione di odio al processo Caruso fu duramente condannata dalla stampa italiana, sia nell’Italia liberata che nella R.S.I., come anche dai massimi dirigenti angloamericani. L’episodio tuttavia mise in luce le gravi responsabilità della polizia romana, che dal 15 agosto aveva ricevuto dall’amministrazione alleata la gestione dell’ordine pubblico.

Su queste responsabilità si focalizzarono principalmente le critiche della stampa fascista, che faceva in gran parte propria l’opinione dei corrispondenti stranieri. Una delle cause del tragico episodio fu individuata nella debolezza del governo Bonomi che non riusciva a garantire l’incolumità dei cittadini, mentre la polizia dava dimostrazione d’incapacità e di mancanza di volontà. Un’altra causa fu individuata nella campagna d’istigazione all’odio scatenata, a loro avviso, soprattutto dai giornali di sinistra:

«[…] Com’era da prevedersi, il processo iniziatosi in una selvaggia atmosfera di furore, è terminato con la condanna a morte dell’imputato pronunciata in nome di un governo che mesi or sono solennemente dichiarò di aver abolito la pena capitale. Ma Caruso è un fascista e di conseguenza la legge democratica, che dovrebbe essere in teoria eguale per tutti, come è scritto nelle aule giudiziarie, non ha valore per lui. Dopo il linciaggio più brutale consumato da una turba imbestialita che straziò ieri l’altro il cadavere del direttore di “Regina Coeli”, l’altro linciaggio legale perpetrato dai giudici togati. Dalle vicende del processo è apparso chiaro che Caruso è stato condannato per la sua fede e per la sua qualità di fascista, per una atroce vendetta da dare in pasto alla feccia assetata di sangue che costituisce i presidi armati dell’impotente Governo Bonomi. Caruso non ha ucciso nessuno, non si è macchiato di alcun delitto, nessuna prova è stata raggiunta nei suoi confronti. Anche i testi a discarico gli sono stati negati, ma evidentemente questo tragico simulacro di processo era arrivato alla sua conclusione ancora prima che si iniziasse […]»[38].

Fin dal momento della liberazione di Roma, la stampa fascista riserva agli avvenimenti della capitale un posto di primo piano rispetto a quelli che caratterizzarono la situazione politica e sociale nell’Italia «invasa». Particolarmente numerosi furono gli articoli che riportavano notizie sulle attività di riorganizzazione statale promosse dagli Alleati. Questi ultimi considerarono fra gli obiettivi primari anche l’epurazione e di conseguenza i loro interventi in questo campo furono più che sensibili.

L’interesse degli angloamericani per una attuazione rapida ed effettiva dell’epurazione trovava la sua ragione d’essere nell’esigenza bellica alla quale tutto era subordinato.

Sicuramente gli Alleati, ed in particolare gli americani, nutrirono sincere speranze nell’imminente processo di democratizzazione dell’Italia, e lo incoraggiarono. Ma questo processo doveva svolgersi entro i limiti della compatibilità con le esigenze militari e politiche dei due paesi di lingua inglese.

L’immediata sostituzione di prefetti e di altre autorità locali fasciste con uomini di più o meno dichiarata fede antifascista, da parte degli Alleati, aveva lo scopo di mantenere intatta o funzionante la struttura amministrativa statale. Gli uomini prescelti, per ricoprire i posti lasciati vuoti dai fascisti epurati, garantivano l’appoggio talvolta incondizionato alle truppe di occupazione e ciò costituiva senza dubbio un punto a favore della sicurezza militare e della continuità della macchina burocratica.

Riguardo alla punizione dei delitti fascisti, gli Alleati furono inizialmente favorevoli, ma in seguito la considerarono un’attività di secondo piano rispetto alle necessità più urgenti del momento. Infatti, ogni qualvolta la sostituzione di un fascista pregiudicava seriamente il funzionamento di una qualche struttura tecnica[39], derogarono al principio di «colpire in alto ed indulgere in basso» stabilendo la necessità di un loro preventivo assenso per la destituzione di alti funzionari.

In relazione all’atteggiamento della stampa fascista nei confronti degli Alleati, ci sembra opportuno dare rilievo ai soli articoli che permettono di individuare, sia pur approssimativamente, la linea di demarcazione fra la propaganda che strumentalizzava l’epurazione e l’autentica consapevolezza fascista degli insuccessi della «defascistizzazione»:

«Radio Bari informa che sono in corso le istruttorie per processi a carico di alcuni fascisti, i quali devono rispondere dei reati previsti dalla legge badogliana per i delitti commessi durante il regime. Fra i chiamati a rispondere sono: Grandi Dino [...], Frignani Giuseppe [...], Mauro Achille [...], Soprano Domenico […], Cilena Domenico […]. È stata inoltre proposta la devoluzione a favore dello Stato dei patrimoni, di dubbia provenienza, esistenti nell’Italia “libera” di: Caradonna Giuseppe, Crollalanza Araldo, Rossoni Edmondo e Starace Achille. Mentre si imbastiscono questi procedimenti, ispirati da livore di parte e dall’istinto di vendetta, e che - a parte i traditori, i quali raccolgono quello che hanno seminato - vengono a colpire anche uomini integerrimi, rei solo di aver servito lealmente il loro paese, a Roma i “liberatori” imperversano sotto un’altra forma: la destituzione dei patrioti dagli uffici. Agisce per conto loro il colonnello americano Poletti, che al nome sembrerebbe oriundo italiano e che comunque sarebbe un rinnegato […] egli si è subito dato all’opera di destituzione dei fascisti nelle amministrazioni civili, senza preoccuparsi delle conseguenze che per le stesse non tarderanno a farsi sentire. Infatti, nonostante che molti siano gli aspiranti a posti di responsabilità, la delicata macchina dell’organizzazione della vita pubblica romana non potrà non risentirsene gravemente, considerando che alla competenza viene sostituita l’incompetenza, e che a individui degni di considerazione e di rispetto succedono, sovente, avventurieri desiderosi di cariche e di prebende […]»[40].

In effetti, gli uomini di cui si servirono gli Alleati per ricostituire una più sicura rete amministrativa non furono sempre scelti con oculatezza. A proposito della rimozione dei fascisti in Sicilia effettuata nel periodo dei «45 giorni», lo stesso Lord Rennel, capo degli affari civili del Governo Militare Alleato, aveva affermato che molti dei suoi ufficiali «caddero nella trappola di scegliere chi era più disponibile e sapeva fare la miglior propaganda di se stesso, o in quella di seguire il consiglio dei loro autonominati interpreti che avevano imparato un po’ d’inglese durante il loro soggiorno negli Stati Uniti. Il risultato non era sempre felice […] tutto ciò che si poteva dire di alcuni di questi uomini era che essi erano tanto decisamente antifascisti quanto indesiderabili da ogni altro punto di vista […]»[41].

