La XXVII Legislatura. L’opposizione in Aula

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Quaderni della FIAP, n.10,

La XXVII Legislatura. L’opposizione in Aula

L. Pivano

presentazione di L. Mercuri

n.10

L. Pivano

presentazione di L. Mercuri

La XXVII Legislatura. L’opposizione in Aula

[La versione integrale del testo e delle immagini è disponibile nel formato pdf]

Senza dubbio il problema della valutazione storica della secessione parlamentare dei partiti antifascisti dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, costituisce nella storia contemporanea italiana, un nodo centrale. L’Aventino, come fu chiamata l’opposizione parlamentare al governo fascista nella XXVII Legislatura, e così l’aventinismo, è un problema che ha travalicato la realtà circoscritta al momento e ha raccordi e propaggini molteplici anche nel tessuto della realtà dei giorni che viviamo. E se vogliamo comprendere meglio il fenomeno che ci interessa qui, noi dobbiamo risalire necessariamente al clima e alla discussione che, nel 1923, prese tutti i partiti politici del tempo, per definire la legge maggioritaria in vista delle elezioni politiche della primavera del 1924, quando cioè essi giudicarono opportuno creare attorno al movimento fascista un vuoto morale.

Scrive Renzo De Felice: «L’idea di astenersi dal partecipare alle elezioni fu presente - a parte i comunisti - a un po’ tutta l’opposizione. Se ne cominciò a parlare verso la metà di dicembre [1923]; … In un primo momento sembrò che l’iniziativa dovesse andare in porto. Gli amendoliani e «IL MONDO» non erano contrari e anche nel PPI la sinistra - auspice soprattutto Ferrari che il 30 gennaio indirizzò alla direzione del partito una richiesta in questo senso - era disposta ad appoggiarla»[1]. E per il 18 febbraio, così come viene riportato in un documento ricavato dall’Archivio di Stato (Cfr. De Felice, cit. pag. 567), i rappresentanti dei partiti animati da intransigenza consapevole prepararono un ordine del giorno che, tra il resto, «riaffermava di non assumere alcuna responsabilità di fronte al mondo civile ed alla Nazione, nei confronti degli arbitri e delle aperte violazioni delle leggi statutarie, compiuti dalla minoranza del partito che pretende di governare nel nome di un consenso mai posseduto e di un prossimo suffragio illegalmente richiesto e raggiunto, deliberano l’astensione dalla lotta elettorale e invitano gli iscritti ai rispettivi partiti a disertare le urne il cui falso responso non può che preparare una triste pagina per la storia del diritto e della civiltà del popolo italiano».

Ma il tentativo di dar vita ad un astensionismo unitario cadde nel nulla in quanto i partiti antifascisti, pur mantenendo viva una polemica nel Paese contro il fascismo consideravano questo un fatto provvisorio, un male temporaneo e preferirono presentarsi quindi con proprie liste per non snaturare i connotati e le caratteristiche dei partiti medesimi. Fu un errore, ma era nato tuttavia un polo di riferimento, una esperienza per così dire «pre-aventiniana» da cui trarre preziose indicazioni per il futuro.

Livio Pivano, uno dei pochi superstiti di quella Legislatura, è l’autore di questo volume, in cui è narrata la storia della battaglia parlamentare, di coloro cioè che rifiutarono l’Aventino, le ultime voci di libertà che si levarono in Parlamento prima dello scioglimento. Una testimonianza preziosa, una ricostruzione dal vivo, dal di dentro, importante, che non obbedisce ad ambizione di completezza ma che si snoda con una descrizione puntuale, sempre sorretta da un grande impegno etico e animata da un fervente patriottismo.

Pivano ha compulsato attentamente gli atti parlamentari della Legislatura (oltre quattro anni di attività, dal maggio 1924 all’8 dicembre 1928) ed ha aggiunto «qualche seria testimonianza di uomini e di opere perché la storia vissuta diventasse veramente storia».

