Vittorelli Paolo

Paolo Vittorelli

(Introduzione di Paolo Bagnoli al libro: Paolo Vittorelli, Giellismo, azionismo, socialismo. Scritti tra storia e politica: 1944-1988, a cura di Paolo Bagnoli, prefazione di Aldo Aniasi, Fondazione Spadolini Nuova Antologia, Polistampa, Firenze, 2005 – p. 9-22)

La lunga vita di Paolo Vittorelli si è tutta svolta sotto il segno dell’impegno politico. E si tratta di un percorso emblematico che segna, al contempo, l’esperienza di una generazione nella lotta contro il fascismo e pure la ragione di una militanza politica socialista; di un socialismo, però, nuovo e diverso rispetto a quello della grande tradizione socialista nata nella seconda metà dell’Ottocento.Paolo Vittorelli era nato ad Alessandria d’Egitto il 9 luglio 1915 ed è morto a Torino il 24 marzo 2003. Con lui scompare l’ultimo testimone della stagione di «Giustizia e Libertà», poiché Vittorelli era l’ultimo componente del comitato centrale del movimento rosselliano ove era stato cooptato nel 1938.

Il suo vero nome era Raffaello Battino ed apparteneva al popolo ebraico. Le origini della famiglia Battino sono diverse rispetto a quelle di tante altre famiglie ebraiche in quanto le sue lontane origini risiedono in Palestina e, quelle accertate, in Grecia, a Joannina, nella regione dell’Epiro ove, nel 70 dopo Cristo, si insediò un nucleo ebraico superstite da un naufragio davanti a Corfù di una nave romana carica di ebrei schiavi in rotta verso un porto dell’Adriatico.

I superstiti, graziati dall’imperatore Tito, si insediarono quali uomini liberi a Joannina dando vita ad una comunità che andò via via crescendo per le ondate successive di altri gruppi di ebrei provenienti dall’Impero Romano d’Oriente.

Gli ebrei di Joannina furono appellati «romanioti» per segnarne la differenza di radici rispetto a quelli di origine spagnola o di altra provenienza, sia europea che africana. Nel tempo, al ceppo iniziale, si aggiunsero ebrei immigrati da Salonicco, dalla Spagna, dal Nord-Africa, da Venezia e da Livorno fondendosi con il nucleo lì residente, adottandone tradizioni, dialetto e liturgie.

Molti dei «romanioti» emigrarono, nel corso degli anni, verso la vicina Corfù; con la conquista che dell’isola i veneziani fecero nel 1386, e che durò fino all’occupazione francese con l’avvento di Napoleone, la lingua italiana - ma soprattutto il dialetto veneto - venne adottata nell’isola assai diffusamente tanto da essere adoprata quale lingua ufficiale sia in ambito governativo che giudiziario. Questa lingua, dall’incedere parlato assai cantilenante, testimoniava del legame con l’Italia; in altri termini, a Corfù, vi era una nutrita presenza di ebrei italofoni e, tra questi, un gruppo di provenienza pugliese che aveva conservato un suo dialetto, a sua volta fuso con quello di matrice veneta largamente dominante.

Il cognome Battino fa la sua apparizione a Joannina non più di due secoli orsono ed è, chiaramente, di provenienza italiana e lascia supporre che un qualche Battino avesse deciso di insediarsi in Epiro per ragioni probabilmente economiche.

A Corfù si trasferì il bisnonno paterno di Paolo Vittorelli dall’Epiro nella prima metà dell’Ottocento sposandovi Rebecca Levi. Dal matrimonio nacquero tre figli; tra questi Raffaele che, in seconde nozze, sposò Benedetta Ferro, ebrea di origine veneta; i due ebbero nove figli tra cui Amedeo, il padre di Paolo.