Nonostante questa chiara consapevolezza delle difficoltà inerenti al sistema di governo indiretto, aggravate dalla scarsa conoscenza della realtà politica, sociale e culturale dell’Italia, gli Alleati continuarono nella loro opera di destituzione automatica degli appartenenti al partito fascista, sollecitando in tal senso l’azione del governo italiano.

La sollecitudine degli Alleati nel sopprimere le organizzazioni fasciste fu talvolta ostacolata dal governo italiano. Tali iniziative avrebbero infatti comportato gravi conseguenze come il licenziamento di tutto il personale impiegato in un momento di cosi profonda crisi economica:

«[...] Lo stesso potrebbe dire Bonomi la cui volontà combacia in una maniera mirabile con quella dei suoi padroni. L’uno e gli altri si affannano a distruggere quanto il fascismo ha creato in vent’anni, mai si è verificato un accordo così completo tra pensiero ed azione, fra la mente che ordina e la mano che uccide […]. Tutte le organizzazioni politiche fasciste note alla autorità alleata sono state liquidate nell’Italia liberata […]. Il principio di distruggere le organizzazioni peculiari al sistema di governo fascista, è stato egualmente applicato alle organizzazioni economiche in Italia […]. Bonomi pubblicava il decreto che scioglie tutte le organizzazioni sindacali fasciste, affidandone la gestione dei beni a commissari e lasciando sfogo alla gara accaparratrice degli altri partiti. In verità questa decisione che si appella alla tanto declamata libertà sindacale, si risolve in un indebolimento della tutela dei lavoratori, che da oggi in poi vedono spezzarsi il loro fronte in diverse formazioni rivali e confini politici contrastanti. Il decreto però stabilisce che i contratti stipulati dal fascismo rimangono in vigore; con ciò si viene a riconoscere la bontà di quanto il regime ha operato per i lavoratori […]. Si distrugge secondo gli ordini degli invasori, l’organizzazione fascista, ma rimane la sua opera ispirata alla elevazione morale e materiale dei popolo [...]. Gli operai sono abbandonati a loro stessi e da oggi devono cercare la propria difesa negli scioperi e nelle agitazioni […]»[42].

L’atteggiamento degli Alleati nei confronti della riorganizzazione dello Stato italiano, ebbe comunque natura contraddittoria.

Ciò si manifestò, inizialmente, nella loro decisa volontà di «defascistizzare» lo Stato, alimentata dalla convinzione che il fascismo fosse un pericoloso nemico da combattere. In seguito, acquisita una maggiore conoscenza della situazione interna e realizzato lo stato di disfacimento del fascismo come regime e come movimento, a tale solerzia si contrappose un’azione di freno ai processi epurativi nei confronti dei fascisti ed alle vivaci polemiche che ne scaturivano.

Molto probabilmente gli Alleati non furono pregiudizialmente ostili a forme di rinnovamento statuale, ma il fatto di volersi servire della «amministrazione civile esistente» affidando il rinnovamento e la funzionalità della burocrazia alla capacità del singolo individuo non facilitò il processo di completa riorganizzazione delle strutture amministrative.

I neo-nominati a posti di responsabilità nella burocrazia avevano in comune essenzialmente due cose l’antifascismo, qualche volta non troppo disinteressato, ed una limitata libertà di azione derivante da una struttura sclerotizzata.

Il modo in cui guardavano gli Alleati all’Italia, dal punto di vista militare, non differiva troppo dalla concezione che i tedeschi avevano della R.S.I. Entrambi gli eserciti necessitavano di un sistema di organizzazione che garantisse l’ordine interno e nelle retrovie. Il primario interesse bellico sembrava dunque costituire un motivo, molto realistico, dell’empirismo un po’ contraddittorio degli Alleati.

In conclusione, furono compiuti molti sforzi nel campo della «defascistizzazione» ed i risultati ottenuti, almeno dal punto di vista di una logica efficientista e riformatrice quale fu quella degli Alleati, furono maggiori di quelli conseguiti dalle autorità italiane[43].

Non ebbero esiti altrettanto positivi, invece, i tentativi di migliorare le difficili condizioni economiche dell’Italia liberata. Poco si fece per soddisfare i bisogni di una popolazione stremata dalla guerra, dilazionando gli impegni per l’invio di aiuti (medicinali, viveri, ecc.) ed incrementando l’inflazione attraverso le requisizioni delle truppe di occupazione e l’imposizione di un cambio elevato[44].

La stampa della R.S.I. riflette l’immagine della presenza attiva degli Alleati, in materia di «defascistizzazione», attraverso una quantità di articoli che attribuiscono ad essi la responsabilità delle misure antifasciste. In un articolo, non firmato, del «Corriere della Sera», del 4 agosto 1944, dal significativo titolo Si amministra la giustizia come in colonia, viene descritto l’andamento di un processo in cui il pubblico ministero era un avvocato americano che si avvaleva dell’aiuto di un interprete, anch’esso di nazionalità americana:

«Ci si domanda come mai due americani in un processo fra italiani a Roma, soprattutto come mai un accusatore della Florida? La giustizia a Roma è dunque americana? La ragione e il torto fra gli italiani hanno dunque bisogno di essere tradotti in lingua straniera per essere intesi? Vuol dire che Roma è sotto un regime coloniale, come i paesi di scarso sviluppo civile, in cui il conquistatore amministra la giustizia agli indigeni. Questa è la condizione in cui i traditori hanno messo l’Italia. Questa è la stima che gli Americani e gli Inglesi hanno degli Italiani […]».

La maggioranza degli articoli riguardanti gli Alleati ha dunque i difetti propri del giornalismo della R.S.I. in quanto non va oltre la mera retorica che esaspera il luogo comune della patria invasa, sfruttata e schiavizzata dalle potenze straniere e trascura gli aspetti negativi di una guerra che era perduta. Una parte minore dedica realisticamente spazio alla descrizione della tragica situazione alimentare, della crescente disoccupazione aggravata dal processo epurativo e dei nuovi provvedimenti emanati tanto dalle autorità alleate quanto da quelle italiane.

In particolare, fu contro il colonnello Charles Poletti che si appuntarono la maggior parte delle critiche rivolte dai fascisti alle iniziative epurative degli Alleati:

«Il colonnello Poletti, un americano che d’italiano ha solo il nome, è diventato il vero factotum dell’Urbe, nella sua qualità di delegato della Commissione militare degli eserciti invasori; ma la sua attività, che dovrebbe provvedere alle estreme necessità alimentari della popolazione, si è concentrata tutta a dar la caccia ai funzionari fascisti. Una radio nemica ha comunicato che finora ne ha destituiti 3.750 […]. Così Poletti perseguita i fascisti, raccomanda alla popolazione di stringere la cinghia, e gli americani si divertono. La popolazione della capitale c’è rimasta male e stigmatizza aspramente quanto succede a Roma, dice il corrispondente da Roma del giornale svedese Aftonblandet: vuol dire che la popolazione della capitale comincia ad apprezzare che cosa vuol dire vivere sotto il tallone nemico […]. In una sua ordinanza il colonnello Poletti ha inoltre stabilito quali categorie di persone debbano essere considerate “fasciste”. Vi sono compresi, fra gli altri, tutti coloro che hanno ricevuto onorificenze e cariche in regime fascista: senatori, deputati, sindaci, scrittori che hanno esaltato il fascismo o collaborato col fascismo dopo il 1° maggio 1925 […]»[45].

