da Giacomo Matteotti - 1885 1924 - edito da «Archivio
per la Storia», 1996
Prefazione
di
Stefano
Caretti
[pp.
XI-XXI]
Giacomo
Matteotti nacque a Fratta Polesine (Rovigo) il 22 maggio 1885 da genitori di
modestissime origini. Il nonno paterno Matteo, originario di Comasine, un
piccolo paese trentino nella Val di Pejo, si era stabilito a Fratta attorno al
1840, insieme alla moglie Caterina Sartori e al figlio Girolamo, per esercitare
il mestiere di calderaio. Anche Girolamo aveva presto appreso a lavorare e a
vendere il rame, e dopo duri sacrifici era riuscito ad aprire un piccolo
emporio. A 37 anni si era sposato con una ragazza del luogo, Elisabetta
Garzarolo, i cui familiari avevano preso parte attiva ai primi moti carbonari
del 1821. Con i proventi della bottega, e grazie ad oculati investimenti,
avevano poi saputo mettere assieme una proprietà terriera di circa 155 ettari,
sparsa in diversi comuni del Polesine. Nel 1902, alla morte di Girolamo, la
direzione delle aziende agricole e del negozio era stata assunta dalla moglie,
con l’aiuto del figlio Silvio. Agli studi economici-giuridici si indirizzarono
invece gli altri figli, Matteo e Giacomo, e sembrò che i due fratelli dovessero
distinguersi nella carriera scientifica.
Matteo,
primogenito, si laureò all’Università di Torino dove frequentò, in compagnia di
Luigi Einaudi, il Laboratorio di Economia Politica. Esordiente, sotto la guida
di Salvatore Cognetti De Martiis, con un volume sull’Assicurazione contro la
disoccupazione, pubblicato nella «Biblioteca di scienze sociali» dell’editore
Bocca, lasciò incompiuto un altro suo lavoro sul pauperismo e la
disoccupazione. Collaborò pure, prima di spegnersi precocemente di tisi come il
fratello Silvio, alla rivista «La Riforma Sociale» di Nitti e di Roux. Finché
visse, Matteo fu consigliere assiduo di Giacomo avviandolo al socialismo e alla
lettura dei testi fondamentali, italiani e stranieri, di dottrine economiche e
finanziarie che era venuto raccogliendo nella sua ricca biblioteca.
Conseguita
brillantemente la licenza al ginnasio-liceo Celio di Rovigo, anche Giacomo
proseguì gli studi universitari iscrivendosi alla Facoltà di legge di Bologna.
Qui frequentò le lezioni e poi lo studio di Alessandro Stoppato, uno dei
maggiori rappresentanti della scuola classica, con il quale si laureò nel 1907
discutendo una tesi sui «Principi generali de “La recidiva”». Approfondì in
seguito questa sua ricerca attraverso lunghi soggiorni all’estero, studiando i
sistemi penitenziari e la legislazione penale vigente nei maggiori paesi
europei. Ripresa e ampliata, la tesi fu quindi pubblicata nel 1910 col titolo «La
recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici» nella «Biblioteca
antropologica-giuridica» di Bocca. In quegli anni venne anche stampando
articoli e saggi di procedura penale sulla «Rivista penale» di Lucchini, su «Il
progresso di diritto criminale» di Carnevale e sulla «Rivista di diritto e
procedura penale» di Florian, Zerboglio e Berenini. Più tardi, durante la
guerra, avviò un ampio studio sulla Cassazione. Ma nel 1910, mentre era all’estero
per perfezionare le sue ricerche, su pressioni della sezione socialista di
Occhiobello, si trovò candidato nelle elezioni per il rinnovo del consiglio
provinciale di Rovigo. Risultò eletto e da quel momento abbandonò
progressivamente gli studi giuridici per dedicarsi interamente alla politica.
Sulla base
quindi di una severa e rigorosa cultura giuridica ed economica Matteotti si
applicò, nei suoi anni giovanili, quale sindaco e consigliere di vari comuni
polesani, nonché di capogruppo al Consiglio provinciale di Rovigo, a problemi
amministrativi e tributari, occupandosi personalmente della preparazione e
della revisione dei bilanci. Pressante era, a questo proposito, il suo invito
ai lavoratori organizzati nelle file socialiste, privi la più parte di
competenza amministrativa, ad assumere responsabilità dirette e funzioni
dirigenti dotandosi di tutti gli strumenti tecnici e culturali necessari per
una corretta gestione della cosa pubblica. Un’opera quotidiana, quella di
Matteotti, di educazione dei compagni sui complessi problemi della vita
amministrativa, fondata sulla fiducia nella graduale trasformazione dei
lavoratori in classe dirigente nazionale attraverso l’esperienza delle leghe,
delle cooperative e dei comuni.
Al socialismo
Matteotti si era avvicinato giovanissimo, appena tredicenne, spinto, come il
fratello Matteo che lo aveva preceduto nell’adesione al partito socialista, da
un forte sentimento di solidarietà per i braccianti e i contadini del Polesine
costretti a vivere in condizioni di estrema miseria. Riformista sin dagli
esordi della sua milizia, Matteotti aderirà sempre nel partito a quella
tendenza, anche se su posizioni spesso originali e non di rado divergenti
rispetto ad altri esponenti della corrente, persuaso che al socialismo si
sarebbe arrivati non in virtù di decreti emessi dall’alto e neppure in seguito
ad eversioni violente e repentine, ma attraverso graduali e progressive
riforme, seriamente elaborate e puntualmente realizzate. La sua formazione e la
sua esperienza politica, maturate a diretto contatto con la realtà quotidiana
del proletariato polesano, lo tennero lontano dalle più accese dispute di
corrente e dal dibattito ideologico; e anche i suoi rapporti con i dirigenti
del partito furono sino al dopoguerra assai saltuari. Organizzatore e
amministratore avanti tutto, Matteotti alle dissertazioni teoriche preferì l’azione
concreta, indirizzata all’elevazione morale e al miglioramento delle condizioni
materiali delle popolazioni contadine. Critico severo di ogni forma di
demagogia e di rivoluzionarismo verbale, lo era altrettanto di un certo
determinismo, di derivazione positivista, cui sovente indulgevano alcuni
dirigenti riformisti. Una concezione rigidamente deterministica del divenire
sociale finiva infatti, a suo avviso, con l’escludere o quanto meno limitare
l’incidenza del fattore umano e la forza risolutiva dell’impegno volontaristico
nel processo storico, rischiando di condannare il partito ad uno sterile
immobilismo.
Quando nel 1904
Giacomo Matteotti, dopo alcuni anni di militanza nella gioventù socialista,
prese la tessera della sezione adulti, la struttura del partito nel Polesine
era ancora piuttosto debole anche se si era venuta sviluppando una fitta rete
di leghe di miglioramento per opera di Nicola Badaloni e di alcuni giovani
medici e professionisti (Gallani, Beghi, Zanella, Greggio e altri).
Basti citare in
proposito un solo dato: nei 63 comuni della provincia di Rovigo appena 10
avevano in quel periodo sezioni funzionanti, mentre in altri 3 operavano
soltanto alcuni iscritti isolati. Incaricato di tenere i rapporti tra il
comitato provinciale e la base, Matteotti riuscì in breve tempo a dare uno
straordinario impulso alle iniziative del partito. Attivista e propagandista
instancabile, Matteotti riorganizzò la Camera del lavoro di Rovigo, creò nuove
sezioni, leghe cooperative, circoli politici, biblioteche popolari, rafforzando
e sviluppando le istituzioni proletarie già esistenti. Contribuì così in misura
decisiva a far superare alla federazione socialista rodigina le conseguenze
della scissione dei sindacalisti rivoluzionari del 1907, capeggiata localmente
da Dante Gallani e da Vittorio Frassinelli, e la crisi ancora più grave in cui
l’adesione alla guerra libica di Badaloni e il suo allontanamento dal partito
minacciarono di gettarla. In quella occasione Matteotti, contrariamente alle
sue consuetudini, non esitò a intervenire direttamente nella polemica interna
tra le diverse componenti accusando i riformisti bissolatiani di avere elevato
a prassi permanente la politica di alleanza tra movimento operaio e democrazia
borghese progressivista, giustificata soltanto in determinate circostanze e a
ben precise condizioni, e di essersi posti in tal modo fuori del partito.
Nello stesso
tempo si oppose con risolutezza ad ogni forma di inutile violenza e di
demagogico sovversivismo, prendendo posizione tra il 1912 e il 1914, avvenuta
la conquista del partito da parte dell’ala intransigente rivoluzionaria, contro
iniziative impulsive e settarismi interni, persuaso che per questa via si
sarebbero soltanto dispersi i frutti della lunga lotta socialista e
pregiudicate le sorti future dei lavoratori.
Ai primi del
1913 si trovò così a polemizzare direttamente con Mussolini, il quale dalle
colonne dell’«Avanti!» aveva proposto di rispondere ai frequenti eccidi
proletari compiuti dalle forze dell’ordine, con il ricorso immediato alla
piazza e allo sciopero generale ad oltranza, senza un minimo di riflessione
critica e di adeguato apprestamento organizzativo. All’infiammato quanto
rischioso progetto mussoliniano, sostenuto anche dal segretario e dalla
direzione del partito, Matteotti suggerì di sostituire un’iniziativa assai più
avveduta: quella di riunire in comizio le forze popolari nella domenica
successiva alle violenze, e illustrare loro i motivi e il significato della
protesta, per poi dare esecuzione allo sciopero il lunedì seguente nelle città
e nelle campagne, come vero atto consapevole di solidarietà con le vittime e
non come mera esibizione rivoluzionaria. La critica matteottiana a Mussolini, e
in genere alla dogmatica intransigenza della Direzione, ebbe modo di
manifestarsi anche nel corso del 1914 in occasione delle elezioni amministrative
quando Matteotti disapprovò energicamente tanto il rigido rifiuto di ogni
alleanza con altre forze politiche, quanto l’esclusione dalle liste socialiste
dei candidati senza tessera benché dirigenti di leghe e persone esperte di
tecnica amministrativa e inclini a mettere la propria competenza a disposizione
del partito. Ancora ad Ancona, nell’ottobre del 1914, partecipando per la prima
volta ad un congresso nazionale, Matteotti contrappose un suo ordine del giorno
a quello di Mussolini, respingendo la violenza persecutoria con cui si sarebbe
dovuto provvedere seduta stante all’espulsione dal partito di tutti i massoni, o
presunti tali, e proponendo invece che ci si limitasse a dichiarare l’incompatibilità
statutaria tra l’iscrizione al PSI e l’appartenenza ad una loggia massonica, sì
da evitare sospetti e vessazioni arbitrarie.
In quegli
stessi anni, e sino allo scoppio della prima guerra mondiale, Matteotti continuò
ad operare instancabilmente soprattutto nelle leghe, nelle cooperative agricole
e di consumo, alle quali prestava con ininterrotta assiduità la propria
consulenza, e nelle amministrazioni locali. Nel 1912, quando al congresso delle
organizzazioni economiche e socialiste del Polesine venne decisa, dopo il
rientro nelle file del partito di Gallani e di altri sindacalisti
rivoluzionari, la fusione dei due giornali «La Lotta» e «Protesta Proletaria»
da cui prese vita «Lotta Proletaria», Matteotti fu chiamato a far parte della
redazione. Al foglio polesano, che un anno più tardi doveva riprendere il
titolo originario («La Lotta»), egli collaborò con una serie di scritti
contribuendo a trasformare il giornale in un valido strumento di formazione e
di educazione operaia. Sindaco di Villamarzana dal 1912 e di Boara Polesine dal
1914, e consigliere in una decina di comuni, guidò l’opposizione socialista al
Consiglio provinciale di Rovigo. In qualità di amministratore si occupò con
rara competenza della preparazione e revisione dei bilanci, al riordinamento
delle scuole primarie, alla creazione di asili, oltre che a ospedali,
comunicazioni tranviarie e fluviali. Per questa sua vasta esperienza Matteotti
ebbe poi modo di segnalarsi all’attenzione dei vertici del partito in occasione
del Congresso dei comuni socialisti tenutosi a Bologna nel gennaio 1916. Sì che
nel marzo successivo, quando venne deliberato, una volta ritirata l’adesione
all’Associazione dei comuni italiani, di dare vita alla Lega dei comuni
socialisti, fu chiamato a ricoprire la carica di segretario. Impegno che poté
assolvere solo per pochi mesi perché richiamato alle armi.
L’assoluta
inconciliabilità tra il riformismo matteottiano e il sovversivismo
mussoliniano, già emersa nella polemica sullo sciopero generale, sulla tattica
elettorale e relative alleanze, sulla necessità di rafforzare tecnicamente i
quadri del partito e di evitare in ogni caso proscrizioni settarie, trovò modo
di emergere in forme sempre più evidenti allo scoppio della prima guerra
mondiale. Immediata e veemente fu infatti la reazione di Matteotti al trasformismo
opportunista di Mussolini che portò il direttore dell’«Avanti!» a smentire
clamorosamente le sue reiterate dichiarazioni neutraliste con un voltafaccia
così repentino da indurre la Direzione del partito a provocarne le dimissioni.