Gli ebrei di Corfù erano, per lo più artigiani e commercianti ed avevano il quasi monopolio delle attività portuali. La rivalità che, in questo campo, si accese con i greci rese difficile, per taluni, la convivenza e così, verso la fine dell’Ottocento, scoppiarono tumulti piuttosto forti tra le due collettività che furono sufficienti perché alcune famiglie ebree, per lo più benestanti, lasciassero la Grecia orientandosi verso tre direzioni: la Francia, l’Italia e l’Egitto. Quando buona parte degli ebrei lasciò l’isola, Raffaele Battino, che con il fratello gestiva una piccola banca, si trasferì con la famiglia a Pisa, a testimonianza del forte legame che univa i Battino all’Italia.

Il nonno materno, Giacomo Caroli - anch’egli ebreo, triestino di nascita - aveva sposato in seconde nozze Emilia Mattatia, nata e cresciuta a Corfù e, quando decise di lasciare l’isola, si trasferì a Parigi; alla sua morte la moglie, con le tre figlie - Ida, Vittoria e Blanche, la futura madre di Paolo - emigrò in Egitto ove, ad Alessandria, aprì un piccolo albergo. Ed è ad Alessandria che si incontrarono Amedeo Battino e Blanche Caroli ed è qui che si sposeranno nel 1914.

Il padre di Paolo si era laureato in giurisprudenza ad Atene. Le ragioni per le quali aveva deciso di andare in Egitto sono dovute alla grande rinascita che il Paese registrò a partire dai primi anni dell’Ottocento quando, sotto la guida di Mohamed Alì, vi fu l’avvio di un grande sviluppo economico ed un’apertura verso l’Europa; allora Alessandria registrò una crescita di notevoli dimensioni. Con l’apertura del Canale di Suez nel 1864, l’Egitto registro un’ulteriore crescita che attrasse numerose comunità europee che lì crearono ottime scuole superiori che servivano da preludio per il proseguimento degli studi nel vecchio continente.

Amedeo Battino, giovane neoavvocato, si era recato in Egitto nel 1908 alla ricerca di un Paese che gli offrisse interessanti possibilità di carriera. L’Egitto poteva offrirgliele; infatti, nella sua decisione, aveva molto pesato il fatto che nel 1875 vi erano stati istituiti i Tribunali Misti, grazie ad un accordo stipulato tra le maggiori potenze europee. Le cause civili fra stranieri di diverse nazioni, oppure tra stranieri ed egiziani, erano così di competenza di questi Tribunali. I magistrati erano giuristi di comprovato livello designati dalle potenze firmatarie e tali Tribunali, in quel momento, costituivano un’occasione per incoraggiare gli europei a tornare in Egitto e, quindi, anche per riallacciare rapporti economici con i loro Paesi di origine. Va detto che, con il passare del tempo, la loro presenza sarebbe stata avvertita dai nazionalisti egiziani come un’intollerabile intrusione nella sovranità del loro paese, ma essi furono soppressi solo con il trattato di Montreux del 1937 e, tuttavia, si protrassero ancora per un periodo transitorio lungo ben dodici anni.

Il futuro Paolo Vittorelli è all’anagrafe Raffaello Battino, ebreo di nazionalità greca per le origini della propria famiglia che era, peraltro, di cultura italiana e nella quale si parlavano correntemente due lingue: l’italiano ed il francese che era, poi, anche la lingua adottata dalle varie comunità straniere residenti in Egitto.

La famiglia Battino viveva consapevolmente la propria ebraicità; il nonno di Paolo, Raffaele, era stato capo della comunità ebraica di Corfù, ma con il crescere Paolo non dimenticherà l’appartenenza al proprio popolo pur non vivendo la propria vita in ossequio alle sue tradizioni.

La cognizione dell’appartenenza al popolo della diaspora la ebbe, tuttavia, ben presente come dimostra lo scritto inedito che qui di seguito riportiamo - databile all’incirca al 2001 - e che è stato rinvenuto dopo la scomparsa tra le sue carte e che è, con certezza, l’ultimo suo scritto (trovato dalla moglie Giulietta Rovera).

