Un posto di blocco: i racconti di Staffora

QUADERNI

della

F.I.A.P.

n.30

Paola Profumo

Un posto di blocco: i racconti di Staffora

© I Quaderni della FIAP

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Quaderni della FIAP, n.30,

Un posto di blocco: i racconti di Staffora

Paola Profumo

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Questi racconti sono all’apparenza doppiamente occasionali: occasionale la ragione della nascita, occasionale il suo venire alla luce.

Paola è una bimba di nove anni quando scoppiata la guerra sfolla a Varzi e ne ha circa quattordici quando se ne ritorna a Genova. In quell’arco di tempo il fondo della sua personalità si è formato, ma per lei sono solo anni da rinchiudere in una parentesi nella gioia della ritrovata normalità della famiglia e nelle urgenze che la vita le apre a ventaglio con le sue stimolazioni. Molto più tardi, nel pomeriggio di una domenica degli anni sessanta, capita in un cinema di periferia dove si proietta «Vincitori e vinti». Mi dice Paola Profumo: «Ci sono andata, sola, gioiosamente libera tra persone così diverse da quelle che di solito frequentavo e insieme così vicine, mescolate a caso con il mio pomeriggio. Ho vissuto il film con pienezza, in mezzo a tutti perché senza nessuno con cui parlare. Ne sono uscita rendendomi conto, all’improvviso, di come erano stati limpidi quegli anni: fatti soltanto di cose che si toccano, di una concretezza essenziale, scarni, puliti. Ho sentito la necessità di dirli, subito, non frettolosa ma in fretta, tesa nel timore di perdere una riga: come chi riferisce le parole di un altro e deve stare attento a non cambiarle. Non ricordo bene, ma credo che in meno di un mese i racconti fossero tutti lì, scritti di corsa e a pezzetti durante giorni occupati da un lavoro del tutto diverso».

È dunque, questo tardo bilancio, un documento scritto a freddo? Per un certo verso, sicuramente no: è stato scritto al caldo dell’emozione che quel film ha suscitato in lei e l’ha spinta a schiodare ciò che teneva in cuore.

Il manoscritto rimane nel cassetto. Paola Profumo ha raccontato a se stessa quella stagione, si è liberata da dubbi che senza accorgersene restavano dentro, si è convinta che sono stati, i suoi, anni appunto «scarni e puliti», esperienze innocenti. Non c’è nessun bisogno di pubblicare quelle pagine ora che lo scopo pratico - quello di una specie di autopsicanalizzazione inconscia - è raggiunto⁽[1]⁾. Passano altri anni. Diventata docente universitaria, nel giugno del 1977, trovandosi a Salice Terme per un convegno di fisiologia vegetale, apprende che la sera sarà presentata al pubblico una raccolta di saggi sulla resistenza nella provincia di Pavia: «Il coraggio del no». Sarà ricordata Varzi, che dista da Salice pochi chilometri? Va al dibattito. In quella occasione la conosco, parliamo dei suoi racconti, me li faccio dare.

Numerose sono le ricerche relative alla letteratura della o sulla resistenza, ma poco si è riflettuto circa l’influenza di quelle vicende sulla sensibilità adolescenziale. Un’inchiesta che condussi, con un collega, nelle scuole medie superiori di Pavia e di Voghera nel 1953 - quindi ad una distanza ancora breve dalla guerra - su un campione di 370 alunni, poneva tra le domande anche questa: «Qual è stato il più brutto ricordo della tua infanzia?»⁽[2]

⁽[1]⁾ Ho conosciuto parecchi ex partigiani, ex repubblichini, ex prigionieri in mani alleate o tedesche, ex internati per cause diverse che hanno tenuto «diari», ma non hanno nessuna voglia di tirarli fuori, di riparlare di quelle cose: la pagina scritta come mezzo di rimozione di qualcosa che ingombra è, credo, non infrequente nei reduci della seconda guerra mondiale.

⁽[2]⁾ Le risposte, lasciate «aperte» e riunite poi per gruppi omogenei, davano queste cifre:

1) ,ricordi legati alla guerra 111

2) decessi (di un genitore, di un amico ecc.) 77

3) malattie o incidenti (propri o altrui) 26

4) legati alla scuola 11

5) castighi, rimproveri 10

6) ricordi vari 69

7) non ricordano nulla, non rispondono 66

totale 370