Fedele ai postulati della migliore tradizione socialista, soprattutto
refrattario a quei motivi passionali, agitati dall’interventismo di sinistra,
che in qualche misura determinarono incertezze e defezioni nelle correnti più estreme
e radicaleggianti del partito, Matteotti si oppose decisamente all’intervento dell’Italia
in guerra, così come aveva anni prima avversato l’impresa libica. Sin dagli
inizi delle ostilità egli sostenne che entrambi i blocchi erano animati, al di
là delle dichiarazioni di principio, da precise ambizioni imperialistiche e che
la guerra si sarebbe comunque risolta con gravi danni e lutti per le
popolazioni e con un forte arretramento delle conquiste sociali, politiche e
civili dei lavoratori. Di fronte alla prospettiva dell’immane carneficina, da lui
lucidamente prefigurata, Matteotti invitò perentoriamente i dirigenti
socialisti a una mobilitazione popolare ricorrendo a tutti i mezzi, anche quelli
violenti, pur di evitare l’intervento italiano in guerra, non giustificato
oltretutto da alcuna minaccia al nostro territorio. E alle obiezioni delle
stesso Turati circa l’opportunità di un’insurrezione, non esitò a ribadire la
sua tesi in un articolo sulla «Critica Sociale», sostenendo che da «buon
riformista» non aveva mai escluso «la possibilità e la necessità rivoluzionarie»,
quando, come un tempo in difesa delle libertà statutarie ed ora contro la
guerra, esse avessero il potere di evitare un «maggior male».
Anche dopo l’ingresso
dell’Italia in guerra, Matteotti non mancò di riconfermare la propria condanna
contro l’inutile spargimento di sangue e contro le mire espansionistiche del
militarismo italiano. In seguito ad un suo acceso discorso antibellicista al
Consiglio provinciale di Rovigo, nella seduta del 5 giugno 1916, venne anche
denunciato e condannato dal pretore a trenta giorni d’arresto con la
condizionale per «grida sediziose» e «disfattismo»; condanna poi confermata dal
tribunale d’appello di Rovigo il 18 aprile 1917. Matteotti ricorse allora in
Cassazione e affidò la causa all’avvocato Guarnieri Ventimiglia, a cui
raccomandò che la difesa fosse unicamente impostata sulla tesi dell’immunità
dell’oratore in sede di Consiglio provinciale, invitandolo anzi a riaffermare i
principi e gli ideali del pacifismo socialista. Il ricorso venne accolto e la
Corte di Cassazione lo assolse con decisione del 21 luglio 1917.
Nel gennaio del
1916 si era sposato con Velia Titta, sorella del celebre baritono Ruffo Titta
(in arte Titta Ruffo), da cui ebbe tre figli: Carlo (1918), Matteo (1921) e
Isabella (1922). Nel luglio di quello stesso anno era stato chiamato alle armi
benché già riformato e collocato in congedo illimitato. Assegnato in un primo
tempo a Cologna Veneta, in provincia di Verona, venne di lì a poco trasferito
in Sicilia perché considerato dal Comando Supremo un «violento agitatore» e
perché la sua permanenza in zona di guerra era giudicata estremamente
pericolosa. Nell’isola fu vigilato con rigore a causa dei suoi precedenti
politici, e per qualche tempo venne persino internato a Campo Inglese.
Continuamente spostato di reparto, prestò servizio in varie fortezze e batterie
costiere, con una interruzione dal 15 giugno al 16 luglio 1917 quando venne
inviato a frequentare il corso allievi ufficiali presso l’Accademia di Torino,
da cui fu presto allontanato su ordine del comando di corpo d’armata di
Palermo. Anche durante le rare licenze veniva attentamente sorvegliato tanto
che nell’ottobre del 1917, sorpreso mentre girava per la campagna polesana, fu
subito sospettato di intenzioni sediziose e immediatamente rinviato al reparto.
Restituito
finalmente alla vita civile nel marzo 1919, riprese immediatamente con grande
impegno la sua opera di organizzatore e di amministratore, venendosi a trovare
subito impegnato nelle lotte bracciantili per il controllo del collocamento e
l’imponibile di manodopera. Lotte che si conclusero nel 1920 con la firma del
nuovo patto agricolo per la provincia di Rovigo. Il collocamento era sottratto,
in base all’accordo, all’arbitrio degli agrari e affidato ad appositi uffici
istituiti dalle leghe, mentre veniva stabilito un contingente fisso di
manodopera per ogni unità culturale onde evitare che i proprietari nella
stagione invernale rinviassero a casa tutti i lavoratori. Nell’autunno 1920,
dopo la conquista socialista di tutti i 63 comuni del Polesine, Matteotti entrò
nuovamente nel Consiglio provinciale di Rovigo.
Principali
obiettivi della nuova amministrazione da lui presieduta furono, in particolare,
il risanamento del bilancio e la revisione delle imposte per una più equa
ripartizione degli oneri finanziari. Tra le sue iniziative va anche ricordata
l’istituzione di un unico ufficio di consulenza legale e di ispezione
amministrativa per i comuni polesani.
Acceso
sostenitore di un rafforzamento delle autonomie locali che fosse basato su un
vasto decentramento amministrativo, presentò varie proposte ai congressi della
Lega dei comuni socialisti ed elaborò un progetto di riforma generale della
finanza locale. Ma, a differenza di altri suoi compagni di partito il cui orizzonte
rimase sempre ristretto all’ambito municipale, egli venne via via allargando e
approfondendo i suoi interessi politici ed economici secondo una più ampia
prospettiva nazionale ed internazionale.
Eletto deputato
nel 1919, e poi riconfermato nel 1921 e nel 1924, Matteotti si distinse per la
padronanza delle problematiche relative alla vita economica e finanziaria,
esercitando una critica senza quartiere contro ogni irregolarità
amministrativa. Assai accanita fu inoltre la sua polemica sui dazi e le barriere
doganali che contrastò come «forme deteriori di protezionismo di categoria»,
giungendo su questo terreno a scontrarsi anche con alcuni dirigenti del
sindacato.
Membro della
Giunta del Bilancio e più tardi della Commissione Finanza e Tesoro, attaccò a
più riprese la politica economica del governo denunciando la «precisa
intenzione» delle classi dirigenti di scaricare sulle spalle dei lavoratori «tutto
quanto il peso della guerra e della ricostituzione sociale».
Ai temi di
politica economica e finanziaria Matteotti dedicò pure numerosi articoli sulla
stampa socialista e su riviste scientifiche.
L’azione
politica di Matteotti, svolta nel Polesine e sostenuta alla Camera, se pur fu
senza dubbio improntata ad un acceso radicalismo e ad un intransigente rigore
morale, sì che gliene derivarono spesso accuse di estremista da parte degli
avversari e talvolta di massimalista all’interno del suo stesso partito.
Tuttavia non si discostò mai da quel socialismo gradualista delle origini che
ebbe modo di riconfermare al congresso nazionale socialista di Bologna
nell’ottobre 1919.
Nel successivo
congresso di Livorno, nel gennaio 1921, Matteotti, benché incaricato dalla
frazione turatiana di tenere un discorso, non prese la parola ma preferì
abbandonare i lavori per correre a Ferrara dove, in seguito ai sanguinosi
incidenti del Castello Estense, le organizzazioni operaie rischiavano di essere
travolte dall’offensiva squadrista. Con quel gesto tempestivo Matteotti
prendeva altresì le distanze da un dibattito congressuale polarizzato sui «21
punti» di Mosca e sordo invece al fenomeno fascista pericolosamente in atto.
Testimone
attento e critico intransigente dello squadrismo padano, Matteotti fu tra i
pochi a comprendere subito la natura violenta e repressiva del fascismo e a
intuirne i caratteri di novità rispetto alle precedenti esperienze autoritarie
denunciando, senza esitazione alcuna, alla Camera e in altre sedi, la gravità
della sua minaccia. Divenne per questo vittima di una lunga serie di
intimidazioni verbali e di violenze fisiche. Risale al gennaio 1921 la prima
aggressione a Ferrara.
Due mesi dopo
fu vittima di una seconda e più drammatica rappresaglia squadristica. Recatosi
a Castelguglielmo, in provincia di Rovigo, per incontrarsi nella sede della
Lega con alcuni organizzatori e militanti del posto, venne sequestrato nella
sede degli agrari, trasportato su un camion, minacciato di morte, oltraggiato e
infine abbandonato in aperta campagna perché, come egli ebbe ad annotare, non
si piegava a «rinnegare né cose dette né pensieri».
Da quel momento
fu bandito dalla propria terra e poté farvi ritorno solo di nascosto per brevi
visite alla madre e sporadici contatti con i propri compagni. Le riunioni di
partito e la stessa campagna elettorale nella primavera del 1921 furono
necessariamente dirette e organizzate da Matteotti a Padova; ma neppure qui
cessò di essere perseguitato, e il 16 agosto riuscì fortunosamente ad evitare alcuni
colpi di pistola esplosi contro di lui da fascisti del luogo.
Atti di
intolleranza nei suoi confronti si rinnovarono a Varazze, dove si era
trasferito con la famiglia, nell’estate del 1922. Altre bastonature e sequestri
Matteotti subì nel luglio 1923 a Siena e a Cefalù durante la campagna
elettorale del 1924.
Oltre ai
numerosi e documentati interventi alla Camera, Matteotti sollevò più volte la
questione fascista anche all’interno del suo partito. Al congresso nazionale di
Milano, nell’ottobre 1921, esordì polemicamente dichiarando di intervenire non
come interprete di una corrente, ma come portavoce di tutti quei militanti che
non avevano potuto essere presenti perché impediti dalle violenze fasciste o
perché delusi dalla «disputa astratta, formalistica» delle varie tendenze. Ma
il suo appello ad un più fattivo impegno e ad una concreta iniziativa politica
contro il fascismo, che non escludesse anche la possibilità di transitorie
collaborazioni su questo terreno con i settori più avanzati della democrazia e del
liberalismo, rimase però inascoltato e la maggioranza congressuale finì ancora
una volta, come a Livorno, per discutere essenzialmente dei rapporti con l’Internazionale
comunista e di prospettive rivoluzionarie.
Nei mesi
successivi Matteotti proseguì senza posa la sua battaglia contro il fascismo e
si adoperò in tutti i modi per convincere i dirigenti socialisti a promuovere
un’intesa con le forze democratiche e liberali, allo scopo di evitare il
rischio dell’isolamento e di uno sterile atteggiamento puramente negativo. Ma
nel corso del 1922 i contrasti interni tra massimalisti e riformisti andarono
progressivamente radicalizzandosi, e in quell’ottobre il partito conobbe una
nuova e grave scissione. Espulsi al congresso nazionale di Roma, i riformisti
diedero allora vita al Partito Socialista Unitario e ne affidarono unanimemente
la direzione a Matteotti, il quale si preoccupò subito di dare alla nuova
formazione una salda ed efficiente struttura organizzativa, vigilando al tempo
stesso perché nel clima seguito alla marcia su Roma non si verificassero cedimenti
e definizioni. Quando perciò sul finire dell’anno venne a conoscenza dei
colloqui avuti da Baldesi con Mussolini e con D’Annunzio e del ventilato
progetto di un sindacato unico, Matteotti reagì immediatamente a un disegno
tanto compromissorio. Altrettanto ferme furono la sua opposizione e la sua
condanna nell’estate del 1923, allorché i dirigenti della Confederazione
generale del lavoro si incontrarono con Mussolini nell’illusione di salvaguardare
la libertà sindacale scendendo a patti con il fascismo. Per Matteotti compito
del Partito Socialista Unitario era invece proprio quello di isolare il
fascismo, nel Parlamento e nel Paese, promuovendo un’ampia coalizione antifascista
ed allargando la propria influenza sui ceti medi che la propaganda massimalista
aveva contribuito ad allarmare e a rendere ostili.
A questo fine
occorreva non solo correggere gli errori del dopoguerra, ma anche documentare,
sulla scorta di fatti e dati incontrovertibili, l’infondatezza della pretesa
egemonica di Mussolini di proporsi come unico baluardo contro la crisi
economica e contro il bolscevismo. Nasce così negli ultimi mesi del 1923 «Un
anno di dominazione fascista», un volume che procurò a Matteotti la minaccia mussoliniana
di «decisioni gravi ed irrevocabili» e le intimidazioni del «Popolo d’Italia»
di «trovarsi un giorno o l’altro, con la testa rotta!», insomma di essere tolto
«dalla circolazione, senza indugio». Ad un altro lavoro, uscito postumo e
intitolato «Il fascismo della prima ora», Matteotti si dedicò agli inizi del
1924 per dimostrare, attraverso una dettagliata analisi di articoli, discorsi e
interventi di Mussolini e di altri esponenti fascisti, come durante il biennio 1919-1920
la demagogia fascista avesse di gran lunga superato quella massimalista. Anche
le missioni all’estero, in qualità di segretario del Partito socialista
unitario, offrirono a Matteotti l’occasione di esporre all’opinione pubblica
straniera la drammatica situazione venutasi a creare in Italia dopo l’ascesa al
potere di Mussolini. Nella primavera del 1924, benché privato del passaporto,
espatriò clandestinamente per assistere al congresso del Partito operaio belga
e per incontrarsi con alcuni dirigenti del Labour Party e delle Trade-Unions.
Se i colloqui di Londra furono diretti a ridimensionare il mito del buon
governo mussoliniano, sottoposto da Matteotti ad una rigorosa analisi critica,
l’intervento a Bruxelles venne interamente dedicato ad illustrare la complessità
del fenomeno fascista e a metterne in luce la potenziale minaccia anche per
altre realtà europee.
Pur consapevole
di rischiare la vita, Matteotti continuò a testimoniare questa sua
intransigente e coraggiosa opposizione al fascismo fino alla celebre denuncia,
il 30 maggio 1924 in Parlamento, dei brogli e del clima violento che avevano
contraddistinto l’ultima consultazione elettorale. Contro il discorso «mostruosamente
provocatorio» di Matteotti si levò l’1 giugno l’invettiva di Mussolini persuaso
che quelle accuse meritassero «qualcosa di più tangibile» degli insulti e delle
interruzioni dei parlamentari fascisti. L’8 giugno era la stampa fascista a
sollecitare «una mossa energica del Duce». Due giorni più tardi cinque sicari
fascisti, componenti la cosiddetta Ceka o banda del Viminale, si incaricarono
di sopprimere Matteotti, l’«oppositore più intelligente e più irriducibile»
come ebbe a definirlo Piero Gobetti, perché nel paese e nella Camera non
risuonasse più la sua voce di accusa e di protesta. Il corpo, abbandonato nella
campagna romana, fu ritrovato soltanto dopo due mesi e in circostanze poco
chiare.