Scrive Vittorelli: «Nascere ebreo è una sciagura. A maggior ragione se ebreo da parte di padre e di madre. Di quattro nonni paterni e materni. Di sedici bisnonni e sessantaquattro bisavoli tutti quanti ebrei, questi ultimi in gran parte nati e vissuti per secoli nei ghetti in attesa che le idee liberali venissero a togliere loro di dosso qualche ceppo. Prima di allora, dietro quelle umide muraglie cresceva e proliferava una popolazione reietta dell’umanità cosiddetta gentile, che non sapeva se era più al sicuro dietro quel bastione o se esso fosse viceversa un’oscura prigione, nella quale, come accade tante volte nella storia, i sicofanti, gli aguzzini o gli esattori venivano più comodamente a prelevare l’ostaggio, la vittima o l’oro.

Ma è proprio una sciagura? Chi non nasce minoranza, chi non vive perseguitato, chi non ha interesse ad insegnare la tolleranza, chi non sente che non vi è differenza di colore, di lingua, di religione, di classe, si accomoda pigramente nella sua posizione di maggioranza, emargina dal proprio cospetto chiunque turbi i suoi interessi, non ammette che chi è meno maggioranza di lui la pensi diversamente. E nel colore della propria pelle, nella lingua che parla, nella religione che finge di praticare, nella classe nella quale è nato o in cui è riuscito a penetrare ricerca una giustificazione di superiorità della quale non è neppure lui intimamente convinto.

E allora non è forse una sciagura il nascere ebreo. Chi discende direttamente dai parenti di Cristo, dai quali ci dividono non più di sessanta generazioni, conserva nei propri geni qualcosa di messianico.»

In queste parole si riscontrano tanti motivi; emerge la coscienza dell’alterità e crediamo che esse diano, quasi una ulteriore palesata delucidazione ad un lungo e forse irrisolto dialogo interiore, pure ragione del terreno in cui affonda la scelta politica maturata e, pure, del perché abbracci con tanta determinazione la causa della libertà dell’Italia, del Paese nel quale sarebbe valso vivere, aldilà di ogni alterità nel segno congiunto della dignità e della diversità; il messianesimo che richiama appare, in fondo, come la giustificazione morale che, nel crepuscolo della propria esistenza, dà a se stesso riunificando in una parola le ragioni dell’appartenenza e quelle della volontà: ebreo per nascita, socialista ed italiano per decisione cosciente, atto supremo di una scelta morale e di luogo fisico per lui, nato in Egitto, greco di nazionalità, residente a Parigi.

Lottare per la libertà dell’Italia significa, per Vittorelli, anche lottare non solo per liberare un Paese, ma per crearne uno del tutto nuovo, libero e liberato da pregiudizi e separazioni forzose; vuol dire, in altri termini, partecipare alla costruzione di un luogo in cui alterità e tolleranza si coniughino in un insieme, democratico e civile, frutto di una comunità integrata. Il «messianismo» richiamato è, così, testimonianza di una missione, quella per la quale egli sceglie il proprio posto di combattimento quando l’Europa scende nel gorgo di una guerra crudele. Inoltre, leggendo queste parole, ci sembra di avere ancor più cognizione del perché abbia scelto di unirsi a GL e non certo perché anche Carlo Rosselli era ebreo, ma perché, nella motivazione recondita della scelta rosselliana tornava, per altri aspetti, un qualcosa del messianismo; di una missione rivoluzionaria di rinnovamento morale e di cambiamento politico; sicuramente una palingenesi di civiltà a cui il popolo della diaspora si sente vocato e che spiega anche quel riferimento a «il messianismo di Israele» che Carlo Rosselli richiama nei periodi finali della prefazione a Socialismo liberale.

