dispensa cronache dalla resistenza

CRONACHE DALLA RESISTENZA

DISPENSA

A supporto dei laboratori nelle classi

Le leggi fascistissime

Se la costruzione del nuovo ordinamento politico si concentra nel biennio 1925-26, già nel dicembre del 1922 Mussolini aveva ottenuto dal Parlamento il potere di emanare decreti legge che già in parte esautora la Camera della maggior parte delle sue funzioni e permette al governo di emanare senza alcun controllo una serie di provvedimenti legislativi. Inoltre aveva costituito il Gran Consiglio del Fascismo, un organismo composto da capi e notabili fascisti e destinato ad affiancarsi al governo ufficiale come un governo parallelo, decidendo le linee politiche alle quali lo stesso Parlamento avrebbe dovuto uniformarsi. Nel 1923, con la promessa di controllare la violenza delle squadre fasciste, aveva legalizzato la forza armata del partito trasformandola in MVSN (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale), un esercito agli ordini di Mussolini che aveva la funzione di colpire gli antifascisti. Le due iniziative sancivano una commistione fra partito e strutture statali che stravolgeva l’assetto costituzionale e preludeva alla costituzione di uno stato-partito.

Fra il 1925 e il 1926 una serie di leggi e provvedimenti sovvertirono in maniera definitiva gli ordinamenti dello Stato liberale, dando inizio a un vero e proprio regime dittatoriale fascista. Tutti i partiti vennero sciolti, così come le organizzazioni e le associazioni di opposizione al fascismo, e furono previste pene severissime dai tre a dieci anni di carcere, per chi tentasse di ricostruirle; vennero soppresse o fortemente limitate tutte le libertà – di stampa, sindacale, ecc. – e ogni libero canale di informazione che consentiva la formazione e l’espressione di un’opinione pubblica; fu cancellato il diritto di sciopero e gli unici sindacati “legalmente riconosciuti” furono quelli fascisti; il potere legislativo venne sottratto al Parlamento e attribuito al potere esecutivo, cioè al Capo del governo (nuova designazione del Presidente del Consiglio): nessuna legge poteva essere presentata in Parlamento senza la preventiva approvazione del Duce (in pratica venne abolita l’iniziativa parlamentare delle leggi). Inoltre, prendendo a pretesto un attentato alla sua persona, Mussolini nella sua veste di capo del governo assunse il diritto di rispondere soltanto al Re e non più al Parlamento e ridusse il Consiglio dei Ministri a mero braccio esecutivo delle sue direttive: fu, in sostanza, la fine del sistema parlamentare. Fu istituito il confino di polizia, chiunque, sulla base di semplici sospetti, poteva essere mandato, praticamente deportato, in località sperdute (Eboli, Ustica, Lipari, Ponza, ecc.); venne deliberata la revisione dei passaporti e l’annullamento di quelli già rilasciati e dato l’ordine alla forza pubblica di sparare contro chi tentasse di passare clandestinamente il confine. Alcuni di questi provvedimenti vennero inseriti nel Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, emanato con Regio Decreto del 6 novembre 1926, altri inseriti nel Disegno di legge per la difesa dello Stato, approvato il 5 novembre. Questa legge introduceva la pena di morte, stabiliva la perdita della cittadinanza e la confisca dei beni per i fuoriusciti che facessero propaganda antifascista all’estero, istituiva il Tribunale speciale per la difesa dello Stato – segnando così la fine dell’autonomia del potere giudiziario – formato da ufficiali della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e dell’esercito, che giudicava e processava gli avversari politici, applicava le norme del codice penale militare di guerra e alle sue sentenze non si poteva presentare appello. A procurare gli imputati al Tribunale provvedeva la polizia politica, riorganizzata, nel 1927, da Arturo Bocchini che istituì l’Ovra (Opera di Vigilanza e Repressione Antifascista), la potentissima struttura onnipresente e onnisciente, per la repressione dell’attività antifascista.

Nel 1928 si varò, poi, una nuova legge elettorale che consentiva l’espressione del voto solo nei confronti di una lista unica di candidati fascisti scelti dal Gran consiglio del Fascismo che l’elettore poteva solo accettare o rifiutare in blocco, votando con un sì o con un no (ma il voto non era segreto, in quanto la scheda del sì era tricolore, l’altra bianca). Le elezioni diventavano così una sorta di plebisciti organizzati a favore del governo. Con la costituzionalizzazione, il Gran Consiglio aveva potere deliberante sulla lista dei deputati, sulle direttive politiche del Pnf, il parere del Gran Consiglio diventava obbligatorio in materia di alcune questioni istituzionali: la successione al trono, le attribuzioni e le prerogative della Corona; la composizione e il funzionamento del Senato e della Camera; le attribuzioni e le prerogative del capo del governo; l’ordinamento sindacale e corporativo; i rapporti fra Stato e Chiesa. Dieci anni dopo fu soppressa la Camera dei deputati e sostituita con la Camera dei Fasci e delle corporazioni, non elettiva, formata da membri di organi del regime, con il solo compito di collaborare col governo alla formazione delle leggi.

Si giunse, così, alla costruzione di uno Stato totalitario: uno Stato, cioè, che mirava a porre sotto il suo stretto controllo non solo ogni aspetto della vita sociale, ma anche la sfera privata. Uno Stato fondato su una dittatura personale e un partito unico, destinato a convogliare il consenso inquadrando le masse nelle strutture del regime, plasmandole in modo totale sia nei comportamenti sia nella mentalità, facendo leva da una parte su una massiccia propaganda, dall’altra su una spietata repressione poliziesca, incarcerando, costringendo all’esilio, alla clandestinità o al silenzio gli antifascisti. Il partito fascista andò progressivamente rafforzando la sua presenza nella società civile grazie al suo massiccio apparato, alla fitta rete di organizzazioni collaterali, con compiti propagandistici, assistenziali, educativi, all’obbligo dell’iscrizione per i dipendenti statali, alla capacità di mobilitare “adunate oceaniche” nelle piazze d’Italia. Il fascismo, infatti, agì potentemente anche sul piano culturale e simbolico. Ricorrenze nazionali di ogni tipo, discorsi di Mussolini, celebrazioni sportive, cerimonie di premiazione, erano grandi eventi spettacolari di massa dove ogni aspetto – dalla scenografia, alla musica, al movimento – puntava a creare un momento di fusione dell’individuo con la collettività e di tutti con il capo. Ben cosciente che la politica si nutre anche di elementi non razionali, Mussolini fece di se stesso il leader carismatico, un mito vivente che si riproduceva nello spazio pubblico e privato, dai grandi ritratti in tutti gli edifici statali, alle scritte sui muri, alle copertine dei quaderni di scuola.

Antifascismo: l’emigrazione politica

Gli studi sui diversi movimenti politici hanno il merito di aver messo in luce una continuità non solo ideale, ma ideologica e strategica, fra la storia dei partiti messi fuori legge nel 1926 e quella dei partiti risorti nel 1943: lungi dal rimanere ancorati agli schemi politici e ideologici espressi negli anni dello Stato liberale, i partiti – al di là dei limiti dell’attività politica svolta in Italia o della scarsa incidenza sulle masse – elaborano, discutono, ricercano e preparano una loro identità ideologica nuova, che sarà assunta a fondamento dell’Italia dopo la Liberazione. Si tratta, scrive Colarizi, “di un’operazione dal respiro più ampio proprio perché, ripercorrendo il difficile cammino delle organizzazioni antifasciste in questo lungo periodo, riacquista consistenza e dimensione anche il discorso globale sull’antifascismo".

Il consolidamento del potere fascista innesca un processo di scomposizione all’interno del mondo antifascista che non è mai stato omogeneo non solo nei suoi ideali, ma nella volontà e nella capacità di lotta. Una prima distinzione va fatta tra gli antifascisti che dopo il ’26 abbandonano la lotta e quelli che la continuano nell’esilio e nella clandestinità. Tra gli ultimi mesi del ’26 e i primi del ’27 escono dall’Italia molti dei capi dei partiti che erano rimasti fino ad allora, socialisti e repubblicani. All’estero, “si cerca non solo di ricostruire un microcosmo organizzativo e di mantenere in vita la memoria di sé che per ogni forza politica passa attraverso una rielaborazione della propria identità; i fuoriusciti si sforzano di continuare un’attività politica che fa perno sul confronto tra gli stessi partiti antifascisti per elaborare una strategia vincente contro il fascismo”. Conquistare l’opinione pubblica dei paesi ospiti diventa fondamentale: guadagnarla alla causa antifascista significa garantirsi una rete di solidarietà indispensabile all’esistenza dei rifugiati politici, ma serve anche a renderla consapevole del pericolo del fascismo. È questo l’obiettivo, espresso nel suo manifesto programmatico, della Concentrazione d’azione antifascista che nasce a Parigi nel 1927. Vi aderiscono i due partiti socialisti, Psu (Partito socialista unitario) e Psi – i due partiti si riuniranno nel 1930 –, il partito repubblicano, la Cgdl (Confederazione generale del lavoro) e la Lega italiana dei diritti dell’uomo (Lidu). La Concentrazione eredita molti dei difetti dell’Aventino, di cui ricalca in gran parte la coalizione di forze, primo fra tutti la sostanziale sfiducia e, talora rifiuto, nella possibilità di condurre l’opposizione all’interno del paese. Comunque, contribuisce, grazie alla capillare diffusione del suo organo di stampa, “La Libertà”, diretto da Claudio Treves, a controbattere la propaganda fascista all’estero, diventando un punto d’incontro tra le diverse forze antifasciste non comuniste. Mutamenti importanti nello schieramento e nell’attività dell'antifascismo fuoriuscito avvengono soltanto dopo l’arrivo a Parigi di Carlo Rosselli, fuggito dal confino di Lipari insieme ad Emilio Lussu, che fonda, nel 1929, il movimento di Giustizia e Libertà (GL), che nasce, peraltro, in contestazione ai partiti prefascisti, e destinato ad agire in Italia oltre che all’estero. L’obiettivo è infatti quello di suscitare in Italia “la rivoluzione antifascista”, anche se il progetto è assai più ambizioso sul piano ideologico e politico. La nuova forza politica, basata su una piattaforma teorica in cui gli ideali socialdemocratici si fondono ai valori del liberalismo, mira a trasformare radicalmente la società italiana sul piano istituzionale, con una chiara opzione repubblicana, democratica e di larghe autonomie locali, e, sul piano economico, dando vita a un’economia mista, sorretta da una forte programmazione. Quanto al Partito comunista d’Italia, dopo gli arresti del ‘26, dà vita a un Centro interno clandestino, diretto da Camilla Ravera, prima a Genova poi a Lugano, e a un Centro estero prima a Basilea poi a Parigi dove viene stampato “Lo Stato operaio” diretto da Palmiro Togliatti fino al 1934. Il Centro estero mantiene la direzione politica e ideologica del partito, il Centro interno, finché funzionerà, mansioni operative, come la diffusione della stampa e del materiale di propaganda e i contatti coi centri regionali clandestini. Sul finire degli anni Venti il consolidamento ormai irreversibile del regime induce i suoi oppositori a una maggiore precisazione di analisi e di strumenti di lotta, imposti dalla consapevolezza che il processo di rovesciamento del regime fascista si sarebbe prolungato nel tempo e non sarebbe stato il risultato di un’indolore dissoluzione interna.