La notizia del
rapimento e dell’assassinio di Giacomo Matteotti suscitarono, sia per la forte
personalità dell’ucciso che per l’efferatezza inaudita dell’evento delittuoso,
sdegno e raccapriccio nelle coscienze della maggior parte degli italiani,
determinando sgomento e confusione nelle stesse file fasciste e provocando
quella secessione parlamentare che prese il nome di Aventino. «Giacomo
Matteotti era così prescelto», ha scritto Pietro Nenni, «ad impersonare il
delitto di Stato del 10 giugno 1924 che si iscriveva nella storia del paese
come una svolta; la svolta del fascismo più o meno spontaneo in un regime
dittatoriale inaccessibile ad ogni revisione interna; la svolta
dell’antifascismo da fatto occasionale all’interno del quale non era
impossibile trovare punti di compromesso, a fatto morale con ogni ponte rotto,
senza alle spalle via di ritirata; tutto sì o tutto no, con la sola prospettiva
della lotta totale e della resa incondizionata».
Cenni sulle origini della famiglia
Matteotti
di
Primo
Griguolo
[pp. 1-3]
I Matteotti
erano originari del Trentino, precisamente di Comasine, piccolo paese della Val
di Sole. Il nonno di Giacomo, Matteo, dopo aver fatto per anni l’emigrante
stagionale come calderaio, decise, intorno al 1840, di trasferirsi
definitivamente a Fratta Polesine. Venuto a mancare il padre, il figlio
Girolamo aprì una bottega in cui si lavoravano e si vendevano oggetti di rame
ed altre mercanzie. A trentasei anni Girolamo Matteotti si sposa con una
ragazza di Fratta, Elisabetta Garzarolo: sono questi i genitori di Giacomo. Dal
matrimonio nacquero sette figli, dei quali solo tre sopravvissero: Matteo, il
primogenito nato nel 1876; Giacomo, nato il 22 maggio 1885; Silvio, nato nel
1887. La devastante alluvione del 1882, causata dalla rotta dell’Adige a Legnago,
portò indigenza ed emigrazione per la popolazione del Polesine, ma la famiglia
Matteotti, grazie all’avviata attività commerciale, affrontò agevolmente la
calamità naturale.
Dopo aver
iniziato gli studi, Matteo Matteotti abbracciò con slancio gli ideali del
nascente socialismo. Conobbe personalmente Costantino Lazzari, leader
socialista, che, per la sua attività di commesso viaggiatore, fu più volte
ospite di casa Matteotti.
In quegli ami,
dal 1884 in poi, lo scontento dei contadini e dei braccianti, nel cremonese e
nel mantovano, metteva in evidenza l’importanza che stava assumendo in Italia
la questione sociale. Giacomo, che seguì le orme del fratello maggiore, compì
gli studi liceali al «Celio» di Rovigo, conseguendo ottimi risultati ed
iscrivendosi, nel 1904, alla facoltà di giurisprudenza di Bologna.
Il padre,
intanto, era morto nel 1902; più tardi, nel 1909 e 1910, minati dalla tisi,
moriranno i fratelli Matteo, il suo primo maestro nella fede politica, e
Silvio. Giacomo Matteotti discusse la tesi di laurea con il professor
Alessandro Stoppato. Essa concerneva la «recidiva», cioè quella parte del diritto
penale che prende in considerazione le ricadute nel reato da parte di una
medesima persona. Al giovane laureato sembrava aprirsi un futuro fatto di
viaggi d’istruzione e di carriera universitaria.
Invece,
candidato nel 1910 nel distretto di Occhiobello, sebbene restio ad assumere
incarichi politici, Giacomo Matteotti ottenne la maggioranza dei suffragi e fu
eletto, a venticinque anni, al consiglio provinciale. Agli inizi del ’900, i
nomi di spicco del mondo politico polesano nell’ambito socialista erano: Nicola
Badaloni, Emilio Zanella, Gino Piva, Dante Gallani, Vittorio Frassinelli e
pochi altri.
Due erano i
giornali che, da diversa sponda, informavano l’opinione pubblica polesana del
tempo: «La Lotta», organo socialista fondato nel 1889, e il «Corriere del
Polesine», organo dei liberal-moderati.
Giacomo
Matteotti, come uomo politico e come amministratore in alcuni comuni dell’Alto
Polesine, visse i travagli interni del suo partito ed in genere della classe
politica italiana negli anni che portarono all’intervento coloniale italiano in
Libia (1911), alla svolta che nella società e nella politica interna si ebbe
con l’introduzione del suffragio universale (1912) e con il Patto Gentiloni
(1913).
Verrà processato
a causa del suo acceso non-interventismo e vivrà gli anni della guerra più come
un sorvegliato speciale che un soldato.
Giacomo, poco
più che trentenne, s’era intanto sposato, l’8 gennaio 1916, con Velia Titta,
sorella minore del celebre baritono Titta Ruffo.
L’immediato
dopoguerra vede il sorgere dei Fasci di combattimento, a Milano nel 1919, e,
nello stesso anno, del Partito Popolare che annoverava tra i suoi fondatori
Umberto Merlin, uomo politico polesano che Matteotti aveva conosciuto negli
anni di liceo. Tra gli argomenti che Matteotti toccava più di frequente, nei
suoi discorsi e negli articoli sui giornali, un posto di particolare rilievo
avevano i temi di politica economica e finanziaria. Documentati e precisi i
suoi interventi, ad esempio su «La Giustizia» e sulla «Critica Sociale»,
mirarono, fino all’ultimo, a rintuzzare con l’evidenza delle cifre e dei fatti
la vana retorica del fascismo, che sotto l’irrazionalità delle parole d’ordine
nascondeva l’inganno ideologico e il più spregevole opportunismo politico.
Da una parte
gli anni ’20 furono quelli della grande tensione rivoluzionaria della classe
operaia, che portò, nelle grandi città del nord Italia, come a Torino,
all’occupazione delle fabbriche; dall’altra quelli dell’emergere repentino del
fenomeno fascista con la sua arroganza e l’ambigua impostazione ideologica.
Chiusosi
rapidamente il periodo delle grandi speranze, nell’area socialista serpeggiò la
crisi e maturarono le scissioni. In un momento storico che richiedeva il
massimo della compattezza, il partito socialista si divide. Nasce, con il
congresso di Livorno del 1921, il Partito Comunista; nel ’22, i socialisti
massimalisti di Serrati e Lazzari si staccano dai socialisti riformisti di
Turati e Treves.
Matteotti resta
con Turati e nasce il Partito socialista unitario. In questo frangente, mentre
le forze socialiste s’indebolivano in una violenta ed estenuante diatriba di
carattere ideologico, Matteotti è tra i pochi, se non il solo, ad individuare
pragmaticamente, al di là dei nuovi schieramenti, nel fascismo il reale
pericolo. Per questo, negli ultimi mesi della sua vita, si muove costantemente
da un capo all’altro del Paese cercando di scuotere le sezioni che languivano,
preparando una democratica resistenza alle prevedibili prevaricazioni e
illegalità del fascismo.
Il 30 maggio
1924 Giacomo Matteotti pronunciava alla Camera il suo ultimo discorso con il
quale dichiarava invalidate le recenti votazioni a causa delle violenze, delle
pressioni, e delle provate illegalità. Più volte interrotto, deriso e
minacciato, Matteotti riuscì a concludere il suo intervento, ma ebbe il
presentimento della sua tragica fine.
Roma, martedì
10 giugno 1924: Matteotti esce alle 16,30 dalla sua abitazione, in via Pisanelli
40, e raggiunge il lungotevere Arnaldo da Brescia.
È improvvisamente
aggredito da quattro o cinque persone e, di forza, trascinato dentro un’auto.
Colpito duramente nella colluttazione, verrà in seguito ucciso. Evidente e
premeditato il movente politico dell’aggressione e dell’omicidio, ma gli
esecutori non furono adeguatamente puniti per le loro colpe, né i mandanti che
rimasero del tutto impuniti. I resti del corpo del parlamentare socialista
furono ritrovati soltanto il 16 agosto, due mesi dopo il rapimento, a 25 Km da
Roma, a Riano, presso la via Flaminia in una boscaglia denominata «Quartarella».
Il 21 agosto avvenne
la sepoltura di Giacomo Matteotti nel cimitero di Fratta. Il regime fascista
non aveva voluto che si tenesse la commemorazione dello scomparso nella
capitale, per timore di disordini. A Fratta non fu tenuto alcun discorso; una
grande folla accompagnò la salma in un’atmosfera di profonda e contenuta
commozione.
Sotto l’esempio
di Matteotti, negli anni difficili del fascismo, si formeranno gli uomini
politici, da Terracini a Pertini e a Saragat, da Carlo Rosselli a Ferruccio
Parri, per citarne solo alcuni, che saranno i promotori della resistenza al
fascismo e della nuova costituzione repubblicana dello stato italiano.
Per Matteotti
di
Piero
Gobetti
[pp. 129-143]
L’intransigente
del «sovversivismo»
Il 2 maggio
1915, tre giorni prima della sagra dannunziana di Quarto, ci fu a Rovigo un
comizio contro la guerra, oratori il dottor Giacomo Matteotti e Aldo Parini che
vi sostenne, esempio unico in una pubblica riunione, la tesi missiroliana della
Germania democratica. Invece di un discorso si ebbe un dialogo con la folla,
scontrosa e diffidente per gli oratori. Matteotti parlava contro la violenza
con un linguaggio da cristiano: nella folla fremevano fascisticamente spiriti
di dannunzianismo e di piccolo cinismo machiavellico. Difendere la neutralità
poteva essere la difesa di un errore. Matteotti parlò contro la guerra. Lo
interrompevano in dialogo acre ma si dovevano riconoscere di fronte una fede
invece di un progetto. Quel giorno Matteotti previde la guerra lunga,
difficile, disastrosa anche per i vincitori; e portò la sua tesi in sede
metafisica: inutilità della guerra, facendosi tollerare da una generazione nietzscheana
per la severità della sua solitudine.
Ripeté il suo
discorso, quando non c’era più pacifista che parlasse, a guerra iniziata, al
Consiglio Provinciale di Rovigo. Processato per disfattismo, condannato in
ripetute istanze, trattò da sé la sua causa in modo radicale, senza rinnegare nulla
del suo atto, anzi ostinandosi a farne riconoscere la leggibilità. La protesta
contro la guerra come violenza non era disfattismo, ma un atto di fede ideale: bisogna
saper vedere in Matteotti, giurista, economista, amministratore, uomo pratico,
queste pregiudiziali di disperata utopia, di assoluto idealismo, di reazione
assurda contro la grettezza filistea dei falsi realisti. Sicuro come un
apostolo, Matteotti si fece assolvere in Cassazione sostenendo la tesi dell’immunità
dell’oratore in sede di Consiglio Provinciale.
La protesta
valse per qualche risultato: fecero attenzione a lui, ch’era riformato per la
stessa causa di cui morirono giovanissimi i suoi due fratelli, e lo arruolarono
per i servizi sedentari. Lo costrinsero alle fatiche del corso allievi
ufficiali, rifiutandogli poi il grado per i suoi reati di disfattista.
Comandato a Messina lo volevano spedire al fronte, nonostante la infermità, in
una di quelle compagnie di pregiudicati che si conducevano alla decimazione
sotto la sorveglianza dei carabinieri. Rifiutò, protestando che sarebbe andato
al fronte come soldato, non come delinquente al macello. Allora lo internarono
a Campo Inglese dandogli compagno il figlio del brigante Varsalona che lo sorvegliasse.
Tra la solitudine, il sospetto e le persecuzioni il carattere di Matteotti si
rivela nella sua impassibilità. Assisteva alle conseguenze delle sue azioni
come un buon logico.
Conviene
mettere a confronto l’esempio di Matteotti pacifista con la condotta degli
uomini tipici del pacifismo italiano, pavidi e servili per non essere presi di
mira, nascosti e silenziosi nei Comandi o negli impieghi, emuli dei
nazionalisti nel rifugiarsi nei bassi servizi. Matteotti non disertava, non si
nascondeva, accettava la logica del suo «sovversivismo», le conseguenze
dell’eresia e dell’impopolarità: era, contro la guerra, un «combattente»
generoso.
L’aristocratico del «sovversivismo»
Matteotti non
fu mai popolare. Tra i compagni era tenuto in sospetto per la ricchezza: gli avversari
lo odiavano come si odia un transfuga. Invece Matteotti era un aristocratico di
stile non di famiglia. Il suo socialismo non è la ribellione avventurosa del
conte Graziadei che abbandona una famiglia secolare e, rompendo le tradizioni,
accetta la vita dello studente spostato con l’amante intellettuale che diventerà
la moglie inquieta della famiglia piccolo-borghese, come succede a ogni buon
nihilista - fedele al programma demagogico di andare al popolo.
Invece
Matteotti si iscrisse al Partito Socialista a 14 anni, probabilmente senza
trovare grandi ostacoli in famiglia, forse anche ignorando la fortuna del padre
- che del resto non era più che
mediocre. Era socialista già il fratello Matteo, che lo precedette negli studi
di legge e pare che lo iniziasse, con qualche influenza, nonostante la morte
precoce, a trent’anni.
Il padre, di
una famiglia di calderai, era venuto a Fratta Polesine dal Trentino 50 anni fa,
quasi povero.