Nei mesi di luglio ed agosto 1944, furono pubblicati, su quasi tutti i maggiori quotidiani della R.S.I., articoli che denunciavano il metodo della delazione remunerata contro i fascisti, introdotta, a loro dire, dal funzionario americano a Roma (non risulta che vi siano state ordinanze alleate che prevedevano un compenso a chiunque denunciasse un fascista, ma la quantità di articoli che riportano tale notizia è notevole)[46]. In particolare, essi fanno riferimento alle presunte ottomila lire di taglia fissate dal colonnello Poletti per ogni fascista denunciato. Questi poteva essere arrestato in base al semplice elemento della iscrizione al partito fascista anteriormente alla data del 25 luglio:

«[…] piovono le denunce e la polizia angloamericana sta procedendo a vaste retate nella capitale italiana. Oltre ai funzionari arrestati in quasi tutti gli uffici si è iniziata una vera e propria caccia all’uomo [...]»[47].

A questo proposito interviene il «Corriere Mercantile» di Genova con un articolo che descrive la tragica spirale inflazionistica e la lievitazione dei prezzi nella capitale. L’articolo mette in relazione l’ascesa dei prezzi con le «tariffe», più o meno elevate, che il colonnello Poletti avrebbe stabilito corrispettivamente al grado ricoperto, in seno al partito, dal fascista denunciato.

Lo scopo di tali articoli era di fare propaganda contro il clima di «caccia al fascista» già alimentato nei «45 giorni», ma le argomentazioni propagandistiche risultano in questa occasione piuttosto deboli ed ingenuamente false:

«[…] Questi i prezzi; passiamo ora alla voce “tariffe”. Come ci era noto, una taglia era stata imposta sui fascisti: chiunque ne poteva acchiappare uno di una qualche rinomanza politica aveva il guiderdone di ottomila lire, ossia l’equivalente onde comprarsi quattro bei chili di burro. Il sistema però non deve aver soddisfatto i “cercatori di fascisti”. “Come? - si saranno chiesti quei magnifici delinquenti - acchiappo un ex-sottosegretario di Stato e mi corrispondono ottomila lire come se si trattasse di un qualsiasi fiduciario di gruppo rionale? Dove se ne va la giustizia?”. “Giusto - deve aver ammesso il buon Poletti - bisogna discriminare”. Detto fatto, ha stabilito la seguente tariffa: “È stabilito un compenso di trentamila lire per chi indica un ex-federale, di ottomila lire per chi permette la cattura di un fascista che abbia coperto cariche”. Noi non abbiamo niente da obiettare. Negli stretti limiti del business deve vigere il motto: “dimmi che fascista acchiappi e ti dirò che compenso meriti”. Però vorremmo un po’ più di precisione. Ad esempio: chi indica un ex-federale, il quale sia anche squadrista, ha diritto al cumulo dei compensi? Se l’ex-federale fu successivamente espulso dal partito è egualmente compensabile al delatore? E a chi indica, sempre a mo’ di esempio, un governatore di colonia, un ex-ambasciatore fascista - ad esempio Badoglio - signor Poletti, quanto gli date? Noi abbiamo spiccatissimo il senso giuridico: tutto il mondo lo sa. Ragion per cui anche in fatto di “tariffe per i cercatori di fascisti” vorremmo un po’ più di precisione. Altrimenti dove se ne va la giustizia?»[48].

Carattere essenzialmente propagandistico ebbero anche tutti quegli articoli che ponevano l’accento sulla imminente ricostituzione del fascismo nell’Italia liberata, sulla vitalità del movimento fascista e sulla sua insopprimibilità. La maggior parte di essi traeva spunto dalle notizie sui vari processi ai fascisti che si celebravano nell’Italia meridionale e ribadiva l’assoluta inefficacia delle misure di epurazione emanate per distruggere il fascismo[49]. In particolare, in occasione di un processo svoltosi a Napoli contro quarantacinque giovani accusati di ricostituzione del partito fascista, la «Gazzetta del Popolo» interviene stigmatizzando tale processo come «una nuova prova della vitalità della rivoluzione fascista, la quale, essendo penetrata profondamente nei sentimenti del popolo italiano, non può morire ed essere stroncata con minacce, persecuzioni e processi perché sempre sopravvive con le sue idee e le sue realizzazioni»[50].

Tali argomentazioni diventavano plausibili se si tiene conto del fatto che fra le varie interpretazioni del ventennio fascista, si andava affermando, in quel periodo, grazie anche agli Alleati che se ne fecero promotori, la concezione del fascismo come malattia da estirpare. Sulla base di tale assunto si rendevano dunque necessarie efficaci misure di emarginazione politica nei confronti di tutti i fascisti.

Lo spirito delle sanzioni mirava, infatti, a punire questi ultimi nella convinzione che se essi fossero stati eliminati dalla scena politica, l’Italia avrebbe potuto riprendere la via della democrazia interrotta dall’esperienza fascista.

In realtà, il ventennio di Mussolini non costituiva una semplice parentesi della storia d’Italia. Esso non avrebbe potuto essere cancellato da una «defascistizzazione» solo nominale, che deludendo coloro i quali avevano operato per un effettivo rinnovamento, finì con il privilegiare la continuità dello Stato. Alla luce di queste considerazioni si spiegano in parte gli insuccessi del fenomeno epurativo. La difficoltà di distinguere nella maggioranza dei casi fra colpevole ed innocente invalidava l’applicazione delle sanzioni rendendole potenzialmente estensibili a tutti e nessuno.

Tale argomento venne ripreso dalla stampa fascista con un articolo di Francesco Scardaoni, direttore de «La Stampa». L’articolo non è esente da intenti propagandistici nel presentare il fascismo come una forza ancora viva in un momento in cui gli stessi fascisti, primo fra tutti Mussolini, erano ormai coscienti della disgregazione del movimento e della imminente disfatta:

«I nemici del fascismo, nella loro costante denigrazione, hanno detto trattarsi di una specie di malattia da cui occorreva liberare il mondo; anche se fosse una malattia, un buon medico direbbe che essa deve essersi prodotta per qualche ragione e deve pur significare qualche cosa. Ma i nemici pensano che una malattia di questo genere con cura a base di massacri e di persecuzioni possa essere eliminata, dopo di che il mondo riprenderebbe il volto di prima. Sciagurato errore: il fascismo non è che un punto di partenza. Non c’è più niente da fare: l’umanità se lo troverà sempre davanti come affermazione di un principio, indipendentemente dal quale nessun equilibrio di forze e di valori sarà più possibile […]»[51].