La cospirazione interna

Al di là dal mondo della emigrazione lo spazio d’azione politica rimasto in Italia è, infatti, estremamente esiguo. Il Pcd’I è il solo partito a cercare di mantenere in piedi un minimo di struttura organizzativa che, puntualmente, l’efficiente macchina repressiva del regime riesce a distruggere non appena si fa pericolosa. Gli arresti massicci dei militanti e le pesanti condanne del Tribunale speciale rischiano di vanificare di volta in volta gli sforzi di mesi e di anni di duro lavoro clandestino. Lo stesso vale per i nuclei di GL che sceglie la strada delle piccole azioni dimostrative, rapide e il più possibile clamorose – va ricordato, per esempio, il volo effettuato l’11 luglio 1930 su Milano da Giovanni Bassanesi e Gioacchino Dolci con il lancio di volantini antifascisti – tali da scuotere l’opinione pubblica all’interno, per rompere il muro del silenzio e dell’oblio, eretto dal fascismo a garanzia dell’isolamento degli antifascisti dal paese. Anche i giellisti cadono nelle mani della polizia fascista, nell’ottobre del 1930 il Movimento è duramente colpito dall’arresto di due dei suoi principali esponenti all’interno, Ernesto Rossi e Riccardo Bauer e nel 1932 cade il gruppo torinese. Entrambe queste forze, pur nella diversità delle ideologie, delle valutazioni politiche, dei metodi di lotta hanno in comune la preoccupazione di riorganizzare gli antifascisti rimasti in Italia, di formare nuovi nuclei di aderenti e stabilire un collegamento permanente tra i gruppi dell’interno e i rispettivi centri esteri. La rete clandestina comunista, per esempio, si compone di alcune migliaia di militanti, irregolarmente distribuiti in tutto il paese, ma concentrati essenzialmente nelle regioni nelle quali è più forte la tradizione socialista del movimento operaio e contadino del periodo prefascista – il Piemonte, la Lombardia, l’Emilia e la Toscana – decisi a creare e diffondere soprattutto i collegamenti nelle officine, a distribuire la stampa – tra il 1927 e il 1939 escono non meno di duecento numeri dell’“Unità” clandestina - sostenere gli scioperi nelle fabbriche e nelle campagne. Nel 1930, per esempio, la polizia registra 176 agitazioni sui luoghi di lavoro: “sono quasi tutte motivate dalle riduzioni di salario, e culminano in brevi scioperi improvvisi che vedono accorrere insieme nella fabbrica ferma (spessissimo con prevalente maestranza femminile) i carabinieri e i sindacalisti fascisti”. Quanto al Psi, qualche esile segno di attività si ritrova nella costituzione di un centro interno socialista che fa da raccordo tra i vecchi militanti rimasti in Italia e i fuoriusciti. Il progetto di creare una rete clandestina socialista simile a quella dei comunisti, in realtà, viene tentato in un primo tempo da Sandro Pertini che, però, appena arrivato in Italia, nel 1929, viene catturato dalla polizia e condannato a undici anni di carcere. Soltanto nell’estate del 1934, quasi parallelamente alla firma del patto di unità d’azione tra il Psi e il Pci – che inaugura la politica dei “Fronti popolari” – la formazione a Milano del Centro interno socialista ad opera di Rodolfo Morandi e Lelio Basso, prelude “alla ripresa di una attività politica di partito orientata in senso decisamente antifascista e classista”. Per le altre formazioni politiche prefasciste il discorso è diverso. I liberali che in maggioranza hanno espresso la classe dirigente fiancheggiatrice del fascismo non dispongono di una moderna struttura partitica. Quanti si dissociano escono dalla scena politica, chiudendosi nella testimonianza privata di un’opposizione di principi. Sono in pochi a scegliere la strada dell’antifascismo attivo che è privo per di più del sostegno di una realtà organizzativa efficace. I rischi e il prezzo troppo alto di una militanza clandestina, destinata a sconvolgere la propria e l’altrui esistenza, moltiplicano le scelte individuali di disimpegno, con effetti però vistosi su tutta la compagine dell’opposizione. La distanza sempre maggiore che separa chi si oppone nel chiuso della propria coscienza da chi mette in gioco la sua libertà recide inevitabilmente vincoli di amicizia e legami di appartenenza. La situazione dei cattolici è poi del tutto particolare: nonostante il Partito popolare di Sturzo fosse scomparso ed egli avesse già preso con pochissimi altri, tra cui Giuseppe Donati e Francesco Luigi Ferrari, la via dell’esilio, ai cattolici italiani rimangono altri punti di riferimento politici per continuare la lotta al regime fascista. A parte la massiccia schiera dei popolari passati al fascismo, gli oppositori hanno ancora aperti i canali delle organizzazioni ecclesiastiche, le sole rimaste in vita sotto la dittatura. La loro battaglia è però fortemente condizionata dalla posizione della Chiesa il cui appoggio al regime si fa più evidente (Colarizi, 1991, p. 11). È vero d’altra parte che la coscienza della diversità rispetto al fascismo, anzi dell’opposizione tra lo spirito cristiano e quello nazionalistico e violento del fascismo, rimane viva in molti cattolici. I fascisti stessi concorrono, del resto, con l’attacco all’Azione Cattolica e con le leggi razziali, ad accentuare questa opposizione. Ma anche prima, lo spirito antifascista sopravvive nella Fuci, la Federazione degli studenti universitari cattolici, il cui contributo sarà importante per la futura rinascita dell’antifascismo cattolico.

Vecchio e nuovo antifascismo

Al di fuori dei partiti, delle associazioni cattoliche in cui cresce una certa opposizione al regime, e al di là delle zone del paese che rappresentavano sacche storiche di resistenza al fascismo per la loro tradizione di classe, nel paese fascistizzato restano impermeabili alcuni settori di “antifascisti passivi”, di quanti, cioè, ormai estranei ai giochi della politica, mantengono vivi nella propria coscienza ideali di libertà, ma mai apertamente manifestati per paura della dittatura. C’è infine un sottile strato di nuovo antifascismo, destinato a rafforzarsi col passare degli anni, che affiora spontaneamente soprattutto tra i giovani, nonostante la rigida gabbia che li inquadra e li educa alla dottrina fascista. Il ribellismo e l’impazienza giovanile verso l’autorità costituita generano uno stato d’animo di non accettazione passiva dell’esistente potenzialmente pericoloso per il regime. Da un generico atteggiamento di contestazione si passa, infatti, alla formazione di sacche critiche nelle file delle organizzazioni giovanili che la dittatura, alla fine degli anni Trenta, riesce sempre con maggiori difficoltà a riassorbire. Si legge per esempio in una relazione fiduciaria del 1937 inviata alla segreteria del Pnf: “Nell’ambiente studentesco esiste tra i giovani scetticismo e cinismo, critica demolitrice dei valori morali e sociali e una forma spiccata di avversione al Fascismo […] assolutamente inesplicabile in giovani allevati in pieno Regime fascista in un’atmosfera che dovrebbe essere permeata da idee e da principi ben diversi”. La ripresa antifascista in Italia degli anni 1937-1939 si deve proprio, in larga misura, a giovani che poi intensificheranno la loro attività facendo nuove reclute tra il 1940 e il 1943, fino a costituire, insieme ai più anziani militanti, reduci dall’esilio, dal confino, dalle carceri, dai campi di internamento, i gruppi dirigenti della Resistenza. Una parte di questi nuovi antifascisti non ha mai svolto attività nelle organizzazioni fasciste e viene spinta all’opposizione attiva, sia dall’esempio dei genitori, di parenti o conoscenti antifascisti, sia per una spontanea ripugnanza verso il conformismo burocratico e ritualistico del regime, sia per ostilità verso la politica mussoliniana. Nel caso di questi giovani, dunque, la ribellione esistenziale alle regole date e il desiderio di libertà e di autonomia si fondono e si incontrano con l’antifascismo politico: troverebbero, così, un punto di congiunzione “l’antifascismo esistenziale” e “l’antifascismo organizzato” di cui parla Guido Quazza. Un’altra parte arriverà all’antifascismo dopo aver militato nelle organizzazioni studentesche o sindacali del regime o dopo aver partecipato ai Littoriali della Cultura. La scelta antifascista di questi giovani avviene in momenti e forme diverse, ma il fatto storicamente rivelante, come afferma Giorgio Candeloro, è “il travaso di forze dal fascismo all’antifascismo che [avviene] dal 1937 circa all’inizio della Resistenza”.

Le origini della Resistenza. Il crollo del fascismo

Il regime fallisce non solo sul piano militare, collezionando una serie di insuccessi, ma si dimostra incapace di garantire la sicurezza e le condizioni di vita dei cittadini. La guerra significa fame e lutti. I generi alimentari di prima necessità vengono razionati, i salari sono inadeguati al costo della vita che cresce vertiginosamente; i bombardamenti provocano decine di migliaia di morti e invalidi, e danno origine a flussi di sfollamento che dimezzano le città. Arrivano anche le prime notizie sulla Campagna di Russia, dove gli italiani sono mandati drammaticamente allo sbaraglio e decimati.

Il malcontento diffuso si esprime sotto forma di proteste individuali e simboliche finché, nel marzo del ’43, un’ondata di scioperi esplode nelle fabbriche del nord. Pur motivati da rivendicazioni economiche essi assumono un chiaro significato politico contro la guerra e il fascismo. Insieme alle sconfitte militari e allo sbarco alleato in Sicilia nel luglio successivo, gli scioperi del 1943 contribuiscono ad accelerare i piani dei gerarchi moderati, della monarchia e di politici prefascisti per disfarsi di Mussolini e portare l’Italia fuori dalla guerra.

Marzo 1943

Gli scioperi del marzo 1943 a Milano si mettono in moto con quasi tre settimane di ritardo rispetto a Torino, dove la Fiat si è fermata il 5 marzo. Secondo il rapporto del comando di difesa territoriale di Milano il primo sciopero si registra il 22 marzo, alle 13 e 30: “circa 500 operai dello stabilimento ausiliario Falck-Concordia di Sesto San Giovanni adducendo pretesto insufficienza paga, ritenuta inadeguata all’attuale costo vita e reclamando aumento salariale, non riprendevano il lavoro, restando inoperosi presso i rispettivi posti. Verso ore 14 altri 500 operai, reparto laminatoi. In seguito all’opera persuasiva delle autorità intervenute, verso le 14 e trenta una parte riprendeva il lavoro, mentre gli altri lo riprendevano solo verso le ore 16”. Le sospensioni variano secondo i reparti da un minimo di un quarto d’ora a un massimo di tre ore. Nei giorni successivi lo sciopero si estende alle altre fabbriche milanesi e della provincia. Le reazioni delle autorità sono durissime: minaccia di fucilazione, licenziamenti, arresti e denunce al Tribunale speciale. Si sciopera anche in segno di protesta per il fermo degli operai.

Lo sciopero del marzo 1943 si distingue da quelli precedenti per l’ampiezza e il carattere comune delle sue rivendicazioni e delle forme di lotta– fermata del lavoro a orari prestabiliti, richiesta del pagamento delle 192 ore, dell’aumento del salario, dell’aumento della razione base dei generi alimentari, della pace –. Proprio la parola d’ordine "vogliamo pane e pace" è un binomio che combina le richieste economiche con una presa di posizione politica, dietro cui si scorge la presenza, se pur molto limitata, e il lavoro dei partiti antifascisti; inoltre, il loro effetto più notevole e qualificante è la ricomposizione unitaria della classe operaia: Alla classe operaia lo sciopero del marzo dà innanzitutto la coscienza della sua forza, il valore degli strumenti di cui dispone e soprattutto l’impossibilità di ottenere in modo diverso che con la lotta una risposta equa alle sue primarie esigenze di sopravvivenza fisica e di dignità umana.

Il 25 luglio 1943

Il 25 luglio 1943, alcuni membri del Gran consiglio del fascismo ottengono la maggioranza su una mozione che sfiducia il capo del fascismo e rimette ogni potere nelle mani del re. Mentre esplosioni di gioia accolgono la notizia, Mussolini viene arrestato e tradotto sul Gran Sasso.

Iniziano così, i “45 giorni” del governo Badoglio che scioglie il partito fascista, di fatto già auto dissoltosi con rapidità impressionante, e contemporaneamente dà ordine di usare la forza contro le manifestazioni antifasciste – nei cinque giorni successivi al 25 luglio si contano 83 morti, più di trecento feriti e oltre 1500 arrestati – e garantisce ai tedeschi che l’Italia continuerà la guerra al loro fianco.