In realtà storica, se il problema dell’Aventino, anche in sede storica, è ormai definito quasi in ogni dettaglio, l’opposizione nell’aula di Montecitorio non è ancora ben conosciuta. Di quella opposizione cioè che lo stesso Giolitti ebbe a dire «chi è investito del mandato parlamentare deve adempierlo, e valersi di quella tribuna, che non può disertare per nessun motivo. Neanche le dimissioni in massa - che tuttavia avrebbero avuto una portata politica ben maggiore che non la semplice astensione dalle sedute, in quanto avrebbero privato il Parlamento di un terzo dei suoi membri - sono consentite... Un tale atteggiamento passivo non poteva di per sé imporre un intervento della Corona, riluttante ad esso, mentre forse le dimissioni in massa delle opposizioni l’avrebbero provocata»[2]. E se ha certamente aspetti discutibili l’abbandono dell’aula parlamentare che non seppe avere uno sbocco d’azione politica nel Paese né tra le masse popolari, pur tuttavia ne ha altri di incontrovertibile valore: i partiti rappresentanti delle forze storiche tradizionali che rappresentano la nazione abbandonando l’aula dove siedono mandanti e complici, non solo dell’assassinio di Matteotti, ma di tante altre aggressioni e uccisioni e casi di gravissime intimidazioni, compiono un gesto di valore simbolico. E se «nell’Aventino - come osserva Leo Valiani - ci fu in germe la futura unione dei partiti antifascisti per la Liberazione del paese, salvo il punto decisivo, della capacità di avocare all’antifascismo stesso i poteri dello stato»[3] era certamente presente anche nello sparuto manipolo che rimase nell’Aula parlamentare quella forza che ha continuato a vivere, più o meno esplicitamente in quella non benigna temperie politica e culturale e che si è trasformata poi come nucleo che ha lievitato le concezioni di libertà più alte e sostenitrici di una tradizione parlamentare che nella nostra storia unitaria non ha molti esempi e precedenti cui richiamarsi. Un nucleo uscito anch’esso battuto a causa del prevalere di forze avverse, per motivi vari e per prospettive politiche a breve termine diverse ma, come dice opportunamente Gaetano Arfè «all’Aventino Matteotti ha dato un autonomo valore, l’antifascismo: un valore destinato a sopravvivere al tempo e agli eventi, ad arricchirsi anzi di esperienze ideali e politiche nuove, e a fiorire venti anni più tardi nella Resistenza»[4].

Certo nel quadro d’insieme di queste valutazioni, «l’Opposizione nell’Aula» che qui presentiamo, acquista un valore importante. «Se i deputati fossero rimasti nell’aula - scriverà nelle sue memorie Marcello Soleri riportando fedelmente il pensiero di Giolitti - a compiere fieramente il loro ufficio, sarebbero stati certamente inevitabili e prossimi incidenti gravissimi, e probabilmente le rivoltellate avrebbero sostituito le votazioni, data la tensione degli spiriti e la drammaticità del momento; ma si sarebbe così determinata ed affrettata quella crisi, che avrebbe probabilmente risolta la situazione, ed evitato che essa si avviasse per quella pericolosa china che fu aperta con il discorso del 3 gennaio 1925, vera data d’inizio della rivoluzione fascista e del sovvertimento degli istituti liberali e rappresentativi».

Pivano parla altresì del suo tentativo, nel corso di una riunione di «aventiniani», per convincerli a rientrare nell’aula. «Fui forse il solo deputato dell’opposizione in Aula a partecipare ad una riunione dell’Aventino. Vi andai con l’illusione di poter essere ascoltato per denunciare l’errore della defezione parlamentare; ma l’atmosfera di incertezza e di illusioni, mi consentì solo di conferire con qualche isolato, senza esito, e preferii rinunciare ad ogni ulteriore collegamento».

L’Aventino e la battaglia nell’Aula, e così l’opposizione silenziosa nel Paese nelle carceri e al confino di tanti italiani, fanno parte come tanti errori e contraddizioni comuni ad una intera classe dirigente, di un quadro più grande di eventi. Dopo vent’anni, il riscatto. Con la sconfitta del fascismo e la Liberazione tornerà la democrazia ma a quale prezzo è storia sotto gli occhi di tutti. Anche il Parlamento recupererà la sua funzione insostituibile. Osserva Giampiero Carocci «anzi, una funzione formalmente più importante di quella avuta durante il periodo liberale prefascista. Il nuovo regime, che presto non sarebbe stato più una monarchia costituzionale ma una repubblica democratica, avrebbe avuto nel parlamento la fonte prima della sua autorità ma anche della sua esistenza»[5].

Il nuovo sistema politico era nato sulle rovine del fascismo e dalla Resistenza, figlia dell’Antifascismo. Il concorde e unitario operare dei partiti democratici avevano permesso la vittoria. Pensiamo che il contributo storico del Pivano possa inserirsi tra gli strumenti più utili d’informazione e di orientamento nella storia più recente del popolo italiano.

Lamberto Mercuri

[1] Renzo De Felice, «Mussolini il fascista», La conquista del potere, Einaudi, 1966, pag. 566.

[2] Marcello Soleri, «Memorie politiche», Torino, 1949.

[3] Leo Valiani, «Dall’Antifascismo alla Resistenza», Feltrinelli, 1959, pag. 97.

[4] Gaetano Arfé, «Giacomo Matteotti», in Terzo Programma, 1965, n.1, pag. 267.

[5] Il Parlamento nella storia d’Italia, Laterza, 1964, p. 666.