S’era dato al
risparmio con la costanza e il sacrificio di un’emigrante.
La signora
Isabella lo assecondava dietro il banco del piccolo negozio di commestibili. I
guadagni venivano investiti in terreni con validità del profugo che s’aggrappa
alla terra per istinto come per incominciare delle tradizioni. La fortuna della
famiglia Matteotti prima della guerra era valutata a 800.000 lire di bei
mobili, tutti sparsi nella provincia, in piccoli lotti, comprati in occasione
in anno in anno. Era il frutto di anni di lavoro assiduo, di speculazioni
oculate. Bisogna tener conto di questa tenacia provinciale per spiegarsi il
carattere del figlio. Giacomino crebbe con questo esempio, con l’opinione di
non essere ricco, con l’istinto della lotta dura, con la dignità del
sacrificio. Al ginnasio e al liceo bisognava essere tra i primi; non perdere
tempo, non dissipare.
Su questo fondo
solido di virtù conservatrici e protestanti nacque il sovversivismo di
Matteotti e nacque aristocratico per la solitudine. Le sue preoccupazioni
iniziali erano esclusivamente scientifiche: ai facili successi avvocateschi
preferì subito gli aridi studi di procedura penale e, benché già socialista
militante, seguiva con predilezione la scuola dell’on. Stoppato, uno degli
uomini rappresentativi del clericalismo moderato. Procedeva nella propria
educazione per esigenze interiori.
In un partito
che si ricorda dei paesi stranieri soltanto per la frettolosa retorica dei
congressi internazionali era tra i pochi che conoscessero la Francia,
l’Inghilterra, l’Austria, la Svizzera, la Germania, per viaggi di gioventù: e
aveva studiato l’inglese per leggere direttamente Shakespeare.
Preso nella
loro politica, quasi nascondeva gelosamente questi istinti di filosofia che non
erano troppo vicini allo stile dell’ambiente misoneista e grettamente parziale
in qui li toccava agire.
Ma il segreto
della vitalità di Matteotti era proprio questo: che si poteva sentire in lui,
al di là delle sue azioni, chi gli parlasse a lungo per scrutarlo, una vita
interiore di impulsi vari e profondi, non messa in gioco mai per le poste
troppo piccole della vita quotidiana, ma perpetua e segreta ispiratrice. Onde
quel suo agire con riserbo e con fredda energia che incuteva soggezione ai
compagni. La maschera rigida di Matteotti in pubblico nascondeva pensieri
deliberati in solitudine, già sottoposti a tutti i tormenti dialettici del suo
intemperante individualismo: era naturale che egli sentisse di doverli far
prevalere impassibilmente, quando si incontrava nell’atmosfera facile della
demagogia dei congressi, dove c’è sempre un improvvisatore capace di escogitare
tesi medie e concilianti.
Matteotti
cominciava a non essere concilianti e per il suo sorriso beffardo e per la sua
ironia perversa e spietata. Aveva sempre in mente delle conclusioni, non dei
passaggi oratori o degli artifici di assemblea. Chi conosce in quale atmosfera
di loquacità provinciale, di fiera delle vanità e di consolazioni da desco
piccolo-borghese, sia venuto crescendo il socialismo italiano, da Enrico Ferri
a Bombacci, da Zanardi ad Arturino Vella, può veder chiaro come l’intransigenza
di Matteotti - il quale in un’adunanza giunse
a far sprangare le porte perché voleva che si terminasse la discussione prima
che i convenuti se ne andassero a banchetto - doveva
costituire un oltraggio ai tolleranti costumi dei buoni compagni e uno stappo a
tutte le tradizioni sagraiole del tenero popolo italiano, felice e buon
tempone.
E lo chiamarono
«aristocratico» credendo di isolarlo.
La lotta agraria nel Polesine
Una famiglia di
risparmiatori inesorabili; una provincia tormentata con un’economia complessa
ed incerta, terra storica di esperimenti di sovversivismo, spesso più servile
che violento, sono toni sufficienti per determinare l’opera di un uomo.
Nel Polesine la
democrazia era stata viva, durante il risorgimento, nelle forme più accese:
anticlericalismo e garibaldinismo, Marin Alberto Mario, Bernini, Piva. Nel 1882
vi si compie il primo sciopero di contadini d’Italia al grido esasperato «la
boie», e il governo per reprimerlo deve mascherare i suoi sentimenti di
reazione e mandare i soldati a mietere il grano in luogo degli scioperanti.
La situazione
economica del territorio presenta tutte le varietà più interessanti dalla
cultura famigliare all’industrializzazione agricola delle terre bonificate; dal
riso del basso Polesine settentrionale, al regime di piccola proprietà di
Rovigo. Ci sono gli elementi obiettivi per le soluzioni politiche estreme.
L’industriale della terra bonificata deve seguire la logica dei costi sempre
più bassi con la naturale avidità favorita dalla miseria del proletariato; dove
incontri il fittavolo o il piccolo conduttore di terre, trovi insieme
all’arrivismo dello spostato il sistema di cultura di rapina, con la crudeltà
che va oltre tutti gli esempi.
Non bisogna
dimenticare che lo schiavismo agrario dei fascisti nacque in Polesine con la
complicità dei fittavoli. In queste condizioni, acuite dal dopo guerra, mentre
i popolari furono subito il sostegno della piccola proprietà, i socialisti
pensarono a difendere i lavoratori con le cooperative di lavoro, con
l’assistenza alla mano d’opera.
In Polesine le
agitazioni per l’aumento dei salari s’erano già da parecchi anni dimostrate
insufficienti perché i conduttori di fondi aumentavano i salari ma aumentavano
le ore di lavoro.
I problemi
socialisti da risolvere erano: l’impossibilita della mano d’opera (ossia attribuzione
di un carico di mano d’opera per ciascun fondo); e il collocamento, che si
voleva libero dagli agrari e dai socialisti, invece, affidato dagli uffici di
collocamento. Intorno a questi problemi concreti la lotta fu incerta nel dopo
guerra. Gli agrari tutti, nel 1920 - quando si riuscì
a sostituire uno schema unico di patto agricolo, variabile solo nelle
applicazioni, ai 70 prima vigenti nei 63 Comuni della provincia -
reagirono con l’ostruzionismo e prepararono i fasci per dominare i lavoratori
con la violenza.
Matteotti è
stato uno dei protagonisti di questa lotta. Egli cercò di regolare le direttive
politiche sulla base di queste premesse economiche. Quindi l’ostilità contro
tutti i declamatori del generico massimalismo.
Ai
cinquantamila lavoratori organizzati della provincia bisognava indicare dei
passi progressivi, non dei programmi di inquietudine e di rivoluzionarismo
inconcludente.
Per dare il
senso della lotta occorreva non compromettersi in una catastrofe. Era la
tattica opposta, già allora, del sindacalismo isterico, da caffè concerto, di
Michelino Bianchi che da Ferrara aveva esercitata la sua allegra influenza...
rivoluzionaria anche in provincia di Rovigo.
Gli elementi più
accesi della sinistra sindacalista ed anarchica, nemici di Matteotti sin dalla
prima ora, da W. Mocchi a Enrico Meledandri al comm. Marinelli, che ora sarà al
banco degli accusati per il suo omicidio, furono poi tutti a fianco degli
agrari nella reazione fascista: essi avevano esercitato il sovversivismo come
una specie di professione della malavita politica per trovare un posto a
Montecitorio. Nell’odio per la società portavano soprattutto le loro delusioni
di politicanti.
Il
politicantismo faceva le sue pessime prove nel Polesine socialista soprattutto
attraverso i Circoli (in buona parte massimalisti) e durante il periodo
elettorale. Il mercato dei voti si praticava mediante i più allegri banchetti.
I deputati
socialisti della provincia, da Badaloni e Soglia, trescavano coi radicali:
Gallani, medico, s’era addirittura fatto commesso viaggiatore di se stesso e in
tempo di proporzionale percorreva in bicicletta le campagne offrendo specifici
ed esortazioni: - Votate per me!
L’opera di
Matteotti trascurava quasi deliberatamente i Circoli e si svolgeva nelle leghe.
Consulenza alle Cooperative agricole, aiuto nella creazione delle Cooperative
di consumo, tendenza a fare in tutte sedi questioni pratiche di realizzazione.
Le sue predilezioni per le scienze giuridiche ed economiche trovano qui l’opportunità
di inserirsi nella sua fede di socialista, e non fu solo il più dotto dei
socialisti che scrivessero d’economia e di finanza, ma il più infaticabile nel
lavoro quotidiano di assistenza amministrativa.
Dovendo fissare
dei rapporti bisogna avvertire che la intransigenza di Matteotti in Polesine,
che fu accusata ora di estremismo ora di riformatismo, era equidistante dal
massimalismo anarchico e sindacalista come dall’opportunismo dei sindacali
riformisti. La sua posizione nel ’19 è chiara nel manifesto che citiamo,
scritto da lui in occasione dei tumulti per i caroviveri. Senza rinunciare alla
rivoluzione che dovrà nascere dallo spirito di lotta di masse aristocratiche e
differenziate, Matteotti trasportava la discussione su di un terreno concreto
di capacità e di iniziativa. Il suo buon senso rivoluzionario sembra un atto di
accusa contro il sovversivismo apolitico dei vari spostati tipo M. Bianchi, che
allora provocavano tumulti per pescare nel torbido.
Lavoratori!
Noi non
possiamo condannare la reazione del popolo contro gli esercenti e i rivenditori
che si sono arricchiti speculando sulle vostre miserie nel tempo di guerra; e
non potremmo condannare la imposizione punitiva di calmieri straordinari e di
requisizioni.
Ma vi avvertiamo
che esse non sono che palliativi i quali si rivolgono a una sola categoria di sfruttatori
creando buone illusioni, e lasciando anzi sussistere o aggravando forse le
cause del caro-viveri.
Le quali cause
sono ben maggiori e profonde, e risalgono alla guerra anzitutto che ha
distrutto ricchezze e caricato lo Stato di debiti e di carta senza valore; allo
stato di guerra che continua sottraendo i militari ai lavori produttivi della
civiltà; e alla società borghese, che - frapponendo
tra consumatore e produttore i capitalisti, i dazi, le dogane e tutti i
parassiti intermediari, che non producono e sfruttano -
è ormai incapace di uscire dal viluppo in cui s’è cacciata e di sollecitare le
energie produttive.
Quindi una
agitazione socialista non può che rivolgersi alle cause prime; imponendo
l’immediata smobilitazione e il disarmo, l’abolizione di tutti i dazi e le
dogane, la confisca totale dei profitti di guerra e l’espropriazione capitalista.
E non può essere condotta che dai lavoratori organizzati e socialisti
coscienti, ripugnando da ogni contatto con tutti coloro (borghesi, clericali, democratici
e falsi apolitici) che a quelle cause hanno contribuito; e quando essi
lavoratori avranno forza e capacità sufficienti per imporre la loro
rivoluzione.
Per ora una
piccola cosa sola suggeriamo; ogni Comune costituisca Enti collettivi di
consumatori per l’acquisto e rivendita delle merci al minimo prezzo di costo,
boicottando ogni intermediario e requisendo i prodotti necessari al popolo e
giustamente calmierati, specialmente dai grandi capitalisti agricoli che li
sottraggono.
Dimostrino
intanto i lavoratori organizzati di saper fare questo.
Poi indicheremo
i passi progressivi, conforme la loro capacità socialista.
Rovigo, 9
luglio 1919
La
Federazione Provinciale Socialista
La
Camera del Lavoro del Polesine
I
Comuni Socialisti.
Il socialista persecutore dei socialisti
Eretico e
oppositore nel partito socialista, poi tra gli unitari una specie di guardiano
della rettitudine politica e della resistenza dei caratteri: sempre alle
funzioni più ingrate e alle battaglie più compromesse.
Combatté tutta
la vita il confusionismo dei blocchi, la massoneria, l’affarismo dei partiti
popolari. Era implacabile critico dei dirigenti e si ricorda che il
giovanissimo in una riunione socialista, un nome del socialismo locale aveva
dovuto interromperlo:
- Tasi ti che
te ga le braghe curte!
In Polesine
l’uomo di tutte le transazioni e di tutte le confusioni era Nicola Badaloni, che
passava per il Prampolini della provincia, un vero santone del partito, che
rappresentò il collegio di Badia ininterrottamente dall’82 al 1919.
Era venuto
dalle Marche, medico condotto, poi libero docente. Nella lotta contro la
pellagra questo medico diligente e affaccendato fu scambiato per un apostolo.
Chi non conosce il tipo del medico socialista umanitario che con l’assistenza e
i consulti gratuiti ai lavoratori si guadagna un collegio?
Eppure non era
detto che i massimalisti di Rovigo non si adattassero a ripresentare anche nel
1919 questo vecchio tipo di massone intrigante, neppure iscritto al partito
socialista: lo dovette liquidare Matteotti minacciando di contrapporgli la
candidatura di Turati! Nicola Badaloni, eroe di purezza, che volevano
proclamare degno di Prampolini, sostenne poi nel ’21 le candidature
filo-fasciste e ne ebbe in premio da Giolitti il laticlavio. In questi esempi
Matteotti imparava il suo ruolo di persecutore di socialisti.
Per la sua
energia eccessiva, invadente, per il suo spirito critico lo accettavano senza
troppo entusiasmo; il suo disprezzo per il quieto vivere e per le abitudini di
sopportazione gli alienava i tanti furbi che se ne sentivano umiliati: lo
accusavano di ambizione, non lo capivano. Invece nel momento dell’azione aveva
il consenso di tutti, e riusciva a far sacrificare anche i più vili mostrando
come sapeva sacrificare sé stesso.