Il crollo della dittatura fa emergere alla luce del sole, dopo vent’anni di clandestinità, l’antifascismo politico che, privo della forza di abbattere il fascismo prima del 25 luglio, nei giorni immediatamente successivi fa un vero e proprio balzo in avanti. Dalle prigioni, dai luoghi di confino e persino dai paesi oltre frontiera i dirigenti antifascisti, confinati, incarcerati ed esiliati, rimettono piede nel paese, riallacciano i legami politici con la base, ritrovano tra loro i contatti perduti. Il passaggio dei partiti antifascisti dalla posizione marginale, a cui erano stati ridotti dopo il 1926, alla funzione preminente che avranno dopo l’8 settembre del ’43 non è dovuto però soltanto alla guerra perduta dal fascismo, ma è il risultato di un’evoluzione dei partiti stessi: “[…] fu un grande merito degli antifascisti militanti […] dei comunisti, in primo luogo, ma anche in misura notevole degli uomini di Giustizia e Libertà, dei socialisti, dei repubblicani e degli anarchici, il fatto di essere riusciti a mantenere, pur con frequenti interruzioni, i contatti con i gruppi clandestini, piccoli ma sempre risorgenti all’interno (anche nelle carceri e nei luoghi di confino), e inoltre di aver partecipato alla guerra di Spagna, il primo grande scontro armato europeo tra fascismo ed antifascismo […]”. Tra il 1942 e il 1943 l’antifascismo è “in piena ebollizione”: la rete clandestina del partito comunista si estende, grazie soprattutto all’opera di Umberto Massola, nuovo responsabile del centro interno, che riesce a ricostituire nuove cellule tra gli operai di Milano e Torino, mentre ricomincia la stampa clandestina de “L’Unità”, il Psi (Partito socialista italiano) viene ricostituito a Roma nel luglio del 1942 da Giuseppe Romita e Oreste Lizzadri e dopo un anno si fonderà con il Mup (Movimento per l’ unità proletaria), il movimento guidato da Lelio Basso, prendendo il nome di Psiup (Partito socialista di unità proletaria); nel ’42 nasce anche il Partito d’Azione dall’unione di tre correnti: una parte del movimento di GL (Giustizia e Libertà), che poi entrerà in massa nel partito; un insieme eterogeneo di uomini e gruppi di formazione democratica, repubblicana e liberale, unificati dall’esigenza di un antifascismo attivo e da un’impostazione programmatica-democratica; il movimento liberalsocialista che si sviluppa intorno a figure come Guido Calogero e Ludovico Ragghianti e di cui fanno parte, per esempio Bianca Ceva e Piero Calamandrei. In una certa misura, nuova è anche l’organizzazione dei cattolici, la democrazia cristiana – che conosce una lunga fase di gestazione proprio in quegli anni – , il cui leader De Gasperi chiama a raccolta tutti gli antifascisti cattolici, dai vecchi dirigenti del Ppi (partito popolare italiano) ai giovani cresciuti nelle organizzazioni cattoliche; quanto al Pli (Partito liberale italiano), accanto al prestigio di esponenti della vecchia classe liberale, vi sono singole personalità che occuperanno posti di responsabilità nella Resistenza politica, mentre un gruppo intorno a Ivanoe Bonomi si muove autonomamente, dando vita al Partito democratico del Lavoro. Dopo il 25 luglio, i partiti diventano semiclandestini: pur suscitando adesioni in varie classi e strati sociali non vengono ufficialmente riconosciuti, non possono organizzare manifestazioni pubbliche, né aprire pubblicamente proprie sedi, la stampa antifascista continua a essere clandestina, sebbene sia aumentata la possibilità di diffonderla. Tuttavia, a Roma si forma il Comitato nazionale delle opposizioni, composto dai rappresentanti di tutti i partiti, mentre in altre città si formano comitati analoghi con funzioni di lotta e coordinamento. Comincia, insomma, a crearsi quella rete di organismi politici tra loro collegati, che diverrà nei venti mesi della Resistenza, l’articolata organizzazione del Cln (Comitato di liberazione nazionale).

All’indomani del 25 luglio 1943, hanno luogo manifestazioni e astensioni dal lavoro che pongono di fatto il problema dei rapporti tra partiti antifascisti e forze sociali. Già a partire dal pomeriggio del 26 luglio le manifestazioni operaie divengono infatti il momento più combattivo delle manifestazioni per la “pace e libertà”. Dietro le parole d’ordine diffuse dai comitati antifascisti emerge una forte spinta alla lotta che investe allo stesso tempo rivendicazioni economiche e salariali immediate e richieste politiche. Gli operai richiedono l’allontanamento dei fascisti e la sostituzione dei direttori, la rottura con la Germania, la fine della guerra, l’effettiva liquidazione del fascismo e l’armistizio immediato. A Milano le astensioni dal lavoro sono pressoché generali il 27 e il 28 luglio. Si affianca a ciò la paralisi dei trasporti che riprenderanno a funzionare solo nel pomeriggio del 28. Il 28 mattina le condizioni dell’ordine pubblico rimangono precarie, mentre l’agitazione operaia si è ormai estesa a Sesto San Giovanni. Esercito, carabinieri, polizia devono provvedere al presidio delle fabbriche. Il fatto più grave accade il 28 luglio in una fabbrica di Desio, la Fernardi, in sciopero: un operaio viene ucciso durante uno scontro con i carabinieri che erano intervenuti per imporre la ripresa del lavoro. La lotta prosegue fino al 2 agosto e cinque lavoratori vengono denunciati. Nella prima settimana di agosto si riaccendono le agitazioni, e il 9 la protesta assume proporzioni massicce. A Milano (Pirelli-Bicocca) e a Sesto San Giovanni (Elettromeccanica, Breda e Falck) oltre 15.000 operai scendono in sciopero per imporre l’uscita dalla guerra. Il 17 l’agitazione investe ormai tutta la provincia. Solo il 20 il lavoro viene ripreso, mentre nel capoluogo si registrano ancora astensioni. Sul piano sindacale gli scioperi di agosto danno impulso alla costituzione delle commissioni interne e portano ad allentare l’apparato repressivo; su quello politico accelerano la rottura tra il fronte antifascista e il regime badogliano.

L’8 settembre 1943

La sera dell’8 settembre viene dato l’annuncio per radio dell’armistizio firmato a Cassibile, in Sicilia, cinque giorni prima, con gli anglo-americani, senza, però, dare alcuna indicazione operativa ai militari italiani nel Paese e all’estero e, il giorno successivo, il re Vittorio Emanuele, la famiglia reale, Badoglio, i suoi ministri, i capi di Stato maggiore dell’esercito, della marina e dell’aviazione fuggono a Bari, già sotto controllo alleato.

L’8 settembre rappresenta una delle pagine più drammatiche della storia italiana. “L’antefatto immediato della formazione dei primi nuclei armati, decisi a contrapporsi all’occupazione tedesca […] è da ricercare qui, nel clamoroso naufragio della classe dirigente che dopo aver condiviso col fascismo vent’anni di potere, si dimostra totalmente incapace di assumere una qualunque decisione meno vergognosa di una fuga alla chetichella”. La dissoluzione dell’esercito ne è la conseguenza più immediata e tragica.

Le varie unità dell’esercito sparse all’estero, oltre che sul territorio nazionale, vengono facilmente rastrellate dai tedeschi. Dove gli italiani si rifiutano di arrendersi, i tedeschi massacrano o deportano in Germania decine di migliaia di militari, sono circa 650.000 i militari, ufficiali e soldati, che finiscono nei lager. La stragrande maggioranza di questi sceglierà di non optare per la Rsi e resteranno quindi in Germania come militari internati (Imi), dei quali dai 30.000 ai 50.000 periranno a causa della denutrizione, del freddo, del duro lavoro, dei maltrattamenti dei tedeschi o saranno vittime di fucilazioni sempre più frequenti, soprattutto nella caotica situazione degli ultimi giorni di guerra.

Mentre l’esercito si disfa letteralmente, i tedeschi completano l’occupazione dell’Italia centro-settentrionale, compresa Roma, dove a Porta San Paolo alcuni reparti insieme a gruppi di civili resistono con le armi. Poco dopo i tedeschi, liberato Mussolini, favoriscono la creazione nell’Italia settentrionale di un regime neofascista, la Repubblica sociale italiana (Rsi).

La dissoluzione dello Stato, con il venir meno di riferimenti non solo istituzionali, ma anche ideologici ed etici, determina un vuoto, una sconvolgente perdita di punti di riferimento. Il Paese è diviso in due. La guerra e lo smembramento territoriale determinano una confusione di poteri che in breve annienta anche gli ultimi pilastri di un ordine civile, economico e sociale e politico. Cinque poli di autorità si contendono il diritto di decidere le sorti degli italiani: gli eserciti tedeschi, da una parte, e quelli americani e inglesi, dall’altra, hanno sicuramente il primato, grazie alla forza delle armi; c’è poi la Rsi a rivendicare un potere legittimo che gli viene dalla investitura dei nazisti; dietro le retrovie alleate, anche il re cerca di imporre la sua sovranità, mentre gli antifascisti si propongono come i soli veri rappresentanti degli italiani.

Ma se l’8 settembre è un momento di profondissima crisi morale, per molti è anche l’apertura di prospettive nuove, della possibilità di riappropriarsi della propria autonomia individuale e collettiva. Già in quei giorni, accanto ai primi barlumi di “resistenza attiva”, sono largamente gettati i semi della resistenza civile a partire dalle manifestazioni di solidarietà e di aiuto concreto che gran parte della popolazione, soprattutto donne, offre ai militari sbandati in fuga. L’aiuto di moltissime donne ai soldati e la loro vestizione in abiti borghesi, che Anna Bravo definisce maternage di massa, ha in sé una valenza simbolica molto forte: “cambiare status a un individuo, da militare farlo rinascere civile, attiene al giuridico allo stesso modo del suo precedente inverso, che ha trasformato il civile in militare”: è un gesto, dunque politicamente rilevante che assume il significato di un esplicito rifiuto della guerra e della sua ideologia che impone il sacrificio di vite umane. In questo senso, la Resistenza si caratterizza come “lotta per uscire dalla guerra” e dai suoi effetti di morte, distruzione e imbarbarimento della società civile; il rifiuto della guerra – sottolinea Gagliani – alla base della scelta della Resistenza non ha solo un risvolto negativo (il no alla guerra); ha bensì anche un risvolto positivo: l’azione di cura dei corpi concreti, il tentativo di sottrarli alla morte, alle mutilazioni, alle sofferenze provocate dalla guerra”. Questo sembra essere un messaggio politico centrale della Resistenza perché mette in crisi “l’impalcatura concettuale di fondo che aveva sorretto il fascismo come estremizzazione del militarismo e del nazionalismo”.

Ciò può anche significare che l’idea stessa di patriottismo si rivoluziona passando da una nozione astratta e retoricamente trasmessa dall’alto ad un’azione concreta: si passa cioè dalla “Weltanshauung del sacrificio per un corpo astratto (come la nazione) a una Weltanshauung di considerazione dei corpi concreti (le singole persone umane) e quindi di assunzione di responsabilità verso i propri simili, inerti, indifesi, allo scopo di rivalorizzare o di valorizzare per la prima volta la dignità della persona umana e su questo base fondare il nuovo Patto sociale”.

Nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre, si crea, dunque, una vasta rete di solidarietà e di assistenza che serve in quel momento non solo a salvare i singoli soldati, ma offre loro la possibilità concreta di iniziare ad organizzarsi in bande: il grosso delle formazioni di montagna, infatti, è costituto inizialmente da questi militari sbandati, raggiunti via via da giovani renitenti alla leva, disertori dell’esercito fascista, che saranno organizzati da elementi più consapevoli e politicizzati. In questo senso l’esperienza di questi giovani all’interno del microcosmo partigiano diverrà anche esperienza di educazione e di apprendistato politico.

C’è un ulteriore aspetto da sottolineare: se per alcuni militari la scelta di impegnarsi nella lotta armata contro i tedeschi e fascisti è caratterizzata dalla “continuità” della propria fedeltà al re, per molti altri ufficiali e sottoufficiali che, “immediatamente dopo l’8 settembre inizieranno, pur privi di chiare prospettive politiche, a raccogliere armi, a preparare le forze per uno scontro di lungo periodo”, è possibile parlare, invece, di una motivazione di fondo segnata dalla “discontinuità”: “discontinuità non solo rispetto all’Italia fascista, ma anche alle tradizioni militari, e al progetto monarchico badogliano di dissociare le colpe del regime fascista da quelle della corona e della classe dirigente del periodo fascista. Le radici della loro scelta, più che nella cultura e nei valori militari, affondano nella delusione e nel rigetto delle esperienze compiute nella guerra fascista. Guerra come momento della verità, e esito disastroso della guerra come disvelamento dell’inganno: così potremmo sintetizzare un momento chiave della [loro] esperienza bellica”. E non è un caso che una caratteristica che accomuna molte delle esperienze eticamente ed intellettualmente motivate della Resistenza, sia la ribellione al fascismo come ribellione antiretorica, come necessità vitale di superare la distanza tra l’esperienza concreta e le parole della retorica ufficiale.