A dispetto di tutte le misure emanate e della campagna «denigratoria» sollevata sulla stampa dell’Italia liberata, il movimento fascista sembra, secondo il giudizio dei fascisti, sopravvivere. Anche la popolazione, bersagliata da una serie di informazioni «calunniatrici non si lascia trarre in inganno da una contropropaganda svolta con mezzi non molto originali e tanto meno convincenti»[52].

Questi sono generalmente i contenuti degli articoli che mirano ad incoraggiare una rinascita fascista nell’Italia del Sud ed a convincere od autoconvincersi di una qualche possibilità di scampo alla consunzione del fascismo.

Tali mezzi non furono però gli unici ad essere utilizzati dai fascisti per perseguire gli scopi sopra menzionati. Da quanto risulta nella testimonianza fornitaci da Ugo Manunta, direttore de «La Sera», durante la R.S.I. furono utilizzati strumenti anche più ingegnosi la cui quantità ed il cui peso sembrano comunque essere irrilevanti. Uno di questi tentativi fu la diffusione a Roma, che era già stata liberata, di un giornale stampato a Milano e fatto in modo tale da sembrare scritto dagli avversari. Esso conteneva però «una, due o tre notizie che facevano il gioco dei fascisti e veniva diffuso come documento raro»[53].

Per quanto riguarda, invece, gli argomenti utilizzati dagli organi di stampa antifascisti, per influenzare l’opinione pubblica e per tentare di cancellare dalla coscienza di questa il ventennio, il giudizio perentorio della stampa fascista li definisce calunniosi e denigratori.

Indipendentemente dal carattere propagandistico che indubbiamente rivestivano le argomentazioni usate dalla stampa di Salò per combattere le accuse mosse contro il fascismo, è possibile cogliere in esse un fondo di verità. Infatti, se è vero che alcuni particolari negativi della vicenda epurativa vennero accentuati od esasperati allo scopo di dare una immagine alterata degli avvenimenti, è anche vero che l’occasione per tali strumentalizzazioni veniva fornita da quelle forme di ingiustizia, più o meno gravi, che si verificarono per tutta la durata del processo.

Alcuni eccessi «persecutori» nei confronti di fascisti la cui responsabilità non eccedeva certamente quella di molti altri personaggi che sfuggirono abilmente alle sanzioni, sono tuttora spiegabili con la comprensibile reazione di chi il fascismo lo subì in termini di repressione politica.

Secondo quanto afferma Ugo Manunta, ci fu una differenza sostanziale nel modo in cui fascisti ed antifascisti condussero i rispettivi processi epurativi. L’epurazione che i fascisti repubblicani vollero attuare nelle loro file ebbe la sua prima manifestazione nel processo contro i «traditori» del Gran Consiglio. In seguito si sviluppò attraverso l’azione dei Tribunali Speciali e della Commissione sugli Illeciti Arricchimenti instaurata dal governo Badoglio e mantenuta dalla R.S.I..

Il problema è complesso e andrebbe studiato più approfonditamente[54]. Per ora ci sembra rilevante chiarire, attraverso la testimonianza di Ugo Manunta, la visione che molti fascisti ebbero dell’epurazione e delle differenze fra questa e la parallela azione epurativa condotta dal governo fascista repubblicano:

«Il punto discriminante delle due azioni propagandistiche è che mentre da una parte il grido era “dagli al fascista”, quindi che uno fosse stato fascista in fasce o ad ottanta anni, che fosse fascista tubercolotico o fascista sano, non aveva alcuna importanza, era fascista e come fascista: al muro. Fucilazione. Da quest’altra parte, il metro di giudizio cambiava e si voleva sapere qual’era la posizione dell’uomo nel momento in cui si doveva combattere la guerra. Qual è il contegno dell’uomo? Cosa vuole quest’uomo? Non ci interessa sapere i suoi precedenti, ci interessa sapere quello che vuole fare oggi perché oggi c’è da salvare l’Italia […]. L’interesse di carattere generale doveva prevalere sull’interesse privato e naturalmente si doveva ammettere che un uomo possa aver pensato ieri in un modo, ma possa aver cambiato idea oggi. È un uomo valido per combattere insieme agli altri uomini validi questa battaglia? La differenza era sostanziale, non c’era cattiveria e non c’era la caccia all’uomo, ecco il punto [...]. Quando sono scampato dalla bufera ed ho iniziato a leggere la stampa dell’altra parte dell’Italia, vi ho notato una maggiore cattiveria, un maggior senso di intolleranza, una personalizzazione accanita, l’incitamento a perseguire certe determinate personalità che non ho visto nella R.S.I. Il giudizio che si dava di quelli che avevano vissuto sul fascismo molto lautamente e poi si erano buttati dall’altra parte, era un giudizio netto e categorico. Era però spersonalizzato, non si è mai verificato che io abbia letto su un giornale della R.S.I. che Badoglio rubava dalle casse dello Stato. Non si è mai pensato di portare la polemica su questo piano, mentre dall’altra parte questo sistema era largamente praticato […]»[55].

Tali considerazioni, sostanzialmente comuni a tutta la stampa fascista, furono il più frequente terreno di critica al sistema epurativo. Il loro fondamento risiedeva nella valutazione etica del personaggio incriminato. Se quest’ultimo si era dimostrato inflessibilmente fedele al fascismo dopo il 25 luglio, manteneva una reputazione elevata come uomo e come fascista. L’epurazione che lo colpiva veniva considerata profondamente ingiusta poiché penalizzava l’integrità morale dell’uomo. Se al contrario, l’individuo già fascista mostrava di schierarsi con l’antifascismo, veniva sottoposto ad un giudizio morale che mirava a valutare la sua onestà, il suo approfittarsi finanziariamente o politicamente di situazioni createsi durante il fascismo, ed il suo coraggio in guerra.

Stabilita in base a tali valori la riprovazione contro il soggetto in questione, l’epurazione era considerata una giusta misura contro di lui. Anzi, veniva auspicata e favorita denunciando sulla stampa la sua compromissione con il fascismo.

Un giudizio sull’epurazione fondato su queste basi, naturalmente, non ha molte possibilità di essere approfondito a causa della soggettività dei criteri adottati nella valutazione. Ha il merito però di mettere in evidenza una delle disfunzioni più gravi del processo epurativo: ad essere colpiti dalle sanzioni furono soprattutto coloro che vissero il fascismo passivamente, i cosiddetti «pesci piccoli» e chi non potendo godere di alcuna protezione ne affrontò tutte le conseguenze:

«È giunta notizia che a Napoli è stato iniziato il rastrellamento di tutti gli elementi che, nelle pubbliche amministrazioni come nelle aziende parastatali, risultino “compromessi” col fascismo. In altre parole, alcune migliaia di funzionari e di lavoratori saranno messi sul lastrico per avere negli anni scorsi o ricoperto cariche o comunque esercitate funzioni che oggi possano risultare sospette sia al governo che ai suoi padroni [...]. Lo strano è pero che questi provvedimenti vengano assunti dal governo Badoglio. Ora non è chi non veda che la “compromissione” col Fascismo di un modesto impiegato, il quale puta caso abbia negli anni scorsi rivestito la carica di fiduciario rionale o del dopolavoro, non è certo paragonabile a quella del fu capo di Stato Maggiore Generale, duca di Addis Abeba […]. Ora, che sia giusto lui ad infierire contro gli uomini che hanno mantenuta intatta la fede dalla quale non trassero profitti, è veramente ripugnante. La verità è che il governo attaccato dai partiti antimonarchici, cerca di precostituirsi meriti e titoli infierendo su quanti sono rimasti senza appoggio e difesa. Insomma un nuovo atto di coraggio e di lealtà che si aggiunge alla collana tessuta dal 25 luglio ad oggi. Può anche darsi che tra gli “epurati” vi sia qualche furbacchione che dopo aver esibito per anni uniformi e pennacchi in tutte le adunanze, abbia tentato l’inserimento postumo tra le file nemiche. Per costoro la pedata che oggi ricevono non è che un minimo acconto su quanto si meritano: ma v’è da scommettere che almeno per la massima parte, chi ne andrà di mezzo saranno i veri credenti, i modesti uomini di fede e tra essi, come è stato annunciato, molti combattenti, i quali resteranno a soffrire le persecuzioni in silenzio […]»[56].

Più raramente, le critiche dei giornali fascisti si spostavano sul terreno giuridico attraverso un’analisi degli strumenti legislativi emanati dal governo antifascista. Gli articoli si limitavano ad esporre i punti fondamentali su cui erano articolati i vari decreti. Talvolta commentavano la inapplicabilità dei provvedimenti, affermando che tutti gli italiani avrebbero dovuto essere condannati se si fossero seguite alla lettera le varie disposizioni.

Un’eccezione alla ripetitività di questi argomenti è rappresentata dalle notizie riguardanti l’entrata in vigore del Regio Decreto Legge n. 159, del 27 luglio 1944, che costituisce il cardine di tutto il sistema legislativo sull’epurazione[57].

Questo decreto fu il risultato di spinte contrapposte che si identificano con la pressione del C.L.N.A.I. per una attuazione più radicale dell’epurazione, con i provvedimenti epurativi degli Alleati che avevano raggiunto uno stadio più avanzato delle leggi del governo italiano, con le spinte conservatrici che privilegiavano la continuità dello Stato isolando il fascismo come un fenomeno limitato nel tempo e nello spazio.

Se da una parte queste spinte contraddittorie riflesse nel decreto ne determinarono il significato politico, dall’altra alimentarono le critiche degli stessi orientamenti che si era cercato di conciliare. Pertanto, le polemiche su questo decreto furono vivaci ed investirono i suoi aspetti sostanziali e formali.

Dal punto di vista sostanziale il dibattito si incentrò, soprattutto, sulla retroattività di alcune disposizioni che la stampa fascista divulgò pubblicando in più di una occasione le decisioni prese dal governo Bonomi in materia:

«[…] il Gabinetto Bonomi ha deciso di attenersi a questa tesi giuridica, adottando il principio fondamentale di ogni legislazione che impone di non perseguitare nessuno per atti che dalla legge non erano considerati crimini al momento in cui furono commessi. Tuttavia, in contrasto con questo atteggiamento, il Gabinetto Bonomi ha stabilito di non considerare più valide le norme previste dal codice sulla prescrizione, in base alla quale, come è noto, coloro che erano sfuggiti alla punizione per un determinate numero di anni, variabile con la gravità del reato, non erano più perseguibili. La evidente inconciliabilità di questa seconda decisione con la tesi della legalità in principio proclamata, suscita negli stessi esegeti avversari la necessità di una giustificazione. Infatti si dichiara che la “pseudo giustizia fascista” ha fatto per troppi anni scempio della legalità, perché coloro che finora si sono riparati sotto lo scudo del fascismo debbano ancora sottrarsi al normale corso della giustizia […]»[58].

Nel valutare globalmente l’atteggiamento dei grandi quotidiani della R.S.I. (ma si potrebbe parlare più generalmente di tutta la stampa fascista) nei confronti dell’epurazione, non si può prescindere dall’aver constatato che la maggioranza degli articoli relativi ad essa non fu in grado di fornire validi contributi ad un esame il più possibile oggettivo della epurazione.

Nonostante i giornali della R.S.I. utilizzassero ogni episodio di cui erano a conoscenza per denunciare le ingiustizie del processo epurativo, spesso tali argomentazioni non avevano alcun riscontro nella realtà. Le ingiustizie che si verificarono erano di tutt’altra natura ed alcuni giornalisti fascisti ne furono consapevoli. Prima fra tutte: la clemenza adottata nei confronti di coloro che pur essendosi macchiati di gravi delitti ebbero la fortuna di essere giudicati successivamente, in un clima di distensione degli animi fra la generale rimozione di ricordi dolorosi.

[1] Giorgio Pini, La Stampa, «Il Resto del Carlino», 12 aprile 1944. Ci sembra opportuno rilevare che Giorgio Pini in questo suo articolo, dopo aver illustrato le differenze dei vari regimi di stampa appartenenti a governi di diversa collocazione politica, si sofferma ad analizzare criticamente il regime di stampa instaurato dal fascismo. L’eccessiva burocratizzazione delle direttive non concedeva al giornalista la libertà di espressione necessaria per un apporto costruttivo ai temi dibattuti sui giornali. Un’eccezione a tali asfissianti controlli era rappresentata dal giornale del «Duce», dove i divieti e le influenze esterne erano ridotte al minimo. L’articolo proseguiva:

«[…] In proposito può essere significativo apprendere da un giornalista che ha diretto sei quotidiani, che soltanto quando fu caporedattore del giornale del Duce non si trovò mai ossessionato fra la stretta dei divieti e delle raccomandazioni e solo in quella sede poté sviluppare in pieno vivaci polemiche, utili campagne senza l’assillo dei rimbrotti o lo stillicidio delle influenze estranee sempre tendenti a frenare qualunque iniziativa. Una sola cosa Mussolini ci proibiva severamente: di esaltare la sua persona a suon di tromba e di occuparcene oltre i limiti naturali della cronaca, mentre tanti colleghi, che poi hanno tradito, battevano clamorosamente sul tamburo [...]».

[2] A tale proposito, cfr. Concetto Pettinato, Libertà e responsabilità, «La Stampa», 31 dicembre 1943; Tullio Giannetti, Compromettersi, «La Stampa», 7 aprile 1944; Bruno Spampanato, Parliamo tra italiani, «Il Messaggero», 27 gennaio 1944; Non firmato, Il pudore del silenzio, «Corriere della Sera», 15 maggio 1944.

[3] Cfr. Bruno Spampanato, Contromemoriale, C.E.N., Roma 1974, vol. III, p. 640.

[4] In diversi casi i direttori dei giornali riluttanti ad allinearsi alle direttive di Mezzasoma furono sostituiti. Fra i primi ad essere allontanati furono: Mirko Giobbe da «La Nazione», Bruno Spampanato da «Il Messaggero», Giuseppe Castelletti Giuseppe Bertani da «L’Arena».