Anche di questa
apparente arroganza e severità la spiegazione è nella sua ascetica solitudine.
La sua difficoltà di conoscere le persone e di essere riconosciuto per quel che
valeva, rientrano in un austero culto del silenzio, in una ferrea sicurezza di
sé.
In lui era fondamentale
la difficoltà di comunicare, il disagio di esprimersi proprio di tutte le anime
fortemente religiose; che si traduceva in una indifferenza per le opinioni
correnti, audace sino ad assalire le fame più inconcusse. In realtà, l’audacia
della sua critica dissolvente era piuttosto indifferenza e impassibilità verso
le contingenze.
Nel 1916 al
congresso dei comuni socialisti che lo rivelò a tutto il socialismo italiano;
stupì per la sua completa mancanza del senso dell’opportunità così
indispensabile per i mediocri e per le furbizie piccolo-borghesi! Matteotti
ebbe la bella idea di smontare tutta la relazione Caldara, come dire i titoli
di un professore universitario di comuni socialisti, e di imporsi con tanta
evidenza che al socialista milanese venuto per trovare le laudi dell’umanità
dovette salvarsi con un ordine del giorno di conciliazione.
Infatti Caldara
aveva fondato tutta la sua costruzione, in materia di rapporti finanziari tra
stato e comuni, sull’esperienza milanese: Matteotti in una deliberazione che
riguardava i comuni di tutta Italia portava le esperienze del piccolo comune, i
bisogni sorpresi della sua opera di amministratore di almeno 10 piccoli comuni
del Polesine: era la rivoluzione federalista contro il pericolo dell’accentramento!
Ma è facile
dedurre da un tal gesto lo spavento e la diffidenza di taluni. Credo che
soltanto Nino Mazzoni, Treves e Turati lo capissero e lo amassero seriamente;
gli altri erano offesi della sua scortesia e della sua superiorità.
Il nemico delle sagre
Il partito
socialista in Italia, durante 30 anni, continuò gli storici costumi dei
congressi, dei comizi, con culto del bell’oratore come Enrico Ferri, con
l’abitudine ai convegni che terminano in una formidabile pappatoria.
Era anch’esso
italiano, sebbene il freno naturale del proletariato e della stessa lotta
intrapresa non lo lasciassero giungere mai, ma nemmeno quando lo guidò un
romagnolo come Mussolini, alle raffinatezze e ai capolavori sagraioli, di
entusiasmo e di devozione gaudente che dovevano essere la caratteristica e
l’essenza del movimento fascista.
In realtà il
tipo in cui si mostrò il nostro socialismo è più il tribuno che il politico, e
ne venne una classe dirigente di avvocati penalisti, oratori facondi invece che
dottori di diritto accomodanti per vanità e per odio della politica. Formarono
una specie di classe che esercitava professione di assistere il popolo e di «discutere
la situazione» e perciò si scusava di non aver tempo di leggere i libri e di
farsi una cultura politica realistica.
Dovevano
rispondere alle lettere degli elettori e trovarsi al caffè per scambiarsi le
impressioni e inventare nuove tendenze. Anche dopo che fu deputato, Matteotti
ripugnò sempre a questi compiti demagogici; rifiutava le raccomandazioni e
tutti i casi personali che non implicassero questioni generali di ingiustizia
dichiarando: - per queste cose rivolgetevi a
Gallani e ai Beghi! Sino al ’19 aveva dato tutta la sua opera alle
amministrazioni locali (era consigliere di una decina di comuni, dove possedeva
le sue terre disperse) e all’organizzazione di sindacati e di cooperative.
Matteotti
organizzatore: l’ossessione della semplicità, della chiarezza, della praticità.
Esemplificava nei particolari, proponeva modelli di statuti, di regolamenti,
parlando con contadini come uno dei loro. Trattandosi di fondere una
cooperativa pensava a tutto, consigliava, disponeva, dava l’esempio, dei modi
di servire il banco alla contabilità dei registri.
La sua severità
di amministratore era addirittura paradossale in un socialista: sentivi tanta
rigidezza al padre conservatore. Così era diventato pur senza mandati precisi,
l’ispettore volontario di tutte le cooperative e di tutte le leghe, l’incubo
degli amministratori per la sua implacabile incontentabilità di spulciatore di
conti e di bilanci, il carabiniere dei facili e tolleranti impiegati. Così era
il suo stile di giornalista, prima che scrivesse gli articoli magistrali su
temi di bilancio nella Critica Sociale. Infatti anche nella sua educazione
economica non ebbe la disinvoltura italiana del progettista: prima di studiare
il bilancio dello Stato aveva lavorato per anni ai bilanci dei comuni. Nella
Lotta di Rovigo, diretta da Parini e da Zanella si possono scorgere le sue
preferenze di scrittore: articoli brevi, facili, semplici. Un’idea sola con
dati precisi, con numeri evidenti, preferibilmente senza polemiche, senza
scandali. Un giornale illeggibile per i pettegoli e per gli svagati che si
dirigeva al senso pratico e alla pazienza del contadino. C’era infatti del
contadino in questo signore che dovette assistere un giorno in Rovigo dopo un
comizio a una manifestazione violenta dei cittadini che gli gridavano: -
Via da Rovigo! Va a Fratta!
Anche i
socialisti si lamentavano, a Rovigo e ad Adria, che egli non parlasse mai in
città. Sembrava un insulto il fatto che egli avesse preferito parlare a pochi
contadini invece di tenere una conferenza con ovazioni sicure al bel pubblico
in città. Ma egli non voleva essere l’oratore delle grandi occasioni. Non si
esaltava mai. Cominciava pedestremente. Poi l’argomento -
preparato sempre con accuratezza su un foglietto di carta magari in ferrovia
con la celebre matita che teneva appesa per una catenella all’occhiello della
giacca - lo prendeva e la voce urtante,
irritante, energica e rude squillava come per dominare. Allora parlava da
padrone, come chi non improvvisa mai.
Ma il suo posto
era nei contraddittori. Si presentava, spesso solo, non preceduto da soffietti,
alieno da ogni coreografia. Severamente elegante, senza distintivi, senza cravatte
rosse al vento: Enrico Ferri trovava in lui il physique du rôle del conservatore.
Ma piuttosto appariva subito come il combattente pronto, energico, sempre a
posto, ragionatore freddo e sicuro, sempre. Nessuno l’ha mai battuto in un
contraddittorio. Era sempre l’ultimo a replicare. In Polesine ricordano ancora
come smontò Pozzato, deputato repubblicano, principe di oratoria forense.
Tra il 1919 e il
1921, con le masse insofferenti, Matteotti esigeva che si lasciasse libertà di
parola a qualunque avversario, altrimenti non interloquiva, ritenendo che si
fosse recata offesa a lui. A Lendinara, in un comizio essendosi levati i
bastoni contro l’on. Merlin, Matteotti gli fu scudo e s’ebbe lui le legnate.
Temevano tuttavia gli avversari la sua audacia dialettica e preferivano la
fuga, come successe a Michelino Bianchi, candidato per gli agrari nel ’19 per
la circoscrizione di Ferrara-Rovigo che rifiutò coraggiosamente il
contraddittorio a Matteotti presentatosi solo in un comizio del blocco.
Sdegnava le
parate, la febbre degli scioperi. Ma a Boara durante uno sciopero, quando si decise
contro il suo parere di cacciare i crumiri dell’Alto Veneto, ad affrontare la
forza pubblica che li proteggeva non si videro più i rivoluzionari, ma primo
tra tutti Matteotti, che pagava di persona anche in quel caso, disciplinato e
audace. Perciò la sua autorità fu sempre grande tra le masse che sentono
d’istinto il valore del sacrificio. I contadini dei paesi sperduti che egli
visitava la domenica invece di partecipare alle feste ed ai banchetti di città,
non se ne dimenticavano più. Gente semplice, ma che sa discernere dove si
nasconde una serietà interiore e dove risuonano soltanto discorsi d’obbligo.
Ripugnava alle
sagre per quello stesso riserbo che portava in tutti gli atti della vita
privata. Nel ’19, a un organizzatore che voleva il suo ritratto di deputato,
manda tranquillamente il ritratto d’un amico, che per poco non venne
pubblicato: valga quale prova di come egli considerasse gli esibizionismi più
consueti. Sapeva far rispettare la sua solitudine, e pochi ebbero le sue
confidenze o conobbero la sua vita intima. Si sapeva soltanto che era
rigidissimo, sobrio, rettilineo, senza vizi - come dicono -:
e così si rispettava la sua severità verso gli altri, il suo fanatismo protestante
contro chiunque avesse avuto una debolezza colpevole.
Questa
sicurezza non era sostenuta da una credenza religiosa, ma solo da una fede di
stampo austero e pessimistico: nei valori di individualismo e di libertà. Del
suo rispetto di ateo per tutte le forme religiose si ha la prova nel
cattolicismo fervido di sua moglie: e in questa ripugnanza di laico moderno
verso l’anticlericalismo grossolano dei primi socialisti si rivela una
spiritualità conscia dei motivi più delicati di tolleranza e di autonomia.
Il suo marxismo
Non ostentava
presunzioni teoriche: dichiarava candidamente di non aver tempo per risolvere i
problemi filosofici perché doveva studiare bilanci e rivedere i conti degli amministratori
socialisti. E così si risparmiava ogni sfoggio di cultura.
Ma il suo
marxismo non era ignaro di Hegel, né aveva trascurato Sorel e il Bergsonismo. È
soreliana la sua intransigenza. La concezione riformista di un sindacalismo
graduale invece non era tanto teorica quanto suggerirgli dall’esperienza di ogni
giorno in un paese servile che è difficile scuotere senza che si abbandoni ad
intemperanze penose.
Egli fu forse
il solo socialista italiano (preceduto nel decennio giolittiano da Gaetano
Salvemini) per il quale riformismo non fosse sinonimo di opportunismo.
Accettava da
Marx l’imperativo di scuotere il proletariato per aprirgli il sogno di una vita
libera e cosciente; pur con riserve poco ortodosse non ripudiava neppure il
collettivismo.
Ma la sua
attenzione era poi tutta ad un momento d’azione intermedio e realistico:
formare tra i socialisti i nuclei della nuova società: il comune, la scuola, la
cooperativa, la lega.
Così la
rivoluzione avvenne in quanto i lavoratori impararono a gestire la cosa
pubblica, non per un decreto o per una rivoluzione quarantottesca. La base
della conquista del potere e della violenza ostetrica della nuova storia non
sarebbe stata vitale senza questa preparazione. E del resto, troppo intento
alla difesa presente dei lavoratori, Matteotti non aveva tempo per le profezie.
Più gli premeva che gli operai e i contadini si provassero come amministratori,
affinché imparassero; e perciò nei vari consigli comunali soleva starsene come
un consigliere di riserva, pronto a riparare gli errori; ma voleva i più umili
all’esperimento delle cariche esecutive.
Non ebbe mai in
comune con riformisti la complicità nel protezionismo, anzi non esitò a
rimanere solo col vecchio Modigliani ostinato nelle battaglie liberiste, che
per lui non erano soltanto una denuncia delle imprese speculative di sfruttatori
del proletariato, ma anche una scuola di autonomia e di autorità politica
concreta nella sua provincia.
Così procede
tutta la cultura e tutta l’azione di Matteotti, per esigenze federaliste, dalla
periferia al centro, dalla cooperativa al comune, dalla provincia allo stato.
Il suo socialismo fu sempre un socialismo applicato, una difesa economica dei
lavoratori, sia che proponesse sulla lotta di Rovigo o nella lega dei comuni
socialisti dei passi progressivi, sia che parlasse dall’Avanti! o dalla Giustizia
a tutto il proletariato italiano, sia che come relatore della Giunta di
Bilancio portasse nella sede più drammatica e travolgente il suo processo alle
dominanti oligarchie plutocratiche.
Tanta si
dimostrò la sua passione per il concreto, per il particolare, per i fatti, che
nel 1921 preferì esercitare la sua opera di assistenza e di difesa in una
situazione difficilissima per il proletariato in provincia di Ferrara,
piuttosto che andare a Livorno a raccogliere i successi rumorosi di
un’accademia di «tendenze» e di «frazioni».
Il suo antifascismo
Giacomo Matteotti
vide nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo agrario, come
cortigianeria servile degli spostati verso chi li pagava; come medioevale
crudeltà e torbido oscurantismo verso qualunque sforzo dei lavoratori volti a
raggiungere la propria dignità e libertà. Con questa iniziazione infallibile
Matteotti non poteva prendere sul serio le scherzose teorie dei vari
nazional-fascisti, né i mediocri progetti machiavellici di Mussolini: c’era una
questione più fondamentale di incompatibilità etica e di antitesi istintiva.
Sentiva che per
combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorreva opporgli esempi
di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere, di
intransigenza, di rigorismo.
Così s’era
condotto contro tutti i ministerialismi, senza piegarsi mai. Nel ’21 al
prefetto di Ferrara che lo chiamava in un momento critico della lotta agraria
aveva risposto per telefono: «Qualunque colloquio tra noi è inutile. Se lei
vuole conoscere le nostre intenzioni non ha bisogno di me perché ha le sue
spie. E delle sue parole io non mi fido». Non fu mai visto cedere alle lusinghe
degli uomini del potere costituito, né salire volentieri le scale della
prefettura. S’era così creata intorno a lui un’atmosfera di astio pauroso da
parte degli agrari: mentre lo stimavano, capivano che l’avrebbero avuto nemico
implacabile.