Di tutto ciò troviamo una probante conferma politica in un articolo che Vittorelli scrive nel 1941. Tratteggiando la posizione assunta da Rosselli di fronte alla impresa etiopica scrive: «Così, nella condanna della guerra d’Etiopia, unico nell’antifascismo italiano, rifiutò ostinatamente di approvare le sanzioni destinate ad affamare il popolo italiano. Rosselli non credette mai che il fascismo sarebbe potuto cadere in seguito ad una crisi economica e finanziaria e, meno che mai, volle crederlo questa volta. L’Italia doveva reagire da sé contro la guerra imperialistica, non facendosi dare l’esempio dalla Società delle Nazioni.» Rosselli, quindi, quale presenza viva che ha additato l’unica via «che possa seguire la gioventù italiana per liberarsi dai quadri politici e sociali che oggi l’opprimono». Grazie a Rosselli, aggiunge Vittorelli, «possiamo guardare con fiducia l’avvenire, anche nelle ore più tenebrose. Rosselli ha veramente adempiuto la sua missione [....] elemento di collegamento [...] con l’Italia di domani che siamo chiamati a costruire. [...] Rosselli ci ha insegnato che per costruire, bisogna prima spazzare le rovine. Rimarremo fedeli alla sua consegna: spazzeremo via le rovine di un mondo che egli ci ha dimostrato non essere nostro e costruiremo il nostro mondo, il mondo nuovo».

Il suo antifascismo nasce, appunto, dall’impegno concreto per costruire un «mondo nuovo». Nella capitale francese riuscirà a trasferirsi, dall’Egitto, per motivi di studio, ma la ragione vera è che voleva fare la conoscenza di Carlo Rosselli e partecipare a GL. Qui diviene Vittorelli, assumendo lo pseudonimo suggeritogli da Aldo Garosci - alias Magrini - per firmare le prime collaborazioni sui settimanali del movimento. Lo pseudonimo doveva essere una copertura a garanzia della vera identità e funzionare, in qualche modo, come schermo protettivo nei confronti dell’OVRA che, peraltro, sapeva benissimo che sotto quel nome si celava il giovane rivoluzionario Raffaello Battino.

Iacopo Andrea Vittorelli era il nome di un letterato e poeta, veneto di nascita e bresciano di adozione e di studi, vissuto tra il 1749 e 1835; al cognome, poi, si aggiunse il nome, ma questa volta per suggerimento di Franco Venturi che, come pseudonimo politico, si firmava «Gianfranchi». Ed è noto che lo pseudonimo di Rosselli era «Curzio» e quello di Emilio Lussu «Tirreno».

Il nome adottato per la lotta politica divenne poi definitivo una volta approdato, nel 1944, in Italia, anche se la cittadinanza italiana, quale Paolo Battino Vittorelli, gli venne riconosciuta più tardi, tramite un apposito decreto del Governo presieduto da Ferruccio Parri.

Un intero arco della propria vita Vittorelli lo ha ricostruito nei due libri di memorie che ha lasciato; L’età della tempesta e L’età della speranza. Testimonianze e ricordi del Partito d’Azione e si tratta di due libri significativi poiché la scelta giellista e quella azionista, per quanto si collochino lungo una linea di coerenza, hanno rappresentato due tappe importanti della sua esperienza di vita; personale e politica.

Uomo schivo e riservato, nella Premessa al primo volume di memorie, quasi a spiegare i motivi di una intima ritrosia ed a giustificare a se stesso ragioni incancellabili della propria esistenza, aveva scritto: «Da parte dei giellisti superstiti, specie quando sono stati “azionisti”, poi, si nota un certo pudore a parlare di G.L. e dello stesso P.d.A., un po’ come molti ebrei assimilati non tengono a parlare di un’origine religiosa alla quale non si sentono più vincolati».

La confessione è rivelatrice di una condizione che non è esagerato definire esistenziale. Si potrebbe dire che, nel momento in cui scrive, Vittorelli ricostruisce, come un dato oggettivo, la propria assimilazione, ma soprattutto in quanto svincolato dai precetti religiosi del proprio popolo. Come si è visto in precedenza, con il passare degli anni la questione, persa oramai ogni residualità di fede, ne assume una connotante la peculiarità di una condizione umana che esprime una realtà di fatto che, per ragioni semplicemente naturali, presuppone ciò che è a fondamento del percorso di vita. Ed, in effetti, Paolo Vittorelli non ritenne questo problema come un problema cui riferirsi a motivazione delle proprio scelte di vita.