Resistenza politica e Resistenza armata

Se nella prima fase della Resistenza hanno maggior rilievo le scelte individuali e le molteplici forme della spontaneità, nei mesi successivi però le componenti più organizzate e politiche finiranno per assumere un ruolo sempre più decisivo nel dare senso, direzione, e soprattutto voce e visibilità al fenomeno della resistenza armata. L’occupazione tedesca e la conseguente rinascita del fascismo esigono risposte operative sia sul piano politico che sul piano strettamente militare. “Il vuoto di potere determinatosi dopo la fuga del re rappresenta, nel contempo, una straordinaria occasione e un dovere cui i partiti antifascisti non possono sottrarsi. La lotta alla quale chiamano la nazione, il popolo è dunque lotta di rottura col passato e di riscatto secondo la tesi che solo un impegno diretto e di massa nella lotta antifascista può purificare l’Italia dalla guerra di aggressione combattuta fino all’8 settembre accanto alla Germania”.

Il 9 settembre '43, il Comitato nazionale delle opposizioni assume la denominazione di Cln (Comitato di liberazione nazionale), l’organismo dove siedono i rappresentanti dei sei partiti antifascisti. Il Comitato di Roma cercherà di esercitare una funzione dirigente ma non vi riuscirà. Anche formalmente, dal 31 gennaio del '44 sarà il Cln di Milano ad assumere l’effettiva direzione della lotta armata, sotto la denominazione di Clnai (Comitato di liberazione nazionale alta Italia). Concordi nella lotta contro il fascismo i partiti del Cln sono però divisi sul futuro istituzionale e politico dell’Italia; assai complicati, inoltre, risultano i rapporti con il governo del Sud, in quanto socialisti azionisti e comunisti vorrebbero le dimissioni di Badoglio e l’abdicazione del re, suscitando forti diffidenze negli Alleati. L’intervento di Togliatti, giunto da Mosca, nel marzo del ’44, determina la cosiddetta “svolta di Salerno”. Il leader comunista sostiene la priorità della guerra contro i tedeschi rispetto alla questione istituzionale, che deve essere rimandata a liberazione avvenuta. Dunque, in nome della guerra ancora da vincere contro i nazifascisti, il leader comunista propone la formazione di un governo di unità nazionale che superi le pregiudiziali istituzionali e antimonarchiche di socialisti e azionisti e consenta di mantenere l’unità d’azione con i liberali e i cattolici. La “svolta di Salerno” ha avuto certamente il merito di contribuire a influenzare positivamente l’atteggiamento dei partiti moderati nei confronti del Cln, rompendo l’isolamento e legittimando il movimento partigiano e lo stesso Pci.

Da parte sua, il re si impegna a trasmettere i suoi poteri al figlio, dopo la liberazione di Roma. Si costituisce, così, ad aprile '44, il primo governo di unità nazionale comprendente i rappresentanti dei partiti del Cln e presieduto da Badoglio, sostituito poi da Bonomi.

La nuova unità politica “non esclude, anzi rende necessaria, un’unità militare che tenga conto dell’esperienza e dei problemi nuovi che si pongano ai patrioti in armi” […] per cui ci vuole un comando centrale che stabilisca questo coordinamento […]. Si giunge, così, nel giugno del ’44 alla creazione del Comando generale del Corpo volontari della libertà (Cvl) con sede a Milano – composto all’inizio da Luigi Longo per il Pci, Ferruccio Parri per il Pd’A (Partito d’Azione), Luigi Bignotti per la Dc (sostituito da Enrico Mattei), Mario Argenton per il Pli – che “corona un processo di sviluppo e un intenso sforzo volto a istituzionalizzare, coordinare e disciplinare l’insieme delle forze partigiane” (Peli, 2006, p.83). Non a caso da giugno il modello della brigata, e del raggruppamento delle brigate in divisioni, inizia a diffondersi anche al di fuori delle brigate Garibaldi.

Schematizzando, la resistenza armata è organizzata in brigate legate ai partiti antifascisti, le Garibaldi del Partito comunista, numericamente le più forti e le più attive, le Matteotti, legate al partito socialista, le “Giustizia e Libertà” del Partito d’Azione, le formazioni cattoliche (Fiamme Verdi) e quelle liberali, e infine le monarchiche e “apolitiche” (dette “autonome”). La storiografia militare sulla seconda guerra mondiale ha, per lungo tempo, fortemente circoscritto l’apporto delle formazioni partigiane allo svolgimento delle operazioni belliche. Ma una tale valutazione, oggi, non è più accettabile: non solo perché numerosi episodi di guerriglia riescono a impegnare tutto l’esercito di Salò e consistenti forze tedesche, ma soprattutto perché non va sottovalutato il disastroso effetto psicologico che la guerra partigiana produce sul morale dei nemici. Nell’autunno del ’44, peraltro, le brigate partigiane arrivano a liberare e a controllare numerosi territori (“zone libere”) dove i Cln instaurano giunte di governo. La resistenza armata vive la sua crisi più grave nell’inverno del ’44, quando molte formazioni sono smembrate da un’ondata massiccia di rastrellamenti – tesi non solo a sradicare le bande ed a eliminare il maggior numero di partigiani ma anche a terrorizzare la popolazione civile – e contemporaneamente, un proclama del generale Alexander sollecita i partigiani a interrompere le operazioni; libera, infine, parecchie città del Nord prima dell’arrivo degli Alleati.

Le molteplici forme della Resistenza civile

La guerra partigiana, pur essendo la forma di opposizione ai tedeschi e ai fascisti “più visibile, clamorosa e politicamente fruttuosa” non esaurisce affatto la ricchezza e la varietà delle forme di resistenza. Per lungo tempo, resistente è stato considerato chi ha combattuto in montagna, il partigiano, cioè il cittadino maschio in armi, o chi ha militato in un partito politico: una visione che ha finito per offuscare l’iniziativa dei civili, “tanto spesso citata come contorno favorevole del movimento partigiano, quanto disconosciuta, appunto come fenomeno autonomo orientato a scopi non militari o politici”. Da questo punto di vista, d’importanza cruciale è stata propria la definizione della categoria di resistenza civile, vale a dire della pratica di lotta di singoli o di gruppi che si avvale non delle armi ma di “strumenti immateriali come il coraggio morale, l’inventiva, la duttilità, le tecniche di aggiramento della violenza, la capacità di manovrare le situazioni, di cambiare le carte in tavola ai danni del nemico”. Essa rappresenta anche lo sfondo necessario per comprendere e descrivere la parte giocata da tante donne in questa guerra, conferendo visibilità , spessore e dignità politica alle forme di lotta più legate alla quotidianità, a quelle “azioni di erosione continua del potere degli occupanti e di cura della vita”, azioni che furono proprie di tante e che al di là di scelte politiche esplicite o di appartenenze partitiche “significarono un’opposizione e l’affermazione di una soglia oltre la quale la violenza di chi la guerra aveva voluto non poteva più essere accettata”. Il punto di inizio della resistenza civile, lo abbiamo visto, sono i giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943, quando migliaia di soldati si sbandano sul territorio cercando di sfuggire ai tedeschi. Nei venti mesi successivi, la resistenza civile assume altre forme: tra queste, sabotaggi e scioperi per ostacolare lo sfruttamento delle risorse nazionali perseguito dal nazisti e contro la deportazione di manodopera maschile e femminile; tentativi di impedire la distruzione di cose e beni essenziali per il dopo; lotte in difesa delle condizioni di vita; isolamento morale del nemico. L’aspetto più diffuso, è senza dubbio la protezione verso chi è in pericolo: basta ricordare la lunga ospitalità offerta ai prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento dopo l’armistizio, l’aiuto agli ebrei, che costituisce il banco di prova della resistenza civile in tutta Europa. E non da ultimo l’appoggio alle formazioni partigiane: sono molte le donne che, per esempio, si occupano della raccolta di viveri, indumenti, farmaci, soldi, garantendo la sopravvivenza dei partigiani; molte svolgono un ruolo fondamentale nell’organizzazione e nella diffusione della stampa clandestina e di volantini antifascisti nei cinema, nei mercati rionali, nei luoghi di lavoro e, alcune imparano, in quelle circostanze, a battere a macchina; oppure ci sono le impiegate negli uffici o nei distretti militari dove forniscono tessere e documenti di identità falsa che consentono a molti di darsi alla macchia, o dove agiscono anche da informatrici; altre organizzano evasioni dagli ospedali e dalle carceri. Altrettanto essenziale la funzione delle case che da luoghi eminentemente privati diventano politici, “sedi di una vera e propria rete logistica della lotta clandestina”, sono luoghi di sostegno e di rifugio, ma anche basi partigiane: lì si nascondono ricercati o esponenti di passaggio, partigiani, ebrei, ex prigionieri alleati; si raccolgono armi, si organizzano passaggi di frontiera, si tengono riunioni, si ciclostilano volantini. Tutto ciò ha significato per le donne e per le loro famiglie compiere scelte precise, accettare i rischi, agire nel teatro della guerra e subirne le tragiche conseguenze. Ospitare, dar da mangiare, nascondere, favorire espatri clandestini, informare, trasportare, tutte queste azioni estremamente pericolose sotto un regime di occupazione che espone tutti e tutte a continue perquisizioni e rappresaglie, sono “atti politici”: e, molte sono state le donne che hanno pagato con l’arresto e il carcere.

“Si tratta, come scrivono Bravo e Bruzzone, “di un enorme lavoro di tutela e trasformazione dell’esistente – vite, rapporti, cose – che si contrappone sul piano materiale e spirituale alla terra bruciata perseguita dagli occupanti”.

Con l’applicazione di questo nuovo apparato concettuale non solo si abbatte l’idea di una “zona grigia” massificata e indistinta e contrapposta alla minoranza armata, ma si dimostra assai poco efficace, se non addirittura superato il rilievo conferito in più occasioni alla questione numerica. Non solo perché tanti, soprattutto tante donne, non hanno avanzato domande di riconoscimento o di risarcimento, ma sarebbe impossibile calcolare la massa esterna alle maglie della politica.

In questa categoria di “resistenza senz’armi” trovano, finalmente, identità e visibilità altri soggetti, gli Internati militari italiani (Imi), di cui abbiamo detto, che rifiutano in maggioranza, per ragioni diverse (“la fedeltà al giuramento al re e alle istituzioni, la difesa della propria dignità di uomo, il rifiuto del fascismo e della guerra nazifascista”) di arruolarsi nell’esercito di Salò. Per gli Imi si è parlato di “resistenza passiva”, un termine che ha un accezione negativa e che risulta davvero improprio: “Come si fa a definire 'passivo' un no opposto ai nazisti dall’interno di un campo di prigionia?” Poi ci sono i deportati e le deportate, basti pensare alle strategie di sopravvivenza e alle forme di resistenza messe in atto nella situazione estrema del lager. Ma anche il tema della deportazione – e, in particolare, quello della deportazione femminile – è stato per lungo tempo ampiamente eluso e marginalizzato dal discorso pubblico, tanto che Anna Rossi Doria nel 1998 poteva affermare che “la deportazione non è diventata nel nostro paese né patrimonio della memoria collettiva, né oggetto, fatte pochissime eccezioni, della ricerca storica”. La “ragione essenziale di questo silenzio va ricercata soprattutto nel fatto che i deportati “non avevano combattuto”. “Non esiste un ordine simbolico nel quale inserire l’esperienza della deportazione: i deportati non potevano a nessun titolo essere inscritti nel mito resistenziale del combattente in armi attraverso il quale si voleva rifondare l’Italia del dopoguerra”; infine, “protagonisti dimenticati, o molto trascurati” sono i giovani renitenti alla leva: nella renitenza si realizza la forma più diffusa e visibile della resistenza alla guerra. La sconfitta del fascismo, non solo militare ma anche politica e culturale, “come sistema di valori”, “come capacità di disegnare un futuro credibile”, ha la sua prima clamorosa epifania proprio nelle varie forme di renitenza e di diserzione; si tratta di una vera e propria disobbedienza di massa che ha una carica simbolica fortissima. “La renitenza presuppone la riscoperta di una moralità individuale collettiva, la riappropriazione della capacità di disobbedire e di accettare i rischi che questa scelta comporta”. Il rifiuto di combattere non coincide con una consapevole scelta antifascista né con l’adesione ad una banda partigiana, ma indubbiamente la resistenza trova nella renitenza la sua base di massa così come mette a nudo il carattere velleitario della Rsi, la sua incapacità di farsi ubbidire.