Il 12 marzo
1921 Matteotti doveva parlare a Castelguglielmo. La lotta si era fatta da
alcuni mesi violentissima; s’era avuto in Polesine il primo assassinio. Quel
sabato egli percorreva la strada in calesse e Stefano Stievano, di Pincara,
sindaco, gli era compagno. Ciclisti gli si fanno incontro dal paese per
metterlo in guardia: gli agrari hanno preparato un’imboscata. Matteotti vuole
che lo Stievano torni indietro e compie da solo il cammino che avanza.
A
Castelguglielmo si nota infatti movimento insolito di fascisti assoldati; una
folla armata. Alla sede della Lega lo aspettano i lavoratori e Matteotti parla
pacatamente esortandoli alla resistenza; ad alcuni agrari che si presentano per
il contraddittorio rifiuta; era di costoro una vecchia tattica quando volevano
trovare un alibi per la propria violenza: parlare ingiuriosamente ai lavoratori
per provocarne la reazione facendoli cadere nell’insidia. Matteotti si offre
invece di seguirli solo e di parlare alla sede agraria: così resta convenuto e
dai lavoratori riesce ad ottenere che non si muovano per evitare incidenti più
gravi.
Non so se il
coraggio e l’avvedutezza parvero provocazione. Certo, non appena egli ebbe
varcata la soglia padronale - attraverso
doppia fila di armati -, dimentichi del patto gli sono
intorno furenti, le rivoltelle in mano, perché s’induca a ritrattare ciò che
fece alla Camera e dichiari che lascerà il Polesine.
-
Ho una dichiarazione da farvi: che non vi faccia dichiarazioni.
Bastonato,
sputacchiato non aggiunge sillaba, ostinato nella resistenza. Lo spingono a
viva forza in un camion sparando in alto tengono lontani i proletari accorsi in
suo aiuto. I carabinieri rimanevano chiusi in caserma.
Lo portarono in
giro per la campagna con la rivoltella spianata e tenendogli il ginocchio sul
petto, sempre minacciandolo di morte se non promette di ritirarsi dalla vita
politica. Visto inutile ogni sforzo, finalmente si decidono a buttarlo dal
camion nella via.
Matteotti
percorre a piedi dieci chilometri, e rientra a mezzanotte a Rovigo dove lo
attendevano alla sede della Deputazione provinciale per la proroga del patto
agricolo il cav. Piero Mentasti, popolare, l’avvocato Altieri, fascista, in
rappresentanza dei piccoli proprietari e dei fittavoli; Giovanni Franchi e Aldo
Parini, rappresentanti dei lavoratori.
Gli abiti un
poco in disordine, ma sereno e tranquillo. Solo dopo che uscirono gli avversari,
rimproverato dai compagni per il ritardo, si scusò sorridendo: -
I m’ha robà.
Aveva
riconosciuto alcuni dei suoi aggressori, tra gli altri, un suo fittavolo a cui
una volta aveva condonato l’affitto: ma non volle farne i nomi. Invece assicurò
che mandanti dovevano essere il comm. Vittorio Peta di Castelguglielmo e i
Finzi di Badia, parenti dell’ex-sottosegretario di Mussolini.
Poiché si parlò
e si continua a parlare di violenze innominabili che Giacomo Matteotti avrebbe subito
in questa occasione è giusto dichiarare con testimonianza definitiva che la sua
serenità e impassibilità, di cui possono far testimonianza i nominati
interlocutori di quella sera, ci consentono di escludere il fatto e di ridurlo
ad una ignobile vanteria fascista.
La storia di
questo rapimento è tuttavia impressionante e perciò abbiamo voluto raccoglierne
da testimonianze incontestabili tutti i particolari. Finché non ci sarà
descritta l’aggressione di Roma il ricordo di questa prova può dirci con quale
animo Matteotti andò incontro alla morte. Ne aveva il presentimento.
A Torino, il
giorno della conferenza Turati, un profugo veneto gli chiese:
-
Non ti aspetti una spedizione punitiva da qualche Farinacci?
Rispose
testualmente così:
-
Se devo subire ancora una volta delle violenze saranno i sicari degli agrari
del Polesine o la banda romana della Presidenza.
Come segretario
del Partito Socialista Unitario aveva condotto la lotta contro il fascismo con
la più ferma intransigenza. Rimane il suo volume: Un anno di dominazione
fascista, un atto d’accusa completo, fatto alla luce dei bilanci, e insieme una
rivolta della coscienza morale. E fu Matteotti a stroncare, non appena se ne
parlò, ogni ipotesi collaborazionista della Confederazione del Lavoro: non si
poteva collaborare col fascismo per una pregiudiziale di ripugnanza morale, per
la necessità di dimostrargli che restavano quelli che non si arrendono. Come
segretario del partito pensava al collegamento, animava le iniziative locali,
le coordinava intorno a questo programma. Compariva dove il pericolo era più
grave, incognito suo malgrado, a dare l’esempio. Talvolta osò tornare in
Polesine travestito, nonostante il bando, con pericolo di vita, a rincuorare i
combattenti.
Il volontario della morte
Egli rimane
come l’uomo che sapeva dare l’esempio. Era un impegno politico quadrato,
sicuro; ma non si può dire quel che avrebbe potuto fare domani, come ministro degli
interni o delle finanze: ormai è già nella leggenda. Ho una lettera di un
lavoratore ferrarese, scritta il 16 giugno:
«Come
puoi figurarti qui non si parla di altro e i giornali non fanno in tempo ad arrivare
in piazza perché sono strappati ai rivenditori e letti avidamente. La
deplorazione unanime e il risveglio non più nascosto. Pare che l’incantesimo
della paura sia infranto e la gente parla senza titubanze. La perdita però
porterà i suoi frutti di libertà e di civiltà che renderanno allo spirito
eletto del nostro Grande la pace e la gioia del sacrificio compiuto. Matteotti
era un uomo da affrontare la morte volontariamente se questo gli fosse sembrato
il mezzo adatto per ridare al proletariato la libertà perduta».
Non si può
immaginare una commemorazione più spontanea e più generosa. Come se i
lavoratori abbiano a sentito in lui la parola d’ordine. Perché la generazione
che noi dobbiamo creare è proprio questa, dei volontari della morte per ridare
al proletariato la libertà perduta.
Eroe tutto prosa
di
Carlo
Rosselli
[pp. 145-147]
Matteotti è
diventato il simbolo dell’antifascismo e dell’eroismo antifascista. In
qualunque riunione si faccia il suo nome il pubblico balza in piedi o applaude.
Comitati Matteotti, Fondi Matteotti, Circoli Matteotti, Case Matteotti.
Matteotti, come l’ombra di Banco, accompagna Mussolini. E Mussolini lo sa.
Eppure nessun
uomo fu meno «simbolo», meno «eroe», nel senso usuale dell’espressione, di
Matteotti. Gli mancavano per questo le doti di popolarità, di oratoria, di
facilità che creano nel popolo il feticcio; e la sua vita breve non registra
neppure uno di quei gesti drammatici che colpiscono la fantasia e promuovono a «eroe»
il semplice mortale.
Matteotti
possedeva però in grado eminente una qualità rara tra gli italiani e rarissima
tra i parlamentari: il carattere. Era tutto d’un pezzo. Alle sue idee ci
credeva con ostinazione e con ostinazione le applicava. Quando lo conobbi a
Torino insieme a Gobetti ricordo che entrambi rimanemmo colpiti dalla sua
serietà e dal suo stile antiretorico e ci comunicammo la nostra impressione.
Era magro, smilzo nella persona, non assumeva pose gladiatorie, rideva
volentieri, ma da tutto il suo atteggiamento e soprattutto da certe sue
dichiarazioni brevi si sprigionava una grande energia.
L’antifascismo
era in Matteotti un fatto istintivo, intimo, d’ordine morale prima che
politico. Tra lui e i fascisti correva una differenza di razza e di clima. Due
mondi, due concezioni opposte della vita. In questo senso egli poteva dirsi
veramente l’anti-Mussolini. Le astuzie tattiche e oratorie di Mussolini
restavano senza presa su Matteotti. Quando Mussolini parlava alla Camera
entrando in quello stato di eccitazione morbosa che pare contraddistingua la
sua oratoria e possa esercitare un fascino magnetico, Matteotti, pessimo
medium, restava impenetrabile e ai passaggi più goffi rideva col suo riso un
po’ stridulo e nervoso.
Quando invece
era Matteotti a parlare, Mussolini gettava fiamme dagli occhi. Eppure Matteotti
non era eloquente; o per lo meno la sua eloquenza era tutto l’opposto
dell’oratoria tradizionale socialista. Ragionava a base di fatti, freddo,
preciso, tagliente. Metodo salveminiano. Quando affermava, provava.
Niente esasperò
più i fascisti del metodo di analisi di Matteotti che sgonfiava uno dopo
l’altro tutti i loro palloni retorici. - Abbiamo
lasciato 3000 morti per le strade d’Italia - tuonava Mussolini
- Pardon, 144, secondo il vostro
giornale - replicava Matteotti.
-
Il fascismo ha messo fine agli scioperi. Le ferrovie camminano. L’autorità
dello Stato è stata restaurata. - Matteotti, tra
la stupefazione dei fascisti, interrompeva per rinfacciare al duce gli articoli
del ’19-20 inneggianti agli scioperi, all’invasione delle fabbriche, delle
terre, dei negozi.
Dopo la famosa
requisitoria di Matteotti contro i metodi elettorali fascisti (maggio 1924)
gridata alla Camera tra altissime minacce e interruzioni,[1]
Mussolini pubblicò il 3 giugno sul «Popolo d’Italia» il seguente corsivo: «Mussolini
ha trovato fin troppo longanime la condotta della maggioranza, perché l’on.
Matteotti ha tenuto un discorso mostruosamente provocatorio che avrebbe
meritato qualche cosa di più tangibile che l’epiteto di “masnada” lanciato
dall’on. Giunta».
L’8 giugno il
giornale dichiarava che «Matteotti è una molecola di questa masnada che una
mossa energica del Duce penserà a spazzare».
Il 10 giugno
Dumini, Volpi e Putato spazzavano...
Il 3 gennaio
1925 Mussolini dichiarava: «Come potevo pensare, senza essere colpito da
morbosa follia, di far commettere non dico un delitto ma nemmeno il più tenue,
il più ridicolo sfregio a quell’avversario che io stimavo perché aveva una
certa crânerie, un certo coraggio, che rassomigliavano alla mia ostinatezza nel
sostenere le tesi?».[2]
Due cose
colpiscono in questa disperata difesa: il «morbosa follia» che tocca uno degli
aspetti della personalità mussoliniana (Mussolini è intelligentissimo, ma la
sua intelligenza si innesta su un fondo psicopatico) e il «mi rassomigliava».
Dopo l’assassinio, Mussolini è stato costretto ad ammirare Matteotti. Ma
Matteotti ha sempre disprezzato Mussolini.
Il socialismo
di Matteotti fu una cosa estremamente seria. Non l’avventura romantica del
giovane borghese eretico che è rivoluzionario a vent’anni, radicale a trenta
(matrimonio più carriera), forcaiolo a quaranta. No. Fu una consapevole e
maschia elezione di destino.
Nato ricco,
dovette superare le difficoltà che ai socialisti ricchi giustamente si
oppongono. Non le superò con le sparate demagogiche, con le rinunce mistiche, o
profondendo denari in banchetti elettorali o in paternalismi cooperativi e
sindacali. Ma partecipando in persona prima al modo di emancipazione
proletaria, costituendo libere istituzioni operaie, organizzando i contadini
della sua terra ai quali dirigeva manifesti di una sobrietà che era poco in uso
attorno al ’19.
Solo a un
temperamento del suo stampo poteva venire in mente, nel corso delle elezioni
del 1924, di scendere in piazza Colonna con un pentolino di colla ad
appiccicare sotto il naso dei fascisti i manifesti elettorali del partito che
erano stati tutti stracciati. Matteotti, l’economista, il giurista, il ricco
Matteotti appiccicava manifesti, scorrazzava l’Italia per rimettere in piedi le
traballanti organizzazioni, saltava dai treni, si travestiva per sottrarsi agli
inseguimenti fascisti, prendeva con disinvoltura le bastonate e, nel pieno
della lotta, faceva una puntata ad Asolo per i funerali della Duse rientrando
poi in camion coi fascisti, perché, così spiegò, gli pareva giusto che il
proletariato italiano fosse rappresentato ai funerali della Duse.
Quanto al
camion fascista era stato necessario servirsene per essere presente a una
adunanza del partito. Se i fascisti lo avessero riconosciuto sarebbe stata la
fine. Ma Matteotti scherzava ormai con la morte, con grande orrore dei compagni
posapiano.
Era fatale
quindi che morisse l’antifascista-tipo Matteotti, eroe tutto prosa. Come
dovevano morire nello stesso torno di tempo Amendola e Gobetti. Come dovranno
morirei se non li salveremo, Rossi, Gramsci, Bauer e molti altri Matteotti che
si sono formati in questi anni.
Tutti
caratteri, psicologie, che sono l’opposto del carattere e della sensibilità
mussoliniani. Mussolini sente, sa quali sono i suoi autentici avversari.
Ha il fiuto
dell’oppositore. Imbattibile con uomini del suo stampo, è singolarmente
impotente con uomini che sfuggono al suo orizzonte mentale.
Perciò li
sopprime. Uccidendo Matteotti ha indicato all’antifascismo quali debbono essere
le sue preoccupazioni costanti e supreme: il carattere; l’antiretorica;
l’azione.
I discorsi parlamentari di Giacomo Matteotti
di Sandro Pertini (1970) [pp. 167-170]
Se il martirio
politico ha finito per consacrare nella coscienza degli italiani che hanno
perenne il culto della libertà la memoria di Giacomo Matteotti, l’uomo di
leggendario coraggio morale che aveva osato sfidare da solo la prepotenza di un
partito pronto ad imporre un regime di violenza istituzionalizzata, esso ha
anche spezzato la linea di una esperienza di socialismo che cercava sbocchi più
aperti ed originali alla ideologia del classismo.