[5] In una lettera all’ambasciatore tedesco Rudolph Rahn, del 30 gennaio 1945, il Ministro della Cultura Popolare, Ferdinando Mezzasoma scriveva: «Per quel che riguarda i giornali della zona del Litorale Adriatico, risulta che l’Ufficio stampa del Commissario Reiner ha dato ordine di non pubblicare i comunicati provenienti dagli Organi di Governo della Repubblica. D’altra parte, l’afflusso dei nostri giornali in quella zona è ridotto al minimo o impedito addirittura; di modo che quelle popolazioni non possono non avere l’impressione di vivere in un settore completamente isolato dal resto della Patria, con quelle ripercussioni d’ordine spirituale che facilmente immaginerete [...]. Nella zona delle Prealpi il giornalismo italiano si trova in condizioni ancora più gravi, poiché è stato quasi completamente soppiantato da giornali in lingua tedesca, i quali trascurano completamente gli avvenimenti che si svolgono nella Repubblica, anche quando si tratta di fatti fondamentali [...]».

La lettera è in ACS, SPD, CR, R.S.I., B 67, f. 640, stf. 12, riportata integralmente in Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso, Laterza, Bari 1975, pp. 473, sgg.

[6] Lettera di F. Mezzasoma a Mussolini, 19 ottobre 1943, in ACS, SPD, CR, RSI, B 67, f. 640.

[7] Ferdinando Mezzasoma, Relazione sulle attività propagandistiche nella settimana dal 6 al 13 agosto, 13 agosto 1944, in ACS, SPD, CR, R.S.I., B 67, f. 640, stf. 12.

[8] Ferdinando Mezzasoma, Direttive Generali per la Propaganda, 12 gennaio 1944, in ACS, SPD, CR, R.S.I., B 67, f. 640, stf. 12; il documento è riportato integralmente in Philip V. Cannistraro, op. cit., pp. 464 sgg.

[9] Fausto Brunelli, La rivincita della propaganda, «La Stampa», 8 febbraio 1944.

[10] Cfr. Ferdinando Mezzasoma, Direttive Generali per la Propaganda, cit.:

«[…] Pertanto gli avvenimenti che si svolgono nell’Italia invasa vanno registrati con obiettività sempre vigile e critica. Vanno cioè messi sempre perfettamente a fuoco in modo che le informazioni siano accompagnate in ogni caso da un preciso orientamento. Bisogna evitare che possano nascere equivoci i quali, in materia tanto delicata, sono oltremodo facili [...]».

Tali direttive saranno disattese poiché il resoconto degli avvenimenti che si susseguivano nell’Italia liberata verrà manipolato per esigenze propagandistiche. Infatti, in occasione della pubblicazione di una microedizione per le province dell’Italia del Sud, in un promemoria di E. Giorgi si legge:

«[...] Non tutto il materiale pubblicato nell’edizione destinata ai profughi può essere utilizzato per la microedizione. Talune notizie, da noi artatamente alterate a scopo di propaganda, diventerebbero controproducenti se pubblicate nell’edizione destinata all’Italia invasa [...]».

Promemoria di E. Giorgi, s.d., in ACS, PCM, R.S.I., Sottosegr. Ufficio Stampa Sulis, B 1, f. 1, stf. B.

[11] «[...] È stato istituito a Como, d’accordo con le Autorità germaniche, uno speciale ufficio di questo Ministero per la diffusione del nostro materiale di propaganda nell’Italia invasa. Gli accordi prevedevano che periodicamente un aeroplano germanico sarebbe partito da Verona per lanciare manifesti e opuscoli appositamente preparati sull’Italia invasa. A tutt’oggi, sebbene l’ufficio del Ministero abbia funzionato e il materiale sia stato regolarmente preparato e sia altrettanto regolarmente affluito, non risulta che alcun lancio sia stato effettuato».

Lettera di Ferdinando Mezzasoma all’ambasciatore Rahn, 30 gennaio 1945, cit.

[12] «[...] LIBERTÀ: Tutta la propaganda dell’Italia meridionale e puntualizzata in due termini: libertà e defascistizzazione. In sostanza, basta fare un bilancio tra queste due parole e l’andamento politico dell’Italia invasa per convincersi della profonda miseria che regna e dello stato depressivo di quelle regioni. In nome della libertà si innalzano le forche contro i fascisti, si schiudono le galere contro i gerarchi e gregari, si fomenta la resistenza interna di tutti coloro che non intendono assoggettarsi all’esoso nemico [...]». Bollettino MICUP N.P.O. n. 14, P.C. 361, 25 luglio 1944, in ACS, R.S.I., Segret. Part. del Sottosegret. Barracu; Uff. Stampa Sulis, B. 4, f. 163.

[13] Bollettino MICUP N.P.O. n. 18, P.C. 361, 22 settembre 1944, in ACS, PCM, R.S.I. Segret. Part. del Sottosegret. Barracu; Uff. Stampa Sulis, B. 1 f. 1, stf. 12.

[14] Testimonianza di G. Pini a Giancarlo Terenzi, in Giancarlo Terenzi, L’esperienza di Edmondo Cione nella R.S.I. e nel Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista, tesi di laurea, Università degli Studi di Roma, Facoltà di Scienze Politiche, anno accademico 1975-76.

[15] Il direttore de «Il Messaggero», Bruno Spampanato, fu sostituito il 22 maggio 1944 da G. G. Pellegrini. Sia Mussolini che Mezzasoma erano insoddisfatti della sua attività di giornalista. Il primo, anche per le «critiche petulanti» che venivano pubblicate da «Il Messaggero» nella rubrica «Lettere al Direttore»; il secondo, probabilmente per rancori dovuti alle accuse di presunta collaborazione con il governo Badoglio che Spampanato gli aveva rivolto. Cfr. Giovanni De Luna, I«quarantacinque giorni» e la Repubblica di Salò, in AA. VV., La stampa italiana dalla Resistenza agli anni sessanta, Laterza, Bari 1980, vol. V della Storia della stampa italiana, a cura di Valerio Castronovo e Nicola Tranfaglia.

[16] Non firmato, Licenziamenti politici e commissioni di fabbrica, «Corriere della Sera», 9 ottobre 1943.

[17] Ibidem.

[18] Per un approfondimento delle vicende della stampa della Repubblica Sociale Italiana, cfr. U. Alfassio Grimaldi, La stampa di Salò, Bompiani, Milano 1979 e Giovanni De Luna, op. cit.

[19] Non firmato, Un monito a Poletti e agli uomini di Salerno, «La Stampa», 8 luglio 1944.

[20] Non firmato, Un nuovo messaggio di Radio Muti dall’Italia meridionale invasa, «La Gazzetta del Popolo», 28 aprile 1944.

[21] Non firmato, Ignobile uso di dipinti di immense valore artistico, «La Sera», 22 settembre 1944.

[22] Non firmato, Non si rispettano più neanche i traditori, «Corriere della Sera», 17 settembre 1944.