Gli scioperi del novembre-dicembre 1943

Le vicende connesse all’occupazione tedesca producono una stretta delle condizioni di vita. La condizione operaia complessiva, dentro e fuori la fabbrica, appare sotto ogni aspetto drammatica. Il rapporto tra salario e carovita giunge ad una divaricazione proibitiva, mentre si intensifica il fenomeno del mercato nero, indispensabile fonte di alimentazione per l’insufficienza della distribuzione razionata, che copre solo la metà del fabbisogno individuale. Dentro la fabbrica la situazione non è migliore, per l’avvio di un’ondata di licenziamenti.

Sono queste le motivazioni che spingono la classe operaia a impegnarsi a fondo nel ciclo di lotte che segue l’armistizio. Lo sciopero improvviso e spontaneo del 18 novembre alla Fiat Mirafiori di Torino rappresenta un preciso e pericoloso segnale per i fascisti e i tedeschi. A Milano, verso la metà di novembre si registrano i primi scioperi locali: scioperano i tranvieri in alcuni depositi; il 20 si sciopera alla CGE. In questa situazione il Pci si pone l’obiettivo di dare vita a uno sciopero massiccio, diffondendo un documento di direttive per le rivendicazioni economiche e politiche e in un appello ai lavoratori milanesi mette in collegamento le lotte operaie, a mezzo degli scioperi, con quella dei GAP (Gruppi di Azione Patriottica). Lo sciopero inizia il 13 dicembre. Alle 10 fermano il lavoro Breda, Innocenti, Magnaghi, Ercole e Magneti Marelli, Olap, Pirelli e altre fabbriche. Al centro delle agitazioni vi sono, per esempio, le richieste di un aumento del 100% sulle retribuzioni normali; aumento della razione di pane a 500 gr.; aumento delle razioni alimentari, grassi, olio, zucchero, ecc. ; distribuzione generi tesserati in ritardo; combustibile; scarpe e vestiario – urgenti le scarpe e le tute da lavoro; creazione degli spacci aziendali nell’interno delle ditte, di viveri e indumenti; uguale trattamento annonario ed economico agli impiegati; scarcerazione degli ex membri delle Commissioni; cessazione della persecuzione politica a danno dei lavoratori; abolizione di licenziamenti e sospensioni. Il 14 entrano in sciopero anche Caproni Falk, Alfa Romeo, Brown Boveri. Anche numerose e piccole aziende sono entrate in lotta e l’agitazione si allarga a tutta la provincia di Milano, tra cui per esempio la Bianchi di Desio. I tedeschi reagiscono. Già nella mattina del 14 compaiono carri armati davanti ad alcune fabbriche; il generale Zimmerman fa diffondere manifestini contenenti le sue offerte, iniziano tuttavia intimidazioni dirette contro i singoli operai, scelti a caso. Nonostante le minacce delle SS la maggioranza degli stabilimenti persiste nello sciopero. Il 15 entrano in sciopero la Borletti e la CGE e altre minori a Milano e a Monza.

Lo sciopero generale del marzo 1944

Lo sciopero di marzo appare il frutto di una meticolosa preparazione, si inserisce nel quadro di una consapevole iniziativa politica a carattere generale, mobilita un numero senza precedenti di operai, trova un sostegno sia pure solo propagandistico in tutto l’arco delle forze politiche antifasciste raccolte nel Cln. Lo sciopero del marzo 1944 presenta tuttavia alcune sostanziali novità. Si tratta innanzitutto di uno sciopero generale, che il Partito comunista, trascinando nell’organizzazione anche i socialisti e l’intero schieramento politico del Cln, porta avanti con grande determinazione. Il successo dello sciopero generale è atteso come verifica di un’avvenuta saldatura fra lotte sociali e lotta armata, e come conferma del ruolo trainante del Partito comunista su entrambi i fronti. Dopo le massicce agitazioni del dicembre 1943, la direzione del Pci ritiene infatti necessario e urgente giungere a un coordinamento tra le lotte operaie nei luoghi di lavoro e l’iniziativa del Cln sul territorio: “noi chiedevamo – scriverà Luigi Longo - che il Cln riconoscesse il valore politico e patriottico di queste lotte, ne sanzionasse, con la sua autorità, la legittimità e la necessità e assicurasse ad essa tutta la solidarietà attiva del movimento di liberazione”. Dunque, a differenza degli scioperi del ’43, quelli del ’44 hanno una direzione unitaria: è investito della responsabilità dello sciopero direttamente il Clnai che assicura l’appoggio delle organizzazioni di massa tra cui, per esempio i Gruppi di difesa della donna, pone in stato d’allarme l’intero schieramento in armi della Resistenza, dai Gap delle città alle formazioni della montagna. L’obiettivo dello sciopero generale si inserisce pertanto in una prospettiva politica generale sulla quale in questo momento concordano tutti i partiti antifascisti. È dunque uno sciopero politico – ed è questo l’altro elemento di novità – mentre le precedenti agitazioni, seppur non prive di risvolti politici, erano state attuate sostanzialmente in un’ottica di tipo economico-rivendicativo e avevano avuto come scopo primario il miglioramento sia delle condizioni salariali, attraverso la richiesta di aumenti, sia della situazione alimentare. Gli obiettivi sono infatti di far cessare le deportazioni della manodopera in Germania, impedire lo smontaggio dei macchinari iniziati già in alcuni centri industriali, far sospendere o ridurre la produzione bellica. Ad esso non vengono collegati obiettivi economici immediati o concreti. È una pura dimostrazione politica, destinata a mettere in evidenza l’opposizione al regime fascista e all’occupazione. Con lo sciopero generale del marzo 1944 le lotte operaie assumono un carattere differente perché si configurano come una precisa forma di lotta politica e antifascista. In questo senso, lo sciopero ha risvolti importanti anche nel favorire lo sviluppo della Resistenza, non solo perché il Clnai si schiera immediatamente a favore degli scioperanti – soprattutto a Torino si verificano i primi casi di fattiva collaborazione tra bande partigiane e lavoratori in sciopero – ma anche perché “dopo questa prima prova di forza condotta con armi diseguali, la scena dello scontro si trasferisce sui monti”.

Lo sciopero e le sue conseguenze

Il 5 gennaio 1944 viene data notizia della costituzione del Comitato segreto di agitazione per il Piemonte, la Lombardia e la Liguria che indice per il 1° marzo lo sciopero generale, e nei due mesi successivi si assiste a un incremento del lavoro politico e organizzativo delle forze antifasciste attraverso la massiccia diffusione di volantini e il potenziamento delle reti clandestine interne alle fabbriche.

Torino e Milano sono come sempre all’avanguardia. A Torino lo sciopero inizia compatto mercoledì 1° marzo, 60 mila scioperanti il primo giorno, 70 mila il secondo; il terzo giorno gli operai vengono attaccati dai militi fascisti all’uscita della Grandi Motori e numerosi sono i feriti. Vengono compiuti atti di sabotaggio alle linee tranviarie; si moltiplicano gli esempi di serrata padronale nei maggiori stabilimenti e soltanto l’8 marzo si ha la ripresa del lavoro per ordine del Comitato d’agitazione.

Milano ci dà l’esempio più riuscito di sciopero generale, insieme agli operai delle fabbriche che incrociano le braccia nelle principali industrie metallurgiche, alle ore 10 del primo marzo tutta Sesto San Giovanni è ferma, scendono in lotta i tranvieri che paralizzano la città; li assecondano i gappisti che fanno saltare la cabina elettrica che rifornisce la rete nord. Per tentare di porre rimedio alla situazione alcuni fascisti si mettono alla guida dei mezzi, fracassando ben 66 vetture. Scioperano anche gli operai del “Corriere della Sera” e per tre giorni di seguito il giornale non esce; scioperano gli studenti universitari, scioperano anche gli impiegati, in particolare all’Edison e alla Montecatini. I tedeschi decretano lo stato d’assedio delle fabbriche, intimano la consegna delle liste degli operi schedati come sovversivi, sospendono ogni pagamento di salario o indennità. Ma gli operai resistono. E difatti la ripresa del lavoro avviene solo l’8 marzo come a Torino.

Quanti sono gli scioperanti?

Secondo il ministero degli interni 208.549, di cui 32.600 solo a Torino; secondo Leo Valiani, d’accordo anche Paolo Spriano, perlomeno 500.000 operai e impiegati; secondo Battaglia, 1.200.000. Al di là delle cifre, da un punto di vista politico è indubitabile che lo sciopero generale rappresenti un successo: si estingue, così definitivamente, l’illusione neofascista di acquisire il consenso operaio facendo appello ai progetti di socializzazione delle industrie o promuovendo campagne antiborghesi. Per molti la partecipazione allo sciopero si è tradotta in un’inedita esperienza di disobbedienza di massa, nella scoperta di un’identità collettiva, ma le ritorsioni sono durissime: con la collaborazione della polizia fascista fin dal primo giorno le SS procedono all’arresto programmatico di un piccolo numero di operai soprattutto comunisti, puntando sull’effetto intimidatorio di misure esemplari; successivamente Hitler ordina che il 20% degli scioperanti sia immediatamente deportato in Germania, ma tale provvedimento si rivela praticamente inattuabile perché si tratterebbe di trasportare in pochi giorni 70 mila uomini e donne. 1200 in totale saranno gli operai e le operaie deportati nei campi di concentramento, altri saranno condannati dal tribunale speciale.

Le proteste operaie in autunno

Le proteste operaie riprendono dopo la pausa estiva nell’autunno del 1944: le spinte spontanee di massa si combinano con una presenza clandestina di agitatori cresciuta progressivamente in consistenza e influenza. Gli scioperi di ottobre-novembre sono il frutto di un intenso lavoro organizzativo e una sfida coraggiosa al decreto legislativo del 21 giugno che prevede la pena di morte per i capi promotori od organizzatori di serrate o scioperi e stabilisce la pena detentiva della reclusione fino a vent’anni per gli altri partecipanti. Le ragioni della classe operaia sono però decisamente forti: a partire dall’autunno del ’44, infatti, la produzione industriale precipita per carenze di risorse energetiche e materie prime; i centri urbani rischiano l’isolamento e l’asfissia per il problema dei trasporti e delle comunicazioni che accresce la crisi dei rifornimenti; aumenta il numero degli operai e delle operaie inviati in Germania mentre gli industriali ricorrono nuovamente a pesanti licenziamenti.

Sono queste le ultime agitazioni che si susseguono a ritmo incalzante e non c’è giorno senza scioperi parziali in qualche fabbrica. Lo sciopero del 23 novembre è l’ultimo sciopero generale proclamato dalle organizzazioni clandestine: scioperano una settantina di fabbriche di Milano e provincia. Il ruolo centrale è svolto dalla Pirelli. Serrate la Caproni di Taliedo, la Falck e la Magneti Marelli, suscitando nuove agitazioni di solidarietà. Nonostante la repressione (185 operai della Pirelli vengono arrestati, 171 finiranno in Germania), è notevole il successo politico. I comitati di agitazione saranno poi alla testa dell’ultima grande ondata di scioperi prima di quelli insurrezionali. Il 28 marzo entrano in sciopero a Milano e nei principali centri della Lombardia le maestranze degli stabilimenti industriali. Il 3 aprile per le strade di Monza vengono lanciati manifestini antifascisti che esortano gli operai e le operaie allo sciopero generale, vi è scritto: “Obbedite agli ordini. Astenetevi dal lavorio, siate solidali coi vostri fratelli di Sesto, di Milano e provincia. Basta fucilazioni. Pace e pane”.