È sorprendente,
infatti, come nelle pagine dei suoi discorsi parlamentari mai o quasi mai
compaia un riferimento al marxismo, pur essendo innegabilmente marxista la leva
del pensiero e dell’azione del movimento socialista di cui il deputato del
Polesine risulta instancabile sostenitore e, da ultimo, dirigente responsabile
a livello nazionale. «Noi siamo socialisti, ma siamo anche italiani», ebbe a
dire Matteotti una volta in parlamento, fornendo così la chiave di
interpretazione dell’intero travaglio, ideologico e politico, della propria
responsabilità di socialista ancorato ai valori irrinunciabili della nazione,
intesa come realtà spirituale e sociale e quindi, in ultima analisi, storica,
che le ragioni di classe, più che offuscare o addirittura rinnegare,
potenziavano.
Così si spiega
il suo socialismo pragmatico, nei cui schemi non allignava il dogmatismo
preconcetto. Sempre aderente alle condizioni reali del paese e della società
nazionale, si dichiarava a favore del libero scambio ed avverso al
protezionismo, perché gli interessi del popolo lavoratore suggerivano di
sostenere tale linea di politica economica. E nell’abbracciare quella tesi
aveva consapevolezza che i socialisti fossero «i vari rappresentanti della
nazione», intenti come erano a chiedere una nuova economia indirizzata ad
accrescere la ricchezza nazionale e non i privilegi e le risorse della classe
capitalistica che già aveva fatto, speculando a dismisura, i propri affari
durante la guerra.
Borghese per
estrazione sociale, Giacomo Matteotti aveva seguito il socialismo per
vocazione, sentendo il richiamo potente che esercitava sul suo spirito generoso
la lotta «per un alto ideale di civiltà e di redenzione delle plebi agricole».
Al sevizio della causa socialista sono così posti la preparazione giuridica ed
il fervore intellettuale che distinguono quest’uomo politico di formazione
ideologica moderna e concreta, interamente incentrata sui problemi del mondo
del lavoro; del quale avverte di essere il mandatario più responsabile e
conseguente.
Se, però, fosse
stata solo quella di un ideologico, la polemica condotta in parlamento contro i
governi di Nitti, Giolitti e Bonomi e contro il fascismo, non avrebbe avuto il
mordente che sempre la distinse: ma essa era frutto di una lunga esperienza
compiuta negli anni tra il 1910 ed il 1916, in seno al Consiglio provinciale di
Rovigo, mentre egli si andava perfezionando nell’organizzazione e nella
propaganda socialista.
Questa
esperienza sociale è portata nel parlamento come un patrimonio di forza
politica e morale. Così si spiega l’energia con la quale il deputato veneto
attaccava nell’immediato dopoguerra da una parte le linee di quella che
riteneva la politica economica di classe dei governi succedutisi fino al 1922,
e dall’altra il complice lassismo da essi dimostrato nella repressione delle
violenze fasciste.
A Matteotti
appariva un’insipienza quella di far sì che fosse distrutto «l’ultimo
rimasuglio di parlamento» nel momento in cui crescevano l’arbitrio e la
prepotenza della piazza. Quasi presago della fine dell’istituto
rappresentativo, si sorprendeva che dovessero essere proprio i socialisti le «ultime
scolte, ultime guardie del sistema costituzionale».
Nell’aspirazione
costante a testimoniare la verità, sottraendola alle intimidazioni della
violenza, egli si propose di denunciare in parlamento le congiunte
responsabilità del capitalismo, del governo e del fascismo. Ma, nell’accingersi
a lanciare il suo j’accuse, Matteotti non si esimeva da una sincera
autocritica, confessando che anche dalla sua parte v’erano stati «atti di
follia», cui però era succeduta la confessione e la deplorazione, mentre il
fascismo coronava gli eccessi bestiali dei suoi adepti con la «glorificazione».
Già alla fine del 1921 l’ammirazione incondizionata di Filippo Turati era
succeduta a qualche riserva iniziale.
Il «bravo
ragazzo» durante una sua requisitoria parlamentare aveva -
così notava l’anziano leader in una sua lettera ad Anna Kuliscioff – «tenuto duro
con energia e coraggio ammirabili», incurante della «prospettiva delle offese
che lo attendevano ancora».
La fiducia di
Matteotti nel parlamento non si confondeva con l’atteggiamento contraddittorio
dei suoi diretti avversari. Sapeva scorgerne anche i lati negativi e
soprattutto lo indignavano due fatti, cioè che in Italia le leggi approvate non
fossero le migliori e che venisse impedito al parlamento il controllo della
circolazione monetaria. Né sapeva rendersi ragione della procedura bizantina
che aveva finito per ridurre ad una mera finzione la volontà stessa del
parlamento, con raccomandazioni platoniche a ordini del giorno senza alcuna
conseguenza. Si trattava per lui di un «sistema vergognoso».
Ma il potere
esecutivo, nella sua scoperta tendenza dittatoriale, aveva cominciato a tenere
in nessun conto il parlamento e quando, a seguito della legge elettorale del ’23,
si videro schiacciate le minoranze, la vita del parlamento attraversò una crisi
profonda destinata a segnare l’inizio della fine.
La situazione
di minoranze tollerate e condizionate dallo strapotere di una maggioranza
rivelatasi insofferente di ogni forma di critica o di controllo era inaccettabile
per Matteotti, il quale soprattutto si ribellava dinanzi al tentativo di voler
far passare l’opposizione indiscriminatamente per un ghetto di «antinazionali».
«Quale rimarrebbe quindi - si domandava -
la funzione del parlamento? Probabilmente una funzione puramente decorativa.
Nelle forme esteriori una funzione simile a quella che compivano certi Consigli
di stato del vecchio regime. Ma nell’essenza ancor meno di tanto, poiché almeno
quei Consigli, nel loro piccolo numero e nella loro specifica competenza,
curavano la forma e i particolari tecnici delle leggi, mentre a questo assai
meno si presta una Camera numerosa ed eterogeneamente composta».
Costante fu la
sua esaltazione del parlamento, cui si meditava di infliggere il colpo mortale.
Alla fine di tale processo involutivo, così era costretto ad osservare: «Il
capo del governo Parla di “ultimo esperimento parlamentare” che esso permette,
come se la costituzione fosse mutata e non più il ministro uscisse o dipendesse
dalla Camera, ma l’esistenza di un parlamento fosse concessione graziosa e
condizionata dal governo. Gli italiani sembrano esterrefatti a tale contrasto
fondamentale, di cui la risoluzione sembra affidata all’arbitrio di un uomo o
di un partito, che solo dispone di una forza armata al proprio servizio».
Quando le
tenebre della «tremenda notte di schiavitù» diventarono irrimediabilmente più
fitte, Giacomo Matteotti, si era sentito sempre più attratto dalla luce non
ancora spenta del parlamento e in quel bagliore di tramonto ebbe a concludere
la sua vita di combattente della libertà.
Non fu un
disperato volontario della morte, ma un lucido ed indomabile testimone delle
ragioni della sopravvivenza del parlamento e della libertà: la sua era la voce
della razionalità politica sommersa, ma non distrutta, dall’odio irrazionale
della «massa urlante», da lui profondamente detestata, che aveva carpito nelle
sue mani il destino del popolo italiano.
L’uomo che
aveva osato sfidare la morte proprio per non morire, guardando al futuro con la
mente del politico autentico, si era espresso una volta alla Camera con le
parole di un momento, che erano al tempo stesso quelle di un legato politico: «Sollecitiamo
ardentemente con l’opera nostra, che è nazionale ed insieme internazionale,
sollecitiamo la formazione degli Stati Uniti di Europa, non rimandandola
idealmente dopo il socialismo, ma affrettandola praticamente, perché essi
costituiscono un anticipo sul socialismo, un avviamento al socialismo, un
riconoscimento ed un affratellamento fra i diversi lavoratori di tutte le
nazioni, eliminando tante deviazioni e contrasti apparentemente nazionali, ma
sostanzialmente capitalistici».
Giacomo
Matteotti è ancora, dunque, in mezzo a noi, con la freschezza attuale dei
nostri pensieri: un martire d’avanguardia nella lotta democratica per l’affermazione
della libertà e della giustizia nell’Italia, nell’Europa e nel mondo.
Matteotti nella storia del
socialismo Italiano ed internazionale
di
Leo Valiani (1971)
[pp.
171-177]
Nato
rivoluzionario, ed anzi anarchico, attorno al 1870, già al momento della
sua costituzione in partito politico (1892) il movimento socialista italiano
era un partito di democrazia parlamentare, rispettoso della legalità.
Ciò
non gli impediva di dirsi marxista e di voler essere il partito della classe
lavoratrice. Nella concezione del principale artefice della fondazione del
Partito socialista italiano, Filippo Turati, il marxismo, in un paese
economicamente arretrato come l’Italia, supponeva che il capitalismo
industriale si sviluppasse prima che il proletariato potesse porre la sua
candidatura al potere. Il trapasso medesimo, dalla società capitalistica alla
società socialista, sarebbe stato possibile solo mediante una lunga evoluzione
e, quando ne fossero maturate le condizioni, ciò avrebbe potuto avvenire pacificamente,
nei quadri della democrazia politica.
Secondo
Turati, era interesse primordiale del movimento operaio socialista che la
democrazia politica si affermasse contro i tentativi autoritari, reazionari
delle vecchie oligarchie. A tal fine il partito socialista poteva allearsi coi
partiti e gruppi radicali, o anche semplicemente liberali della borghesia più
progredita.
Il
contenuto economico sociale della lotta del partito socialista, e dei sindacati
dei lavoratori ad esso legati, avrebbe dovuto consistere in un’azione volta
ad ottenere la benevola neutralità dello stato nei conflitti fra imprenditori
ed operai, il pieno rispetto del diritto d’organizzazione, propaganda e sciopero
di quest’ultimi, e l’introduzione d’una crescente legislazione sociale a loro
tutela.
L’aumento
dei salari che così si sarebbe conquistato, avrebbe costituito, con
l’allargamento del mercato interno, il miglior incentivo che si potesse
desiderare per lo sviluppo degli investimenti e la crescita della produzione.
Questo
programma, che successivamente fu chiamato riformista, ma che Turati
e i suoi compagni (intellettuali come Claudio Treves ed ex-operai autodidatti
che organizzavano i sindacati) ritenevano conforme ad un’interpretazione
evoluzionistica del marxismo, adatta ai paesi occidentali, sembrò sul punto di trionfare
al principio del Novecento.
Il
partito socialista, che in precedenza era stato persino messo fuori legge da
governi reazionari, trovò allora un interlocutore in un governo democratico-liberale,
quello di Giolitti. Ma poco dopo si sviluppò nel partito socialista una
corrente che si diceva intransigente e rivoluzionaria, e che già nel 1904
ne conquistò (quella volta solo per due anni) la direzione. I fattori strutturali
che alimentavano la tendenza rivoluzionaria erano in parte i medesimi
che avevano dato vita alla tendenza riformista.
L’Italia
era afflitta da un eccesso di popolazione rispetto alla richiesta di mano
d’opera e dunque da permanente disoccupazione. Se si pensava che ciò
richiedesse una politica volta a convincere il governo ad intervenire, coi mezzi
dello stato, nei modi che si conoscevano allora (le tecniche keynesiane non
erano ancora previste da nessuno), per diminuire la disoccupazione; se
di conseguenza si chiedevano allo stato provvedimenti sociali, aiuti finanziari
alle cooperative operaie di produzione (che in effetti fiorivano in alcune
regioni); se la stessa azione si cercava di svolgere nelle amministrazioni
comunali e provinciali, sulle quali i socialisti potevano avere, grazie ai loro
voti, un’influenza crescente, si era riformisti. Se invece si pensava che fosse
più redditizio strappare al governo le stesse concessioni con tumulti di
piazza e strappare agli imprenditori degli aumenti salariali con scioperi violenti,
si era, o si pensava di essere, rivoluzionari.
S’intende
che i rivoluzionari credevano nel rovesciamento violento delle istituzioni
politiche e sociali esistenti. Ma, in realtà, non ne credevano giunto il
momento e lo rimandavano all’avvenire. Quel che avvantaggiava i riformisti
era il loro realismo pratico; la loro capacità di metodica organizzazione
sindacale. Quel che avvantaggiava i rivoluzionari era lo spirito reazionario,
antioperaio di molti imprenditori, specie agricoli (più di qualsiasi altro
movimento socialista europeo, quello italiano faceva larghi progressi nelle
campagne, fra i braccianti, ma anche fra i contadini non salariati più poveri)
e delle autorità di polizia, che nonostante l’indirizzo liberale di Giolitti
continuavano a considerare i socialisti come dei sovversivi. Inoltre, Giolitti
stesso svolgeva una politica democratico-liberale solo nell’Italia del
Nord, settentrionale e centrale.
Il
Sud, che non si industrializzava, rimaneva anche politicamente in preda
all’autoritarismo. Ivi i rivoluzionari prevalevano logicamente nelle organizzazioni
relativamente deboli del partito socialista e dei sindacati. Al Nord,
ove le organizzazioni erano relativamente forti, prevalevano i riformisti. La
guerra di Libia, che Giolitti stesso, venendo meno alle premesse democratiche
della sua politica, decise di conquistare militarmente nel 1911, fece
vincere definitivamente i rivoluzionari (fra i quali c’era già il giovane Mussolini)
al congresso nazionale del partito socialista. La direzione della Confederazione
generale del lavoro, la maggioranza degli organizzatori dei sindacati,
dei deputati al parlamento (52 nel 1913), degli amministratori comunali
(dei municipi importantissimi come Milano e Bologna, e moltissimi altri furono
conquistati dai socialisti nel 1914) rimasero invece riformisti. Ma
il ritiro di Giolitti dal governo, ove il suo posto viene preso da un liberale
di destra, piuttosto nazionalista, Salandra, indebolisce il riformismo.