[23] Non firmato, Decisa volontà inglese di toglierci le colonie, «Corriere della Sera», 13 ottobre 1944.

[24] Non firmato, 11 classi chiamate alle armi per combattere per gli invasori, «L’Arena», 17 luglio 1944. Per la figura di Giuseppe Giulietti, cfr. Guglielmo Salotti, Il sindacato dei marittimi dal 1910 al 1953, Bonacci, Roma 1982.

[25] Non firmato, Breve storia di un pagliaccio, «L’Arena», 28 agosto 1944; Non firmato, Il prestigio angloamericano tramonta nell’Italia liberata, «La Sera», 25 agosto 1944. A tale proposito, rileviamo che sarebbe impossibile trattare singolarmente, in questa sede, i casi minori di ex fascisti che, schieratisi con gli angloamericani dopo il 25 luglio, furono oggetto di critiche e denigrazioni da parte della stampa della R.S.I. Elenchiamo semplicemente alcuni articoli fra i più significativi che danno la misura dell’importanza, per i fascisti, di esprimere una condanna morale contro quanti abbracciarono le tesi dell’antifascismo: Non firmato, Le busterelle di Giulietti, «La Sera», 17 luglio 1944; L’uomo di Guardia, Giusta punizione, «L’Arena», 23 febbraio 1945; Non firmato, Non si rispettano più neanche i traditori, «Corriere della Sera», 17 settembre 1944; Non firmato, I generali del tradimento Roatta, Barbieri, Carboni e Filangieri sospesi dalle loro funzioni, «La Sera», 16 settembre 1944. Per il caso del musicista Arturo Toscanini, cfr. Non firmato, Toscanini bifronte. Da candidato fascista a perseguitato politico, «Corriere Mercantile», 19 settembre 1944; Benito Mussolini, Torni Toscanini! , nota n. 50 della «Corrispondenza Repubblicana», 23 aprile 1944, in Benito Mussolini, Opera Omnia, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, La Fenice, Firenze 1960, vol. XXXII, p. 348.

[26] Cfr. Dino Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo, a cura di R. De Felice, Il Mulino, Bologna 1980.

[27] Non firmato, Zaniboni Inquisitore, «Corriere della Sera», 26 febbraio 1944.

[28] A tale proposito, cfr. anche Tullio Giannetti, Riservata Personale, «La Stampa», 10 novembre 1944. Questo lungo articolo è scritto in forma di lettera indirizzata a Pietro Badoglio:

«Perdonate l’ardire, signore, se a voi mi rivolgo [...] per farvi giungere questa mia lettera [...] Ma la certezza di far cosa utile alla vostra causa mi spinge ad osare [...] Siccome seguo giornalmente e con molta attenzione il vostro non sempre facile lavoro di epurazione dei vari settori della vita nazionale troppo imbevuti di fascismo ed ancora in troppe mani fasciste, ho pensato che le segnalazioni affidate a questa lettera potranno agevolarvi non poco nel portare a termine un “caso di epurazione” che, stupendo il mondo, amici e nemici, ben a voi tornerebbe motivo d’onore e di vanto. Secondo le buone norme di ogni legge, è, a quanto mi risulta, indispensabile accompagnare qualsiasi accusa o denunzia alle Autorità con prove tali da rendere impossibile il minimo sospetto di calunnia. Io credo di avere nelle mani le prove sufficienti perché il signor Pietro Badoglio sia da voi all’istante sottoposto a giudizio e deferito dinanzi alla Commissione d’epurazione, da voi con alto senso presieduta [...] Io penso che, se epurare bisogna, chi maggiormente si è compromesso con l’ormai defunto fascismo, deve per primo, e più degli altri, pagare [...]».

L’articolo prosegue illustrando le attività del Maresciallo Pietro Badoglio durante il fascismo e citando brani del Libro di Guerra, scritto dal Maresciallo nel 1938:

«[...] Vi basta, eccellenza presidente? Non è nauseante il comportamento del nostro accusato? Non basta perché lui, per tutti i fascisti, amaramente paghi la sua fede, cosi chiassosamente conclamata, il suo basso servilismo al Duce? [...] Dopo di che, signor presidente, voi avete in mano la formidabile prova che la mia denuncia a carico di Pietro Badoglio poggia su dati di fatto ineccepibili, che nessuna difesa, se non in mala fede, può smentire [...] Sappiate allora che, epurando Pietro Badoglio, voi compirete un’azione salutare per i futuri destini d’Italia. Così operando voi, nell’uomo colpirete tutti i venduti al fascismo e darete una scossa sensibile a quel po’ di fascismo che ancora serpeggia nell’Italia liberata, disorientando di conseguenza i fascisti repubblicani dell’Italia del Nord [...]».

[29] Le altre norme emanate dal governo Badoglio furono il Regio Decreto Legge n. 9 del 6 gennaio 1944 che prevedeva la riassunzione dei licenziati per cause politiche; il Regio Decreto Legge n. 101 del 12 febbraio 1944, che modificava gli organismi istruttori; il R.D.L. n. 110 del 13 aprile 1944, che istituiva ed affidava a Tito Zaniboni l’alto commissario per l’epurazione nazionale del fascismo e il R.D.L. n. 134 del 26 maggio 1944, emanato dal nuovo governo di unita nazionale, formatosi dopo la svolta di Salerno e presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio. Cfr. Marcello Flores, L’epurazione, in AA.VV., L’Italia dalla liberazione alla Repubblica, Atti del Convegno internazionale organizzato a Firenze il 26-28 marzo 1976 con il concorso della Regione Toscana, Feltrinelli, Milano, s. d.

[30] A tale proposito, cfr. Marcello Flores, op. cit.

[31] Aliquis, Eco Profonda, «La Sera», 6 marzo 1945.

[32] A tale proposito, cfr. Sandro Setta, Liberali, in AA.VV., Epurazione e Stampa di partito (1943-46), ESI, Napoli 1982.

[33] Zara Algardi, Processi ai fascisti, Vallecchi, Firenze 1973, p. 53. Nella stessa pagina, si fa riferimento alla sentenza di condanna a morte pronunciata nei confronti dell’ex ambasciatore a Berlino del governo fascista repubblicano, Filippo Anfuso, coimputato, nello stesso processo, di una serie di delitti commessi per scopi politici dal S.I.M.: «[...] nonostante la condanna a morte del 1945, Filippo Anfuso risulta oggi, davanti all’autorità giudiziaria, innocente del delitto Rosselli [...]».

[34] Non firmato, Riflessi dell’affare Roatta, «La Sera», 10 marzo 1945.

[35] Non firmato, Diversivi, «Il Lavoro», 9 marzo 1945.

[36] Non firmato, Baraonda annonaria e oltraggi ai caduti fascisti, «La Stampa», 30 luglio 1944.

[37] Non firmato, A Roma 2 milioni di persona non sanno come procurarsi il cibo quotidiano, «Corriere Mercantile», 9 settembre 1944.

[38] Non firmato, L’assassinio legale di Pietro Caruso, «Il Resto del Carlino», 24 settembre 1944.