Guerra patriottica e guerra civile

Il termine “guerra patriottica” identifica la Resistenza come lotta di liberazione contro l’occupante straniero, individuando, dunque, nel tedesco il nemico principale e, sotto certi aspetti, il più unificante. La riconquista dell’identità nazionale è un movente patriottico costantemente presente nelle vicende del Cln tanto da utilizzare la definizione di “Secondo Risorgimento”. I due movimenti maggiori si diedero, l’uno nella sua versione militare – la brigate Garibaldi – l’altro nella sua versione politica, il Partito d’Azione, nomi evocanti filoni risorgimentali. Tuttavia, il concetto stesso di “Secondo Risorgimento” mostra tutta la sua problematicità, dal momento che gli stessi fascisti di Salò si riferiscono, o meglio utilizzano pezzi, personaggi o inni del Risorgimento. La contesa sul Risorgimento aveva per obiettivo l’appropriazione dell’essenza di quel moto, respingendo nella “anti-Italia” coloro che si andavano schierando dalla parte opposta. È questo un aspetto che ci riconduce immediatamente al discorso della “guerra civile”. La Resistenza è anche, come in altri Paesi, guerra contro i fascisti e vede contrapposte due idee di patria e nazione. L’ interpretazione di guerra nazionale non può essere esauriente rispetto alla natura della Resistenza, perché, per l’appunto, rischia di mettere tra parentesi la Repubblica sociale italiana e di marginalizzare il fenomeno del collaborazionismo fascista. Il fascista, in quanto italiano, ha una sua specifica fisionomia di nemico: “servo dei tedeschi (ma consonante con essi per ideologia) e traditore della patria sono qualifiche odiose proprio perché il fascista è figlio, ancorché degenere, della stessa terra”. Su questo dato di fatto si basa l’applicabilità della categoria di guerra civile alla lotta combattuta fra i resistenti e i fascisti. Non va dimenticato, peraltro, che il fascismo era stato inventato in Italia: i conti aperti nel 1919-1922 potevano, dopo l’8 settembre, essere finalmente chiusi dagli antifascisti, armi alla mano.

I “repubblichini” non erano né pochi, né impotenti, né il loro Stato soltanto “un governo fantoccio”. Affermare il contrario equivarrebbe a minimizzare non solo la forza dei fascisti, ma anche i loro crimini. Significherebbe anche rinunciare alla definizione di un quadro interpretativo dei rastrellamenti, della collaborazione, della delazione e delle stragi. Certamente il governo neofascista aveva una limitata possibilità di agire, però, le milizie e le forze di polizia della Rsi erano ben visibili e colpivano non solo i partigiani, ma anche la popolazione civile. Aiutavano i tedeschi e contribuivano autonomamente alla deportazione di partigiani, civili ed ebrei, ai rastrellamenti, agli arresti, alle pratiche di tortura. E non si tratta di azioni sparse o isolate, ma si inseriscono in un quadro ben preciso, con una loro logica ben precisa. L’interpretazione della lotta tra la Resistenza e la RSI intesa come guerra civile ha incontrato da parte degli antifascisti, almeno fino a qualche anno fa, ostilità e reticenza tanto che l’espressione ha finito con l’essere usata solo dai reduci di Salò che ne hanno fatto la loro bandiera e su cui hanno costruito il paradigma del “mito dei vinti”. La diffidenza era – ed è – alimentata dal timore che parlare di guerra civile conduca a confondere le due parti in lotta e ad appiattirle sotto un comune giudizio di condanna o di assoluzione. In realtà, mai come nella guerra civile le differenze tra i belligeranti sono tanto nette e irriducibili: “gli uni (i resistenti) con un rapporto forte, costitutivo, con il futuro («abbiamo troppo futuro davanti a noi, per sporcarci le mani"» dirà una partigiana, nell'opporsi a una fucilazione inutile); gli altri (i fascisti) con un vincolo cupo, rancoroso, con il passato. Con spirito di riscatto gli uni, con spirito di vendetta gli altri. Riscattati dall'avere una storia da costruire i primi; condannati alla perdita della storia, a una simbolica rappresentazione della propria morte storica i secondi”.

La Liberazione di Milano

L’offensiva alleata inizia il 5 aprile 1945 nel settore tirrenico, dove in pochi giorni la V Armata americana libera Massa, e il 9 in quello adriatico. Il 10, il generale Clark annuncia alle forze partigiane che la battaglia finale è iniziata. La partecipazione alla battaglia finale a fianco degli Alleati rappresenta, nella strategia resistenziale, il riscatto nazionale e l’affermazione del peso militare della Resistenza. La saldatura del partigianato con le organizzazioni di massa, e anche il riconoscimento legittimante della funzione di guida svolta dal Clnai (Comitato di liberazione nazionale alta Italia), passano soprattutto attraverso le insurrezioni delle metropoli. Le formazioni che calano sulla città, già in stato di sciopero insurrezionale, rappresentano la conquista, realizzata dall’interno e dall’esterno, dei centri urbani, del territorio politico per definizione. Dopo aver controllato, con varia fortuna, vallate montane e zone collinari, sono le città l’obiettivo agognato, il territorio dove nazisti e fascisti hanno spadroneggiato.

Per dirigere l’insurrezione di Milano dalla fine di marzo viene insediato un Comitato esecutivo insurrezionale composto da Luigi Longo per il Pci, Sandro Pertini per i socialisti e Leo Valiani per il Partito d’azione. Comune agli avvenimenti torinesi è l’importanza e il ruolo assunto dagli operai delle grandi e piccole industrie che spesso ospitano le formazioni partigiane cittadine, le Sap (Squadre di azione patriottica) e i Gap (Gruppi di azione patriottica) e che fin dal 24 aprile diventano il centro motore, organizzativo e propulsivo dell’insurrezione. L’insurrezione rappresenta un momento di protagonismo popolare assolutamente unico nella storia nazionale e un grande successo del movimento resistenziale: la partecipazione operaia così come la salvaguardia degli impianti industriali sono due obiettivi pienamente realizzati; al raggiungimento del secondo, accanto all’attività dispiegata dai partigiani, non è certo estraneo il contributo offerto da un insieme di fattori favorevoli, tra cui il venir meno della resistenza tedesca e la rapidità con la quale sopraggiunge la fine della guerra.

Le fasi della Liberazione di Milano

Il 26 aprile 1945 l’insurrezione popolare, iniziata il giorno 23 con la proclamazione dello sciopero dei ferrovieri, ha ormai raggiunto il suo obiettivo: tutta la parte della città racchiusa entro le cerchia dei Navigli è liberata e sotto il controllo delle formazioni partigiane, i fascisti e i nazisti si stanno ritirando; gli Alleati giungeranno a Milano, tra il 29 e il 30 aprile, quando ormai tutta la città è nelle mani del Clnai.

· 23 aprile 1945

La mattina del 23 aprile 1945 inizia lo sciopero insurrezionale nel comparto dei ferrovieri di Milano e, poco dopo, il Comando Piazza trasmette al Comando generale del Corpo Volontari della Libertà due copie del piano insurrezionale e la distribuzione dei compiti in seguito all’unificazione delle forze partigiane.

· 24 aprile 1945

Il Comitato insurrezionale unitario (Luigi Longo, Sandro Pertini e Leo Valiani) lancia la parola d’ordine dello sciopero insurrezionale fissandone l’inizio per le 14 del 25 aprile. Ma già durante il pomeriggio del 24, nel quartiere di Niguarda si verifica uno scontro a fuoco tra partigiani e fascisti: una Sap (Squadra di azione patriottica) della 110° brigata Garibaldi cerca di disarmare i militi di un posto di blocco i quali reagiscono aprendo il fuoco. Allo scontro prendono parte anche i tedeschi che transitano per la zona a bordo di un autocarro. Alle 16 si alzano le prime barricate in alcune vie della zona e gli spari continuano: Gina Galeotti Bianchi (“Lia”), staffetta partigiana, è il primo caduto della Liberazione. Lo scontro poi si allarga. Alcuni gappisti della 3° brigata Garibaldi assaltano la caserma della Guardia nazionale repubblicana (Gnr), presso l’Ospedale maggiore. Ha inizio l’insurrezione nelle fabbriche, prima di tutte la Pirelli. La lotta si dispiega dalle periferie e a mano a mano verso il centro.

· 25 aprile 1945

Milano, ore 8: presso il collegio dei salesiani in via Copernico si riunisce il Clnai che approva all’unanimità la proclamazione dell’insurrezione ed emana tre decreti: nel primo si stabilisce l’assunzione di tutti i poteri civili e militari da parte del Clnai e dei Cln regionali, provinciali e cittadini. In base allo stesso decreto si istituiscono i tribunali di guerra, sono disciolti i reparti armati fascisti, assicurato il trattamento dei prigionieri di guerra. Con il secondo decreto, “per l’amministrazione della giustizia”, vengono nominate le Commissioni di giustizia per la funzione inquirente, i tribunali di guerra per lo stato di emergenza e le Corti d’assise popolari per quella giudicante, “onde assolvere il molto delicato compito di offrire alla popolazione seria garanzia che giustizia sarà fatta”. Si stabilisce, inoltre, che “i membri del governo fascista e i gerarchi del fascismo colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, di aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e nei casi meno gravi l’ergastolo”. Vi è implicita la condanna a morte di Mussolini e dei gerarchi fascisti.

Milano, pomeriggio: tutte le fabbriche del Milanese sono occupate dagli operai in armi. Alla Innocenti viene issata su un pennone una bandiera rossa mentre i tedeschi sono ancora asserragliati nello stabilimento. Scontri a fuoco si verificano fino a sera in diversi punti della città e vengono occupate le sedi del Corriere della sera, della Gazzetta dello sport e del Popolo d’Italia per stampare le edizioni insurrezionali di “Unità”, “Avanti!” e “Italia libera”.

· 26 aprile 1945

Dopo una breve sparatoria con un gruppo di fascisti, il quarto battaglione della Guardia di finanza prende possesso del palazzo della Prefettura in corso Monforte. Alle 8, designato dal Clnai, l’azionista Riccardo Lombardi si insedia in Prefettura. Il socialista Antonio Greppi entra in Comune come sindaco.

“Milano è libera”: dalla stazione radio di Morvione, il comandante delle brigate Matteotti, Corrado Bonfantini annuncia la liberazione di Milano. Frattanto all’Innocenti di Lambrate si tengono gli ultimi violenti scontri con i tedeschi.

· 27 aprile 1945

La situazione a Milano è ormai sotto controllo, resistono solo i tedeschi asserragliati nel collegio dei Martinitt, nel palazzo dell’aereonautica in piazza Napoli, nella Casa dello studente di viale Romagna e all’hotel Regina di via Santa Margherita, sede del comando delle SS tedesche e della Gestapo.

Alle 17 circa i primi 600 partigiani della Divisione Garibaldi Aliotta, provenienti dall’Oltrepò Pavese entrano a Milano nei pressi di Porta Ticinese. A riceverli sono il generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà (CVL), Luigi Longo, vicecomandante del CVL e comandante generale delle Garibaldi, Fabio Vergani, Capo di Stato Maggiore delle Garibaldi e Alessandro Vaia, il nuovo commissario politico del Comando piazza del CVL.

· 28 aprile 1945-6 maggio 1945

Giungono a Milano gli altri 600 partigiani dell’Oltrepò pavese che vengono impiegati contro la Casa dello studente e il palazzo dell’aereonautica. Nelle prime ore del pomeriggio, è tutto finito. I tedeschi si sono arresi ovunque, tranne che all’hotel Regina dove cederanno le armi di fronte agli Alleati. Intanto, tutte le formazioni dell’Ossola – la “Valtoce”, la “Redi”, l’“8° Matteotti”, la “Fleim”, la “Stefanoni” – tra il 27 e il 28 aprile si ricongiungono a Milano già liberata e si acquartierano nelle caserme della città. Alle 13 del 28 aprile arriva anche Cino Moscatelli, commissario politico del raggruppamento Divisioni Garibaldi del Cusio-Verbano -Ossola, con le sue brigate. Accolti in viale Certosa da Luigi Longo, Pietro Secchia, commissario politico delle Garibaldi, Vergani e Vaia, entrano in città preceduti da sette carri armati conquistati al nemico. Hanno persino un aereo sotto le cui ali è riportata la scritta “Valsesia” e che successivamente lancerà manifestini con il saluto dei garibaldini valsesiani ai milanesi. Moscatelli stesso insieme a Longo, al Colonnello Delle Torri e a don Sisto, cappellano militare della brigata Garibaldi “Osella”, terrà, poco dopo, un comizio in piazza Duomo. Tra il 29 e il 30 aprile arrivano anche gli Alleati.

Il 6 maggio 1945, tra una folla entusiasta, sfilano a Milano tutte le formazioni partigiane dell’Italia settentrionale dietro i comandanti del Corpo Volontari della Libertà.