Ad Alessandria aveva frequentato le scuole italiane per poi laurearsi presso la Scuola Francese di Diritto al Cairo, e dell’esistenza di «Giustizia e Libertà» aveva saputo grazie ad Edwin Mieli, il fratello di Renato, che, tornando da Milano, aveva portato in Egitto due Quaderni di Giustizia e Libertà - il settimo e l’ottavo - stampati su carta Bibbia e introdotti clandestinamente in Italia sotto copertine di riviste missionarie cattoliche, e tre volumi editi dall’editore Valois in una collana antifascista in lingua francese: Socialisme liberal di Carlo Rosselli, che mi parve essere il leader di G.L., nonostante nessuno gli attribuisse mai questo titolo, Anti-democratie di Silvio Trentin e Nos prisons et notre evasion di Francesco Fausto Nitti.

Si trattò di un incontro decisivo; uno di quegli incontri destinati a segnare un percorso definitivo. Tramite la nonna e la zia, che vivevano a Parigi, cerca di procurarsi la stampa giellista; questa gli arriva dopo un po’ di sforzi ed il primo numero che riceve del giornale di GL è quello dedicato alla conquista fascista dell’Impero e, così, scrive: «verso il mese di giugno o di luglio del 1936, scrissi alla sede di Parigi per testimoniare a G.L. la mia adesione ideale e politica e da quel momento mi considerai iscritto a Giustizia e Libertà».

A Parigi, tuttavia, l’ancora Raffaello Battino giunge solo nel marzo 1937, alcuni mesi dopo la morte del padre, un affermato avvocato e, grazie all’aiuto di un fratello maggiore, Maurice Ferro, figlio di primo letto della madre che morirà per cancro alla fine del 1937, dopo averlo voluto visitare nella capitale francese.

La ragione ufficiale del trasferimento da Alessandria a Parigi riguarda la decisione di approfondire gli studi giuridici; le ragioni vere, riguardavano, tuttavia, la sfera della politica, vale a dire la decisione di partecipare alla lotta antifascista dalla postazione rivoluzionaria di «Giustizia e Libertà». Così racconta Vittorelli il suo arrivo a Parigi: «Fin dalla prima mattina ero andato ad iscrivermi ai corsi di specializzazione in diritto pubblico e scienze economiche alla sede della rue Saint-Jacques, e, poco dopo, a pochi passi di là, al 129 del boulevard Saint-Michel, di fronte al Giardino del Lussemburgo, in un pianterreno, varcai la soglia squallida e modesta della sede di Giustizia e Libertà, dove trovai, chino sul suo lavoro, intento a scrivere con la sua regolare calligrafia di stile ottocentesco, Alberto Cianca, che preparava il fondo del giornale».

Sarà poi, sette anni dopo, che proprio grazie ai buoni uffici di Cianca riuscirà a venire in Italia imbarcandosi su un cargo inglese da Porto Said. La conoscenza con Rosselli avvenne nella sede di Boulevard Saint-Michel mentre parlava con Cianca e, scrive, «sentii di trovarmi in presenza di un uomo eccezionale».

Il giorno dopo lo andò a trovare presso la sua abitazione e si trattò di un colloquio che motivò profondamente l’inizio di un percorso che, peraltro, aveva già deciso di abbracciare. Vittorelli voleva andare a combattere in Spagna e Carlo ne era appena tornato; quello scontro lo considerava «come il primo atto della rivoluzione antifascista». Parlando della Spagna, Carlo spiega al giovane compagno un intero spettro di problemi politici, le ragioni della simpatia che nutriva verso gli anarchici e la critica verso lo stalinismo che, tra l’altro, in Spagna si era macchiato dello sterminio del POUM, il partito di ispirazione trotzkista.