[39] A tale proposito cfr. C. R. S. Harris, Allied Military Administration of Italy 1943-45, Her Majesty’s Stationery Office, London 1957, p. 223.

L’autore di questo volume, dopo aver ribadito il grande interesse della Commissione Alleata di Controllo per una veloce attuazione dell’epurazione, riporta la notizia di uno dei casi in cui gli alleati derogarono a tale interesse:

«[...] Il Conte Pellegrini, Direttore generale della società che controllava l’esercizio telefonico in Sicilia e nell’Italia del Sud, fu inizialmente sospeso dal suo ufficio dalla Commissione per l’epurazione nella Regione III ed in seguito arrestato dal governo italiano per collaborazione con i tedeschi. Ammesso che ci sia stata della verità in questa accusa, è da notare il fatto che il funzionario aveva collaborate molto più efficacemente con gli alleati avendo procurato loro, non senza rischio per se stesso, i quadri dei cavi sottomarini che terminavano ad Anzio e Fiumicino quando Roma era ancora in mano nemica, permettendo così di stabilire comunicazioni telegrafiche da Anzio. Il funzionario capo dei radiotelegrafisti segnalatori del A.F.H.Q. protestò per le misure prese contro di lui, affermando esplicitamente che senza l’aiuto di Pellegrini sarebbe stato estremamente difficile ristabilire le comunicazioni in Italia in un tempo ragionevole. Di conseguenza, furono presi accordi con il governo italiano per i quali il signor Bonomi si impegnava a non prendere alcuna misura epurativa o processo per crimini fascisti nei confronti di tecnici o esperti impiegati dagli Alleati, senza aver preventivamente consultato la Commissione di Controllo [...]».

[40] Non firmato, I lavoratori di Trastevere ammoniscono che si dia loro pane, «La Stampa», 27 giugno 1944; a tale proposito, cfr. anche Non firmato, 113 impiegati denunciati alla Commissione di epurazione, «La Stampa», 4 agosto 1944.

[41] C. R. S. Harris, op. cit., p. 225.

[42] L’uomo di Guardia, Realtà Intangibile, «L’Arena», 11 novembre 1944; a tale proposito cfr. anche Lamberto Mercuri, Gli Alleati e l’Italia 1943-45, ESI, Napoli 1975; Nicola Gallerano, L’influenza dell’amministrazione militare alleata sulla riorganizzazione dello Stato Italiano, in AA.VV., Regioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, a cura di Massimo Legnani, Il Mulino, Bologna 1975.

[43] Per un approfondimento cfr. Lamberto Mercuri, op. cit.

[44] Cfr. Nicola Gallerano, op. cit.

[45] Non firmato, La borsa nera dell’antifascismo, «Corriere della Sera», 29 giugno 1944.

[46] A tale proposito cfr. Non firmato, La situazione a Roma, «La Nazione», 25 luglio 1944; Non firmato, Il più triste documento della storia italiana è ancora segreto, «Corriere della Sera», 11 luglio 1944; Non firmato, Contrasti sul comunismo cattolico, «Corriere della Sera», 25 luglio 1944; Non firmato, Roma “liberata”, «Corriere della Sera», 22 agosto 1944; Non firmato, Il movimento cristiano comunista sconfessato dal Pontefice, «Il Resto del Carlino», 26 luglio 1944; Non firmato, La caccia all’uomo a Roma. 8000 lire di taglia per ogni fascista, «Corriere Mercantile», 10 luglio 1944.

[47] Non firmato, Giudei ed agenti provocatori guadagnano denunciando i fascisti, «La Nazione», 11 luglio 1944.

[48] Non firmato, Prezzi e tariffe, «Corriere Mercantile», 22 agosto 1944.

[49] Giuseppe Conti, La R.S.I. e l’attività del fascismo clandestino nell’Italia liberata dal settembre 1943 all’aprile 1945, in «Storia Contemporanea», ottobre 1979

[50] Non firmato, Altre 45 persona processate per attività fascista, «Gazzetta del Popolo», 30 maggio 1944. L’articolo contiene anche un commento in aggiunta al breve dispaccio di agenzia citato nel testo:

«I traditori, imbaldanziti dalle manifestazioni del 26 luglio, organizzati dagli ebrei e pagati oltre che dai circoncisi, da molti fratelli “ariani”, si illudono di estendere con un decreto l’atto di morte al fascismo. Ma l’idea fascista è una cosa molto più grande di loro e non riusciranno a raggiungerla. Sopravvisse nei cuori di tutti coloro che seppero innalzarsi con il pensiero al di sopra degli errori umani al di sopra delle passioni e dei oasi personali per valutarne la suprema giustizia, l’intima bontà e le giuste possibilità di sviluppo. Molti di questi fedeli all’idea si trovano nell’Italia invasa, ed hanno così la possibilità di fare dei paragoni fra il fascismo e la libertà “anglo-americano-badogliana”. Come risultato, sono sorti i fasci repubblicani in molte località, a dispetto delle persecuzioni degli apportatori di “libertà”. La radio nemica si affanna a negare che nell’Italia invasa sia risorto il movimento fascista (l’ammetterlo significherebbe che i nuovi sudditi dei liberatori rimpiangono “la tirannide di Mussolini”), ma questi processi costituiscono la prova di una sua menzogna. Altri 45 italiani sono comparsi dinanzi ai giudici imputati di “fascismo”. Non è questo il primo processo né sarà l’ultimo, perché il fascismo è vivo e ha ripreso con una nuova lena la marcia che nessun processo riuscirà ad arrestate».

A tale proposito, cfr. anche Non firmato, La Camera del Lavoro incendiata dai fascisti messi in libertà, «Il Lavoro», 15 aprile 1945.

[51] Francesco Scardaoni, Responsabilità, «La Stampa», 8 aprile 1945.

[52] Non firmato, La sentenza al processo di Roma, «Il Lavoro», 13 marzo 1945.

[53] TAA di Ugo Manunta, 10 novembre 1982.

[54] Non esistono studi sul problema dell’epurazione che le autorità della R.S.I. andavano contemporaneamente attuando nell’Italia del Nord. Sulla stampa di Salò furono tuttavia pubblicati numerosi articoli che rivelano l’interesse del fascismo repubblicano per l’argomento.

[55] TAA di Ugo Manunta, 10 novembre 1982.

[56] Non firmato, Epurazione a Napoli, «Il Giornale d’Italia», 31 marzo 1944.

[57] A tale proposito, cfr. Tommaso Fortunio, La legislazione definitiva sulle sanzioni contro il fascismo. Delitti Fascisti - Epurazione - Avocazione, Nuove Edizioni IUS, Roma 1946.

[58] Non firmato, Il governo Bonomi alla ricerca di una giustificazione giuridica per infierire contro i fascisti, «La Sera», 19 luglio 1944; a tale proposito, cfr. anche Non firmato, Il gabinetto Bonomi a Roma in semplice funzione di ospite, «La Stampa», 19 luglio 1944.

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