Uomini e donne all’Assemblea costituente

Per comprendere l’evolversi del panorama istituzionale dal fascismo alla democrazia, ancor prima di addentrarsi nell’operato dell’Assemblea costituente, è necessario partire dagli anni della transizione, quelli che vanno cioè dalla caduta del fascismo, nel luglio 1943, all’elezione dell’Assemblea e al referendum sulla forma istituzionale, nel giugno 1946.

È in questo triennio, infatti, che si pongono le basi per una società democratica e si influenzano le successive scelte dei costituenti.

Stabilita la tregua istituzionale seguita alla svolta di Salerno, il Governo e il luogotenente (Vittorio Emanuele III era stato costretto a ritirarsi lasciando la luogotenenza al figlio Umberto) avevano il compito di predisporre le fondamenta del nuovo assetto politico e istituzionale dell’Italia.

Su queste basi, il 25 giugno del 1944, veniva approvata la “prima costituzione provvisoria” (definizione coniata da Piero Calamandrei), promulgata con il decreto luogotenenziale numero 151, che segnava la fine dello Statuto Albertino e il passaggio dallo Stato liberale a quello democratico.

Fin dal primo articolo si affermava, infatti, il principio della sovranità popolare con l’introdurre il suffragio universale e col prevedere un’Assemblea costituente eletta dal popolo che avesse il compito di stilare una nuova Costituzione e di scegliere la forma istituzionale:

Art. 1. Dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato. I modi e le procedure saranno stabiliti con successivo provvedimento.

Inoltre, il decreto stabiliva che fino all’elezione di un nuovo Parlamento la funzione legislativa sarebbe rimasta di competenza governativa e da esercitarsi tramite decreti legislativi approvati dal Consiglio dei ministri e promulgati dal luogotenente.

Nondimeno, la mancanza di un’assemblea rappresentativa durante il periodo di transizione convinse i partiti del Comitato di liberazione nazionale a istituire un organo pre-parlamentare composto da personalità politiche, nominate e non elette, provenienti dalla vecchia dirigenza dello Stato liberale, dai partiti antifascisti e da alcune categorie sociali quali sindacati, reduci, professori universitari ed esponenti del ceto delle professioni.

Nell’aprile 1945, prima della liberazione del nord Italia, fu istituita, quindi, la Consulta nazionale, che divisa in dieci commissioni a carattere tematico, tenne le sue sedute dal settembre 1945 al maggio 1946. Questa ebbe compiti di carattere consultivo su temi di rilevanza costituzionale e fu indispensabile, ad esempio, per la redazione della legge elettorale con cui sarebbero stati eletti i deputati dell’Assemblea costituente. Per la prima volta si riuniva un’assemblea composta da uomini e da donne e tra queste vi erano Gisella Floreanini, Adele Bei e Angela Cingolani Guidi.

La scelta della forma di governo era in ogni caso il tema più scottante in questo periodo di transizione, poiché era quello su cui si scontravano gli interessi e le paure tra i sostenitori della monarchia e i fautori della Repubblica.

Il decreto n. 151 aveva affidato all'Assemblea il compito di effettuare tale scelta; molti esponenti politici chiedevano quindi di introdurre la obbligatorietà del voto per l'elezione della Costituente. Erano soprattutto i rappresentanti filomonarchici a temere l'assenteismo, che avrebbe provocato una perdita di voti a favore dei deputati repubblicani.

Vi erano, inoltre, timori condivisi anche dall'Amministrazione americana di un'Assemblea con poteri troppo vasti, quasi onnipotente, che furono perciò limitati con l’approvazione della seconda costituzione provvisoria, ovvero del decreto luogotenenziale n. 98, del 16 marzo 1946, che devolvette la materia al voto popolare tramite il referendum:

Art. 1. Contemporaneamente alle elezioni per l´Assemblea Costituente il popolo sarà chiamato a decidere mediante referendum sulla forma istituzionale dello Stato (Repubblica o Monarchia).

Il voto del 2 giugno ebbe una valenza simbolica dovuta all’originale circostanza che vedeva il Popolo decidere la forma istituzionale della Nazione e nel contempo anche la partecipazione inedita delle donne in qualità sia di elettrici sia di detentrici del ‘potere di rappresentare’ al pari degli uomini.

Il responso fu di:

12 milioni e 717.923 voti a favore della Repubblica

10 milioni e 719.284 voti a favore della Monarchia

1 milione 498.136 voti nulli

La Repubblica aveva ottenuto la maggioranza anche rispetto alla somma dei voti monarchici e nulli!

All’Assemblea Costituente presero parte 556 deputati di cui 207 democristiani (9 donne), 115 socialisti (2 donne), 104 comunisti (9 donne), 30 dell’Uomo qualunque (1 donna), i restanti 100 deputati eletti in formazioni minori erano tutti uomini.

Ma dal momento che la scelta delle parole da usarsi in tale occasione non era cosa neutra, poiché queste rimandavano a precisi concetti che ne influenzano ancora oggi l’interpretazione, fu da subito evidente che la presenza sia di donne sia di uomini, trasversalmente attraversati da posizioni culturali e politiche differenti, non produsse un esito secondario nella redazione della Carta, al contrario contribuì a un arricchimento in termini di competenze e di scelta dei temi.

A tale circostanza faceva riferimento, ad esempio, Nilde Iotti quando sosteneva che “la presenza femminile in quella circostanza [fu] determinante, [poiché fu] allora che [cominciò] a farsi sentire, a pesare sulle decisioni e ad influenzarle, il risultato [fu] quello di avere una Costituzione che, sotto il profilo dei diritti delle donne, e per quei tempi, era molto avanzata”.

Nelle aule di Montecitorio si incontrarono momenti diversi della storia di Italia: erano lì riuniti gli esponenti della vecchia classe liberale, gli antifascisti che avevano conosciuto il confino o l’esilio, i dirigenti dei partiti antifascisti e le giovani generazioni, che avevano combattuto nella Resistenza.

I Costituenti rappresentavano un’élite politica, diversificata nelle convinzioni politiche (circa il 76% proveniva dai tre maggiori partiti, Dc, Psi, Pci) ma accomunata dalla profonda levatura morale e concorde nell’ancorarsi nel solco della cultura costituzionale europea del Novecento.

Se nel processo di configurazione dello Stato vi fu un freno a un incisivo rinnovamento istituzionale rispondente all’esigenza dei partiti di essere fondatori e garanti della democrazia, le spinte innovative si condensarono, invece, nella enunciazione dei principi e delle libertà.

Uno dei primi compiti dell'Assemblea fu l'elezione del Capo provvisorio dello stato, Enrico De Nicola, esponente della vecchia classe dirigente liberale e vicino ad Umberto di Savoia.

Una nuova organizzazione costituzionale

La composizione dell'Assemblea costituente dava ampio spazio a quei partiti che più si differenziavano e si volevano opporre al corso precedente e alla necessità di creare un netta differenziazione costituzionale rispetto allo Statuto albertino. E’ possibile, quindi, rintracciare continuità e cesure nel testo costituzionale: venne salvaguardata la continuità dello Stato, le tensioni sociali e i fermenti di rinnovamento si concentrarono in particolar modo nella prima parte, quella riguardante i diritti e i doveri, più che nella seconda dove si prendeva in considerazione l'organizzazione costituzionale dello Stato.

In ogni caso la Costituzione fu il risultato di una mediazione tra le diverse componenti: quella cattolica, rappresentata dalla Dc, quella operaia tradizionale, che trovava espressione nel Pci e in parte nel Psi e quella di derivazione risorgimentale che si riconosceva nei partiti di stampo liberale e nella vecchia classe dirigente.

Questo processo è ben visibile nella prima parte della Costituzione in cui gli articoli sui principi supremi raccolgono l’eredità delle filosofie politiche.

I Costituenti vollero infine affermare una discontinuità rispetto al ventennio fascista, con il riconoscimento del primato all’individuo, i cui diritti preesistono e di conseguenza non sono concessi ma solamente riconosciuti e garantiti dallo Stato.

Il 2 giugno 1946: le donne votano

La questione del suffragio femminile percorre l’intera storia dell’Italia unita e fu riportata alla luce nel giugno 1944 dalla promulgazione del decreto n. 151, che con l’introdurre il suffragio universale per l’elezione dell’Assemblea costituente pose le basi del nuovo Stato democratico.

Uomini e donne, senza distinzione di sesso, erano stati privati dei diritti politici durante gli anni del fascismo, ed esisteva, quindi, un’intera generazione che non aveva mai esercitato il diritto di voto né aveva conosciuto formazioni politiche diverse dal partito unico fascista.

L’impegno che il fronte antifascista dovette affrontare fu anche di tipo didattico: era necessario alfabetizzare il popolo alla politica e in questo quadro era cruciale formare le donne, eterne escluse e pregiudizialmente ritenute estranee alla vita pubblica.

Nel 1944, per iniziativa di alcune esponenti dei partiti antifascisti, tra le quali Marisa Rodano, Rita Montagnana e Giuliana Nenni, nasceva a Roma l’Unione donne italiane (Udi) con il compito di aggregare donne di diverso orientamento politico per rendere più incisiva la partecipazione femminile e favorire la formazione delle nuove elettrici. Questo obiettivo era condiviso dalle donne cattoliche, le quali decisero di creare una propria organizzazione, il Centro italiano femminile (Cif).

Nell’ottobre, pochi mesi dopo l’approvazione del decreto, nasceva, per volere delle due associazioni e con il benestare dei partiti antifascisti, il “Comitato pro voto”, che presentava al Comitato di liberazione nazionale (Cln) una petizione per la concessione del diritto di voto alle donne e ne riceveva in cambio un impegno formale.

La questione del suffragio femminile venne discussa in una riunione del Consiglio dei ministri, sul finire del gennaio 1945. Nonostante le perplessità, di carattere strumentale, manifestate dagli esponenti del partito liberale, del partito d’azione e di quello repubblicano, timorosi che dell’allargamento del suffragio avrebbero beneficiato solo i partiti di massa, fu, infine, promulgato il decreto luogotenenziale n. 23, che estendeva anche alle donne il suffragio attivo, escludendo però le prostitute schedate che esercitavano la professione al di fuori delle “case chiuse”, con l’asserire:

Art. 1 Il diritto di voto è esteso alle donne che si trovino nelle condizioni previste dagli articoli 1 e 2 del testo unico della legge elettorale politica, approvato con Regio Decreto 2 settembre 1919 n. 1495.

Si arrivava, quindi, alla concessione del diritto di voto alle donne senza un vero dibattito politico in un momento in cui il nord Italia era ancora sotto assedio tedesco e senza riallacciare i legami con la battaglia condotta dal movimento suffragista agli inizi del secolo. Questa circostanza avvalorava l’inesatta percezione, diffusasi nell’immediato dopoguerra, di un diritto concesso, e non conquistato, dalle forze politiche a parziale riconoscimento del ruolo ricoperto dalle donne durante la Resistenza. Ovviamente questa versione non teneva conto della tradizione storica di dibattiti parlamentari e di battaglie politiche femminili a richiesta del suffragio che avevano caratterizzato l’Italia liberale.

Meglio si comprende, quindi, la svolta innovativa e democratica seguita alla Liberazione e l’emozione che in molte provarono nel recarsi ai seggi: “La prima volta che sono andata a votare mi è sembrato di andare in paradiso, avrei abbracciato tutto il mondo lì – racconta emozionata Giovanna Maggi di Gussola (Cremona) – dopo tanti anni di oppressione, specie per noi che eravamo del partito comunista, sembrava di essere in un altro mondo, c’era aria di libertà».

Sulla scia di quanto avvenne in altre parti del mondo occidentale, anche in Italia la concessione dell’elettorato attivo venne disgiunta da quello passivo. Infatti, se nel gennaio del 1945 le donne erano state ammesse al diritto di votare, per la loro l’eleggibilità si dovette attendere il decreto n. 74, del 10 marzo del 1946, decreto che permise ai partiti di candidare donne nelle proprie liste alle imminenti elezioni amministrative.

L’allargamento del suffragio stimolò ataviche resistenze e confermò radicati pregiudizi; le resistenze si fecero sentire soprattutto all’interno dei partiti, restii alla candidatura delle donne, che inevitabilmente sottraeva posti agli uomini (furono solo 226 le candidate per la Costituente); i pregiudizi, invece, attraversavano l’intera società italiana che percepiva le donne estranee alla politica.