Vittorelli confessa che, come scelta personale di vita, non aveva escluso di poter divenire anche comunista e non nega che il rigore di Lenin lo aveva affascinato. Su questo piano l’incontro con Rosselli fu, però, decisivo; infatti, scrive: «Da Carlo compresi però che la dittatura del proletariato era l’opposto di ogni rivoluzione democratica e socialista, che il regime del terrore instaurato da Stalin anche in Spagna era una conseguenza inevitabile del totalitarismo sovietico, che non esisteva pertanto una scorciatoia violenta alla rivoluzione antifascista […] Perciò non sarei stato comunista. Avrei scelto la via lunga e difficile che mi aveva indicato Carlo». Nei giorni che seguirono i rapporti tra Carlo Rosselli e Paolo Vittorelli si fecero più intensi ed ancora più cordiali; le ragioni del socialismo liberale cui facevano seguito, nello specifico italiano, quelle della rivoluzione democratica, divennero la bussola cui rimase sempre fedele.

L’invasione della Francia da parte dei nazisti lo coglie di nuovo in Egitto ove, da GL, era stato inviato nell’intento di raccogliere fondi per il movimento. Naturalmente non rientra in Francia ed organizza un gruppo di «Giustizia e Libertà» che, anche grazie alla collaborazione che riesce ad instaurare con le autorità inglesi, promuoverà un’intensa e qualificata attività antifascista. Le carte oggi conservate presso l’Istituto Storico della Resistenza in Toscana di Firenze lo stanno a dimostrare.

Per quanto giovanissimo, ha appena venticinque anni, dà vita tra l’altro ad un quotidiano, il «Corriere d’Italia»; ad una nuova serie dei Quaderni di GL e ad una intensa azione di informazione antifascista rivolta, soprattutto, verso i militari italiani fatti prigionieri dagli inglesi e detenuti in campi in Egitto. Attorno a lui si muove un piccolo gruppo: Stefano Terra, Fausta Terni Cialente, Umberto Calosso che lo raggiunge dal Portogallo ove si trovava in attesa di un visto per gli Stati Uniti dopo aver insegnato a Malta ed Enzo Sereni, sionista italiano residente in Palestina e che l’Agenzia Ebraica ritenne di impegnare nella lotta armata contro il nazifascismo. Anche il fratello Giuseppe «Joe», più giovane di sei anni, dà una mano.

Nella vita complessiva del movimento giellista quella del Cairo è un’esperienza importante che si colloca in linea di derivazione diretta rispetto al nucleo primario di Parigi e forse, oggi, sarebbe opportuno che si pensasse a riscrivere la storia del movimento guardando anche a quanto è successo dopo il 1940, alle derivazioni complessive di GL in Egitto, negli USA ed in America Latina.

E bisogna riconoscere che Vittorelli è colui che con più fedeltà, ed anche originalità, ha impregnato il proprio pensiero e la propria visione politica dell’impostazione del socialismo liberale, come dimostrano i suoi scritti; per tutti valga il saggio Contro Corrente pubblicato al Cairo nel 1944 per le edizioni di «Giustizia e Libertà». Da segnalare anche l’altro saggio, un ponderoso volume intitolato Dal fascismo alla rivoluzione. Storia della caduta del fascismo pubblicato sempre al Cairo, per le medesime edizioni, nel 1943.

Rientrato in Italia è naturale che aderisse al Partito d’Azione, un’esperienza cui ha dedicato il libro di memorie del 1998. Il posto di un socialista liberale non poteva che essere nel partito della «rivoluzione democratica». E dopo «Giustizia e Libertà» si trattò di un’altra fondamentale esperienza.

L’età della tempesta si conclude con la fine del Partito d’Azione e con il ricordo di Piero Calamandrei - che del partito dopo l’uscita di Parri «[…] era diventato la coscienza morale, il portavoce più autorevole ed efficace della sua laicità democratica» - che con voce vibrante gridò: «Viva il Partito d’Azione».

