a fini scientifici e divulgativi del presente articolo
con obbligo di citazione della fonte
Quaderni della FIAP, n.20, Comunisti e socialisti (1943-1948)
Gabriella Giusti
Il
periodo che corre dalle elezioni del 2 giugno 1946 a quelle del 18 aprile 1948
ha un rilievo particolare nella storia dei rapporti tra socialisti e comunisti.
Esso rappresenta, infatti, la fase culminante della vicenda che ha inizio nel
1934, con la stipulazione del primo patto di unità d’azione tra i due partiti. L’esigenza
unitaria può ritenersi, in misura maggiore o minore, sempre presente in ambedue
i partiti; ma è soprattutto analizzando la sequenza di avvenimenti che ha
condotto all’alleanza elettorale del 1948, che si può valutare compiutamente il
significato e la portata della strategia unitaria. Contemporaneamente,
l’esame degli elementi di differenziazione, presenti, come sempre, anche in
quel periodo, permette di individuare le cause irriducibili delle divergenze di
obbiettivi e di metodi fra i due movimenti. In particolare,
si vuole qui verificare l’ipotesi che alla politica unitaria i due partiti
giungevano sulla base di diverse analisi della situazione italiana e degli
sbocchi che essa poteva o avrebbe potuto offrire. Nella
evoluzione del movimento socialista non ritroviamo quella salda continuità d’azione
che caratterizza il partito comunista, ma, al contrario, il tormento di una
storia ininterrotta di ripensamenti delle scelte politiche di fondo, di scontri,
di scissioni, di lacerazioni. Le motivazioni,
che avevano condotto il movimento socialista internazionale, e in particolare
il partito italiano, ad una politica di unità d’azione fin dagli anni precedenti
la seconda guerra mondiale, presentavano molti punti in comune con quelle che
ispiravano il movimento comunista. L’esigenza primaria di difesa contro
l’insorgere del nazifascismo faceva passare in secondo piano gli elementi di
differenziazione. Di fronte all’indirizzo decisamente reazionario e violento
assunto dalle forze borghesi, tendeva ad affermarsi il richiamo alla comune
matrice di classe. Il partito
socialista si differenziava tuttavia da quello comunista, sia per il diverso
rilievo attribuito al problema della compatibilità tra le libertà civili e
politiche e l’obbiettivo della trasformazione rivoluzionaria della società, sia
per l’autonomia rispetto all’Unione Sovietica, sia per la larga penetrazione
all’interno dei ceti medi. Se ciò, da un
lato, induceva i comunisti a ritenere che l’unità d’azione con i socialisti
fosse un elemento chiave, soprattutto dopo la guerra, nel quadro della
strategia di collaborazione con forze borghesi, dall’altro spingeva il partito
socialista a rivendicare la sua autonomia, ed anzi la sua egemonia, nel contesto
della politica unitaria. L’indipendenza
dall’Unione Sovietica e l’antica tradizione libertaria davano ai socialisti la
speranza di potersi misurare, con probabilità di successo maggiori di quante
non ne avessero i comunisti, con le forze borghesi. La vittoria elettorale dei
laburisti inglesi nel 1945 esercitò sui socialisti italiani un richiamo
irresistibile. Essi, pur sapendo di non poter agire da soli, ritennero tuttavia
che, egemonizzando il blocco delle sinistre unite, e facendosi garanti di
fronte al paese del rispetto delle regole parlamentari e della difesa degli
interessi nazionali, fosse loro possibile costruire l’unica alternativa di potere
realizzabile dalle sinistre. Per i
comunisti, invece, la nuova strategia che ha inizio con il VII Congresso dell’Internazionale
(per il partito italiano, come si è detto, già con il patto di unità d’azione
del 1934) si basava sulla constatazione che, nelle società industriali avanzate
dell’Occidente, il partito comunista non aveva la rappresentanza esclusiva
della classe operaia, e che il collegamento con altre classi sociali, in
posizione intermedia tra il proletariato e la grande borghesia, poteva avere un
ruolo di notevole rilievo. Ciò corrispondeva, tra l’altro, all’affermarsi della
teoria del “socialismo in un paese solo”. Occorreva, in sostanza, una politica
nuova, radicalmente diversa rispetto a quella che aveva condotto i sovietici al
potere. Politica che comportava la ricerca di ampie alleanze, caratterizzate da
obbiettivi genericamente democratici. Alla fine della
seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica aveva guadagnato, con la
liberazione avvenuta per mezzo dell’Armata rossa, un’ampia zona d’influenza
nell’Europa orientale; i partiti comunisti occidentali avevano perciò tutto l’interesse
a non turbare una sistemazione che costituiva un successo di enorme portata dei
sovietici. In tali
condizioni, l’obbiettivo strategico del PCI consisteva in un inserimento all’interno
di un ampio blocco di forze dirigenti, mantenendo però inalterate le
fondamentali caratteristiche ideologiche del partito, tra le quali spiccava il
legame organico con il movimento comunista internazionale. Questo legame veniva
consapevolmente difeso dai dirigenti comunisti, anche se era chiaro che esso
avrebbe costretto entro limiti ben determinati l’aumento della influenza politica
del PCI.
In altri termini, i dirigenti comunisti intendevano
mantenere al partito la precisa caratterizzazione ideologica derivante dal
costante riferimento ai valori della Rivoluzione d’ottobre ed al modello sovietico,
pur se tale scelta di fondo rendeva molto improbabile, soprattutto per la
collocazione internazionale del nostro paese, un’alternativa di sinistra.