Il
debutto di Giacomo Matteotti nell’attività politica socialista avviene in questa
situazione. Egli si colloca immediatamente tra i riformisti. Ve lo portano il
senso della realtà, il suo amore per il lavoro positivo, concreto, realizzatore
e anche il suo pacifismo, la sua avversione alla violenza. Ma nella sua
provincia, Rovigo, eminentemente agricola, il conflitto di classe, fra imprenditori
e braccianti o contadini poveri, è molto aspro. Qui il partito socialista
non può neppure contare sull’apporto numeroso di intellettuali, professionisti,
impiegati che per esempio a Milano consentono a Turati di avere
successo in un ambiente industriale e commerciale moderno e largamente
democratico.
Matteotti
si trova così alla sinistra della frazione riformista di cui fa parte.
Questa sua collocazione è rafforzata dall’intervento dell’Italia nella prima
guerra mondiale. Anche Turati e gli altri socialisti riformisti (salvo alcuni
che già nel 1912 sono stati estromessi dal partito) sono, come tutto il partito
(ad eccezione proprio di Mussolini, che viene espulso per il suo pronunciamento
in pro della guerra) ostili all’intervento italiano nel conflitto. In
parlamento essi votano contro i crediti militari, durante tutta la guerra e, inoltre,
partecipano alle conferenze socialiste internazionaliste di Zimmerwald
(1915) e Kienthel (1916), ponendosi così più a sinistra della quasi
totalità degli altri partiti socialisti europei. Ma Matteotti è ancora più a
sinistra di loro, nell’opposizione alla guerra, ch’egli, al pari dei
rivoluzionari, avrebbe voluto impedire anche con lo sciopero generale.
La
fine della guerra accentua, con la radicalizzazione delle masse operaie, per le
sofferenze patite, per l’inflazione in atto, per le speranze accese dalla
rivoluzione russa sovietica, il predominio dei rivoluzionari nel Partito
socialista italiano. Esso aderisce all’Internazionale comunista fondata a Mosca
nel 1919 e adotta, nonostante le proteste di Turati, il programma della
conquista violenta del potere e dell’instaurazione della dittatura del proletariato.
Matteotti è sempre coi riformisti, ma nelle lotte operaie concrete sovente più
a sinistra di loro. Ora anch’egli crede nella vicinanza dell’avvento del
socialismo. Eletto deputato, in parlamento si segnala invece per la sua
competenza in questioni fiscali, ma anche per la sua ortodossia finanziaria,
giudicata eccessiva da altri socialisti, come Modigliani, fautori di una finanza
più audace, produttivistica. La scissione fra rivoluzionari, che non hanno
osato scatenare la rivoluzione, quando essa sembrava possibile data l’occupazione
operaia delle fabbriche, e riformisti che non hanno osato andare
al governo, quando i partiti democratico-borghesi ve li invitavano, ha
luogo troppo tardi parzialmente nel gennaio 1921 e interamente nell’ottobre
1922. Il fascismo, vittorioso grazie all’appoggio delle autorità militari, di
polizia e giudiziarie, alla mobilitazione antisocialista delle masse del ceti medi,
e della maggioranza del contadini, e naturalmente grazie al finanziamento che
gli viene dai proprietari terrieri e dai capitalisti industriali, va al potere
ed impone la propria dittatura.
Sul
terreno della lotta fisica, il movimento operaio praticamente inerme, è
stato schiacciato. Neanche i rivoluzionari che parlavano sempre di violenza,
erano preparati a farne una. I fascisti lo erano, anche perché avevano nelle
loro file molti ex-combattenti sui fronti che avevano preso l’abitudine alla
lotta armata e che l’opposizione alla guerra dei socialisti (molti dei quali,
come operai, dovevano restare nelle fabbriche e non erano perciò andati in
trincea) esasperava. Matteotti fu il primo a denunciare alla Camera,
sin dall’inizio del 1921, le violenze fasciste, la loro tolleranza da parte
delle autorità e il loro carattere di classe. Quelle sue denunce furono
confermate dagli avvenimenti. Sbagliava anch’egli, opponendo la non-violenza
socialista alla violenza fascista. Il futuro avrebbe dimostrato che il fascismo
poteva essere battuto solo con le armi. Queste per il momento erano
nelle mani dell’esercito, sicché i socialisti avrebbero potuto disporne solo
se fossero andati al governo.
Matteotti
se ne rese conto tardi, verso la fine del 1921 e i suoi compagni riformisti
esitarono anche allora. Bisogna però dire che in quel momento, dopo
l’insuccesso dei governi di coalizione diretti dalla social-democrazia tedesca
nella repubblica di Weimar, la maggior parte dei partiti socialisti europei,
da quello francese a quello austriaco, era contraria alla collaborazione
governativa con i partiti borghesi.
L’originalità
di Matteotti si rivela solo dopo la conquista fascista del potere.
Diventato segretario del nuovo partito socialista riformista, che si dice
unitario, poiché mira alla futura riunificazione con quei socialisti di sinistra
che non sono diventati comunisti, Matteotti combatte una duplice battaglia
politica. Da un lato, egli intende impedire che i dirigenti riformisti della
Confederazione generale del lavoro facciano atto di sottomissione al governo
Mussolini, in cambio della sua tolleranza verso la loro organizzazione. Questa
sottomissione rafforzerebbe il fascismo, senza garantire la sopravvivenza
della libertà sindacale.
Soppresse
le libertà politiche, la dittatura fascista sopprimerebbe sicuramente anche la
libertà sindacale. Dall’altro lato, Matteotti vuole che il Partito
socialista unitario si metta alla testa d’una lotta molto energetica contro
il governo fascista. Perché questa lotta, da condurre nel parlamento e nel
paese, ma senza illudersi di poter fare ricorso alla violenza per rovesciare il
fascismo, che ormai dispone di tutte le armi dello stato, oltre alla sua privata
milizia armata, possa avere successo, occorre, a giudizio di Matteotti,
che il Partito socialista unitario promuova una larga alleanza comprendente
tutti quei partiti d’opposizione che desiderano il ritorno alla democrazia.
Resterebbero fuori, nella previsione di Matteotti, da quest’alleanza
democratica, soltanto i liberali di destra o meglio conservatori che votano
ancora per il governo fascista e i comunisti, che lo combattono bensì,
ma per l’instaurazione della dittatura del proletariato, che s’è già visto in
Russia come sia in realtà la dittatura del partito comunista che sopprime ogni
altro partito, anche se socialista. Per Matteotti il compito dell’antifascismo
democratico è, invece, di staccare dal fascismo quella parte delle
classi medie che in fondo è rimasta liberale e che il fronte unitario
proletario, per un governo sostanzialmente dittatoriale di soli operai e
contadini, proposto dal partito comunista, respingerebbe.
Il
piano d’azione di Matteotti si fonda sull’analisi del fascismo, delineata da
Turati e da Treves. Per i vecchi maestri del socialismo italiano, il movimento
fascista è un prodotto della guerra mondiale. Essi avevano intuito sin
dal 1913-14 quel che vi era di avventuroso, intrinsecamente non-socialista, nel
rumoroso socialismo rivoluzionario di Mussolini. Ma solo la guerra ha potuto
dare a Mussolini la possibilità di creare con successo un nuovo movimento
di violenti.
La
crisi economica e lo spostamento a sinistra delle masse popolari, a seguito
dei massacri e delle privazioni della guerra, ha tolto alla borghesia capitalistica
la sicura maggioranza parlamentare e il sicuro predominio sociale
che aveva prima del 1914. Ma la classe operaia non è ancora abbastanza forte
per conquistare il potere. I 156 deputati socialisti eletti nel 1919, rappresentano
solo un terzo della Camera.
Nel
vuoto di potere che cosi si crea, s’inserisce il fascismo. Esso mobilita la
piccola borghesia urbana e rurale, che il partito socialista, adottando il programma
di dittatura di classe dei bolscevichi, spaventa e respinge. Con l’adesione
all’Internazionale comunista, il partito socialista si isola anche dal
sentimento nazionale italiano, che la vittoria in guerra ha esaltato. In realtà,
dietro al fascismo, agiscono però i ceti più reazionari del capitalismo agrario
e industriale, che non solo vogliono prevenire con la controrivoluzione una
eventuale rivoluzione proletaria, ma, dovendosi pagare i costi della
guerra del 1915-18, vogliono anche annullare le conquiste pacifiche, sindacali,
cooperative, municipali di legislazione sociale, che il movimento operaio
ha fatto negli ultimi vent’anni.
Proprio
queste conquiste pacifiche hanno reso le organizzazioni operaie italiane
mature, secondo Turati, per un progresso graduale verso una società
socialista. Ma nell’arretratezza generale della società italiana, nonostante
l’industrializzazione di alcune sue zone, e nel diffondersi del costume della
violenza, a seguito della guerra, precisamente la maturità pacifica del
movimento operaio socialista lo rende vulnerabile, fragile di fronte all’offensiva
violenta del fascismo. A quest’analisi Matteotti aggiunge la considerazione
che con lo sviluppo del protezionismo doganale, dei trusts e
dell’intervento dello stato nell’economia, la borghesia, cessando di essere liberista,
ha cessato anche d’essere liberale.
Dall’analisi
di Turati però si può anche trarre una conclusione fatalista, e cioè
che non ci sia altro da fare che attendere la caduta del fascismo, per effetto
del ritorno della borghesia industriale economicamente più progredita al
liberalismo, man mano che essa riscoprirà i vantaggi economici
dell’allargamento del mercato interno, messo in crisi dalla riduzione fascista dei
salari e man mano che, allontanandosi l’atmosfera di violenza postbellica,
l’avversione della piccola borghesia al movimento socialista, ridiventando
democratico, cesserà e tornerà viceversa il comune desiderio di libertà. Oppure,
se ne può trarre una conclusione come quella di Otto Bauer, il capo della
socialdemocrazia austriaca, la cui analisi del fascismo, che egli considera
giustamente come un fenomeno internazionale, ha alcuni punti di contatto con
quella di Turati. Si noti, del resto, che il Partito socialista unitario, non
appena si è formato nel 1922, aderisce alla Internazionale due e mezzo, diretta
praticamente dalla socialdemocrazia austriaca e dopo la fusione d’essa,
nel 1923, con la II Internazionale, si trova in generale, in seno a questa, su
posizioni non lontane da quelle di Otto Bauer. Matteotti, che si occupa molto
di politica internazionale, nel 1923, è vicino ai socialisti austriaci e alla
sinistra socialista francese, tedesca e inglese, nella opposizione
all’imperialismo, e ai nazionalisti esacerbati dalla sistemazione postbellica. Naturalmente
egli combatte poi il nazionalismo fascista. La conclusione di Bauer
- che
approfondisce molto di più dei socialisti italiani l’analisi delle contraddizioni
economiche del capitalismo e che è più vicina politicamente ai
rivoluzionari -
è che nel periodo storico in cui la borghesia capitalistica non
è più in grado di esercitare da sola il potere, e il proletariato non è ancora
in grado di conquistarlo democraticamente, la scelta è fra un governo di
coalizione dei partiti borghesi democratici col partito socialista, e la dittatura,
fascista o socialista.
Matteotti
rifiuta l’ipotesi che alla dittatura fascista possa e debba succedere una
dittatura socialista. Egli desidera, già nell’opposizione, una coalizione fra
partiti borghesi democratici e partiti socialisti. La coalizione che Matteotti
vuole, dovrebbe essere però un’alleanza battagliera, che lotti accanitamente
per rovesciare il governo fascista e riconquistare la libertà.
A
tal fine, Matteotti, chiede al partito socialista di riconoscere i propri errori,
a cominciare da quello d’aver respinto nel 1919-20 i ceti medi con eccessivi
scioperi, specie nei servizi pubblici, oltre che con l’adesione all’Internazionale
comunista e di dimostrare che il fascismo, facendo gli interessi
della plutocrazia monopolista, danneggia economicamente anche i ceti
medi, e non solo la classe operaia. Ma, soprattutto, Matteotti vuole una continua
iniziativa di lotta antifascista, condotta con spirito d’unità democratica e
con ferma intransigenza. Nonostante si tengano sotto le violenze fasciste,
la cui denuncia nel nuovo parlamento costerà la vita a Matteotti, alle
elezioni generali politiche del 6 aprile 1924, il suo partito ottiene un
risultato relativamente lusinghiero.
Con
25 deputati il Partito socialista unitario precede il Partito socialista massimalista,
che ha 22 deputati, e il partito comunista, che ne ha 18. Il relativo successo
del partito di Turati e Matteotti è molto netto soprattutto a Milano.
L’assassinio di Matteotti, la cui responsabilità risale direttamente ai collaboratori
intimi di Mussolini e almeno indirettamente a Mussolini stesso, apre
una nuova fase della crisi politica italiana. Essa si chiude col trionfo di una
dittatura che si è fatto totalitaria. Matteotti aveva previsto in un discorso parlamentare
del marzo 1921 che la vittoria della violenza fascista avrebbe favorito
alla fine il comunismo a spese del socialismo riformista pacifico.
[1]
Il discorso fu pronunciato
nella seduta del 30 maggio 1924, convocata per la convalida delle elezioni dell’aprile;
ora in G. Matteotti, Discorsi parlamentari, II, Camera dei Deputati, Roma,
1970, pp. 873- 888
[2]
B. Mussolini, Opera Omnia
cit. XXI, La Fenice, Firenze, 1956, p. 237.