La speranza era finita. Confessa Vittorelli: «Uscii affranto da quella triste, lugubre sala. Il nostro comune sogno giovanile era finito. […] Eppure quel sogno c’era stato e c’era tuttora qualcosa di reale». La lotta però continuava e Vittorelli mantenne il proprio impegno per tutto il lungo periplo di una certa diaspora azionista raccolta, in varie esperienze, attorno alla figura di Tristano Codignola, per i compagni semplicemente Pippo, una delle personalità più vigorose ed originali della sinistra azionista, prima, e socialista dopo, dell’Italia repubblicana. E fu una lunga stagione di gruppi, giornali, tentativi di dar vita ad una sinistra genuinamente socialista, ma autonoma dai comunisti, laica ed erede di quanto l’incontro tra liberalismo e socialismo aveva prodotto sul piano della cultura politica e che la lotta al fascismo aveva legittimato come protagonista, non solo potenziale, della nuova storia italiana. Ed anche questa è una storia tutta da riscrivere compiutamente. Quando nel 1953 nasce Unità Popolare, Vittorelli e in prima fila al fianco di Codignola. Nella battaglia contro la legge truffa - che fallisce il proprio obiettivo proprio grazie ai voti raccolti da Unità Popolare che non permettono alla DC, ed ai partiti ad essa apparentati, di godere del premio di maggioranza - Codignola e Vittorelli ritrovano Ferruccio Parri; nel movimento egli si occupa soprattutto del giornale che si intitola «Nuova Repubblica». Con Unità Popolare, dopo il congresso socialista di Venezia, Vittorelli approda al Partito socialista italiano ove ritrova tanti compagni azionisti, ma anche vecchi compagni giellisti di Parigi come Alberto Cianca ed Emilio Lussu.

Quella della militanza socialista è la terza fase della vita politica di Vittorelli che subito si impone come un dirigente di primo piano, particolarmente versato nell’analisi delle problematiche di politica estera. Rappresenterà il PSI al Senato ed alla Camera sarà il presidente del primo Consiglio Regionale del Piemonte. Membro della Direzione del PSI per lunghi anni, non abbandonerà mai la pratica giornalistica; professionista dal 1946 i suoi scritti su testate, sia italiane che estere, sono numerosi; sarà direttore dei quotidiani socialisti «Il Lavoro» di Genova (giugno 1969-maggio 1976) e, dopo la svolta del Midas, dell’Avanti! di Roma. (maggio 1976-giugno 1978). Nel 1979 aveva fondato l’ISTRID (Istituto di Studi e Ricerche della Difesa) dirigendone pure la rivista, «Lettera Istrid». Fino al 1991 reggerà la segreteria della Commissione disarmo dell’Internazionale Socialista e sarà l’ultimo presidente dell’Assemblea Nazionale del PSI.

La fine del Partito socialista italiano lo aveva, naturalmente, amareggiato, ma non per questo aveva smesso di interessarsi di politica, di avere a cuore le sorti della sinistra, di incontrare compagni e di dibattere con loro sulle difficoltà dell’oggi e sulle possibili prospettive. Fino a quando la malattia non glielo aveva impedito non si era stancato di sollecitare i compagni con cui aveva più stretto contatto, a fare gruppo, ad incontrarsi; insomma, a non mollare.

La sua vita è la testimonianza di una lunga fedeltà ad una concezione della politica ispirata a solide ragioni ideali e morali; nel lungo cammino di un’esperienza politica tanto ricca quanto difficile non cessò mai di essere quello che aveva deciso di essere, un socialista liberale fortemente e direttamente segnato dall’incontro giovanile con Carlo Rosselli. E poi fu un uomo colto, di un’intelligenza viva, lontano dalla retorica e da ogni populismo: una personalità che ha dato alla storia della sinistra italiana, ed in particolare del PSI, un contributo vero di passione, di lucidità, e di dedizione, sempre attento a salvaguardare la dirittura morale del proprio modo di essere.

Era l’ultimo giellista. A ripensare la sua vita, essa ci appare anche un esempio di civiltà politica, uno di quegli esempi che hanno contribuito a far crescere la democrazia e la libertà; un esempio che, al pari di tanti altri, non appartiene certo al campo delle opzioni maggioritarie, ma che non per questo non è stato incisivo ed, in certi momenti decisivo, come si addice per tutti coloro che hanno coscientemente scelto per se stessi la parte degli eretici.