Le donne votarono per la prima volta alle amministrative del marzo 1946, ma la consultazione che raccolse il maggior valore simbolico fu quella del 2 giugno. In tale occasione si affermava l’essenza della democrazia diretta, con il referendum istituzionale, e rappresentativa, con l’elezione di un’Assemblea formata da donne e uomini.

Le donne italiane erano finalmente protagoniste della scena pubblica e nell’autunno di quell’anno nasceva l’Associazione nazionale donne elettrici con lo scopo di «formare nuove elettrici e favorire la partecipazione femminile alla vita politica».

La presenza di donne e uomini nello scrivere la Costituzione repubblicana fu decisiva per l’avvenire democratico del Paese. Le Costituenti furono, infatti, garanti di quel concetto di uguaglianza e parità tra uomo e donna che la nostra Costituzione sancisce fin dai primi articoli.

Fu grazie alla volontà e alla fermezza delle Costituenti se all’articolo 3 venne inserita la frase “senza distinzione di sesso”, e a Nilde Iotti si deve l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, la parificazione tra figli legittimi e nati fuori dal matrimonio, e la tutela della maternità. E, ancora, con un intervento appassionato Teresa Noce ricordò all’Assemblea che «mettere al mondo le nuove generazioni non è solo un “affare privato” perché l’infanzia è l’avvenire del Paese».

Le ventuno donne presenti in Assemblea si batterono, quindi, per vedere riconosciuta l'uguaglianza all'interno della famiglia e per la tutela della maternità; vollero affermata la parità tra lavoratore e lavoratrice, e scrissero nero su bianco il diritto di donne e uomini di accedere ad ogni professione e carica elettiva.

La Costituzione italiana entrò in vigore il 1° gennaio 1948, ma le Costituenti sapevano che il cammino per l'uguaglianza tra i sessi sarebbe stato ancora lungo come si evince dalle parole di Teresa Mattei, pronunciate nel marzo 1947:

«È purtroppo ancora radicata nella mentalità corrente una sottovalutazione della donna, fatta un po’ di disprezzo e un po’ di compatimento, che ha ostacolato fin qui grandemente o ha addirittura vietato l’apporto pieno delle energie e delle capacità femminili in numerosi campi della vita nazionale».

LE FONTI

Le donne al voto

La Consulta

Di Jole Lombardi

(Noi Donne - Foglio d’Informazione dell’Unione delle Donne Italiane, n. 5, Roma, 15 ottobre 1945, ora in Italia 1946: Le donne al voto, dossier a cura di MC. Fugazza e S. Cassamagnaghi, Istituto Lombardo di Storia contemporanea, Milano, 2006)

L’imminente inaugurazione della Consulta aveva lasciato gli stessi Consultori un po’ incerti e timorosi sui suoi risultati. Avevamo temuto che il dibattito avrebbe acuito i dissensi fra rappresentanti delle più diverse correnti, che avrebbe accentuato vieppiù i lati negativi della vita politica attuale piuttosto che valorizzarne quelli positivi, che avrebbe rafforzato la sfiducia che affiora purtroppo qua e là nell’animo di molti. Ma nulla di tutto questo è avvenuto, che anzi i vari discorsi si sono succeduti in atmosfera di serena critica e di correttezza. La sessione venne inaugurata con un nobile ed appassionato discorso dell’on. Agnini, un veterano delle battaglie parlamentari; seguì un breve saluto del Conte Sforza, presidente della Consulta ed un discorso del presidente del Consiglio. Fra gli interventi più interessanti segnaliamo quelli di Pertini, Longo, Morandi, Terracini, dell’on. Grandi e di Oronzo Reale.

La presenza delle donne (dodici, giacché la tredicesima, la Bastianina Muso, del Partito d’Azione, era purtroppo assente perché ammalata) è stata salutata con simpatia e solidarietà da tutti i consultori (anche se i primi oratori hanno dimenticato, ce lo hanno confessato essi stessi con sorridente bonomia, di rivolgere un saluto alle consultrici). Del resto queste ultime non hanno tardato a far sentire la loro voce. La prima oratrice è stata Angela Cingolani della Democrazia Cristiana che ha detto con giusto tono dell’apporto che le donne possono dare e daranno alla vita sociale e a quella politica. L’oratrice ha rilevato che occorrono opere di rigenerazione, di rieducazione ad una vita onesta e di lavoro, e per questo l’azione della donna potrà essere preziosa. Del resto, ha soggiunto fra gli applausi e l’ilarità generale – «peggio di quello che nel passato hanno saputo fare gli uomini, le donne certo non potrebbero fare mai».

Rina Picolato, del partito comunista, ha ricordato il contributo dato dalle donne alla vita clandestina e partigiana ed alla lotta di liberazione ed ha fatto cenno a quei problemi – come la casa, l’infanzia, l’educazione – alla cui soluzione le donne sono chiamate a dare uno speciale contributo.

Ferruccio Parri ha risposto alle critiche ed alle obiezioni dei vari oratori ed ha annunciato la prossima convocazione delle elezioni alla preparazione delle quali si lavora alacremente.

Ed auguriamoci, in conclusione, che dalla Consulta e ancor più dalla Costituente sorga quella vera democrazia per cui collaborano tutti coloro a cui sta a cuore la rinascita del paese.

“Tiriamo le somme”

di Gioiosa

(Vengono riportati i risultati del referendum e alcune risposte - Gioia, 14 aprile 1946 -, riguardo all’atteggiamento interiore e al comportamento delle lettrici, in Italia 1946: le donne al voto, cit.)

Con che atteggiamento interiore vi presenterete alle urne?

Gemma Cavallo – Milano

Mi presenterò alle urne con piena coscienza dell’azione che starò per compiere e con serena consapevolezza della responsabilità che il diritto al voto impone.

Un solo voto in più o in meno al partito che dà maggior affidamento per i programmi e per gli uomini che si propongono di attuarli, contribuirà ad aumentare o a diminuire l’influenza benefica nella vita della Nazione.

Irene D’Amato – Matera

Mi presenterò alle urne con spirito sereno, e soprattutto fiducioso che il mio voto contribuirà alla rinascita della Patria, povera nave in balia della tempesta. Altra volta le donne d’Italia si presentarono ad altre urne e vi depositarono il pegno sacro del loro amore: la fede nuziale che doveva servire a venire in aiuto alla Madre in armi. E vi andarono con spirito fiducioso anche allora.

Ma purtroppo quello fu un tradimento: bisogna che il voto di oggi lo redima e sia veramente l’impulso di ripresa e di ricostruzione morale e materiale per lei.

Come vi comporterete con lui (marito, fratello, fidanzato, speranza prossima o lontana) se vi troverete in politica di parere contrario?

Gemma Cavallo – Milano

Trovandomi con un lui (fidanzato o marito o fratello) di parere contrario al mio in politica, cercherei con la parola suadente di correggere le opinioni e i principi errati e non mi lascerei influenzare dalle sue convinzioni.

Anche se da parte del «lui» ci fosse una costrizione a farmi votare per il suo partito, con la forza propria di chi possiede e sa di possedere la verità, valendomi della segretezza e della libertà del voto, non esiterei a proclamargli che voterei per il partito che si armonizza con la mia opinione.

Irene D’Amato – Matera

Con lui, se fossi in politica di parere contrario, mi comporterò in modo da fargli comprendere come sia esatta la mia visione, e cercherò, con ogni probabilità di riuscita, di portarlo sulla mia via. Questo perché si tratta dimio marito, ed io non posso pensare che egli, che forma con me una cosa sola, abbia ad avere opinioni e convinzioni contrarie alle mie, anche e soprattutto perché, per me, la politica è strettamente connessa alla religione e sotto molti aspetti è da essa dipendente, ed io, sia nell’una che nell’altra, non potrei non vivere all’unisono con lui.

Il 1946 di… (Quelle che seguono sono le testimonianze di alcune note scrittrici a proposito della loro prima esperienza di voto, pubblicate su Mercurio, mensile di politica, lettere, arte e scienze, n. 27-28, novembre-dicembre 1946 e ora in Italia 1946: le donne al voto, cit.)

Alba De Céspedes

Né posso passare sotto silenzio il giorno che chiuse una lunga e difficile avventura, e cioè il giorno delle elezioni. Era quella un’avventura cominciata molti anni fa, prima dell’armistizio, del 25 luglio, il giorno – avevo poco più di vent’anni – in cui vennero a prendermi per condurmi in prigione. Ero accusata di aver detto liberamente quel che pensavo. Da allora fu come se un’altra persona abitasse in me, segreta, muta, nascosta, alla quale non era neppure permesso di respirare. È stata sì, un’avventura umiliante e penosa. Ma su quel segno in croce sulla scheda mi pareva di aver disegnato uno di quei fregi che sostituiscono la parola fine. Uscii, poi, liberata e giovane, come quando ci si sente i capelli ben ravviati sulla fronte.

Maria Bellonci

Anche per me, come per tutti gli scrittori, e come per tutti quelli che sono avvezzi a mettere continuamente se stessi al paragone delle cose, gli avvenimenti più importanti di quest’anno 1946 sono fatti interiori; ma è un fatto interiore – e come – quello del 2 giugno quando di sera, in una cabina di legno povero e con in mano un lapis e due schede, mi trovai all’improvviso di fronte a me, cittadino.

Confesso che mi mancò il cuore e mi venne l’impulso di fuggire. Non che non avessi un’idea sicura, anzi; ma mi parvero da rivedere tutte le ragioni che mi avevano portato a quest’idea, alla quale mi pareva quasi di non aver diritto perché non abbastanza ragionata, coscienziosa, pura. Mi parve di essere solo in quel momento immessa in una corrente limpida di verità; e il gesto che stavo per fare, e che avrebbe avuto una conseguenza diretta mi sgomentava. Fu un momento di smarrimento: lo risolsi accettandolo, riconoscendolo; e la mia idea ritornò mia, come rassicurandomi.

Anna Banti

Quanto al ’46 e a quel che di “importante” per me, ci ho visto e ci ho sentito, dove mai ravvisarlo se non in quel due giugno che, nella cabina di votazione, avevo il cuore in gola e avevo paura di sbagliarmi fra il segno della repubblica e quello della monarchia? Forse solo le donne possono capirmi: e gli analfabeti.

Era un giorno bellissimo, si votava in vista di un giardino dove i bambini giocavano fra i grandi che, calmi e sorridenti, aspettavano, senza impazienza, di entrare. Una riunione civilissima; e gli elettori eran tutti di campagna, mezzadri e manovali. Quando i presentimenti neri mi opprimono, penso a quel giorno e spero.

Il ricordo di Teresa Noce

(T. Noce, Rivoluzionaria professionale, Milano, La Pietra, 1975)

Le elezioni per l’Assemblea Costituente furono le prime elezioni politiche democratiche dopo la Liberazione.

Votarono anche le donne, a cui era stato finalmente concesso il diritto di voto. Dopo la loro partecipazione alle lotte contro il fascismo e alla guerra partigiana, sarebbe stato difficile continuare a negare loro il diritto di voto. Anche il grande numero di condannate dal Tribunale Speciale durante il ventennio nero, quasi tutte comuniste, aveva contribuito a dimostrare la maturità politica delle donne. Nel nostro partito, però, come in altri del CLN, non vi era stato un completo accordo.

Si diceva che, data l’arretratezza persistente tra le grandi masse femminili, specialmente in quelle delle campagne e del Meridione, ancora in prevalenza dominate dalla Chiesa, avremmo portato solo milioni di voti alla Democrazia Cristiana.

Ma prevalse, giustamente, la tesi che il voto era una conquista di libertà civile e democratica per le donne e che, nell’esercizio del voto, anche le masse più arretrate potevano sperimentare la loro educazione politica. […]

Il Partito decise di presentare donne come candidate in quasi tutte le circoscrizioni. Vennero scelte, naturalmente, le donne che erano più popolari, che avevano più lavorato nella Resistenza, che si erano più sacrificate. […] Fui designata capolista nelle due circoscrizioni di Modena-Reggio e di Parma-Piacenza.

La campagna elettorale fu una faticaccia. Parlai dappertutto con la mia solita foga fino a perdere completamente la voce. […]

Le elezioni per l’Assemblea Costituente furono un grande successo per il nostro partito. Io venni eletta in tutte e due le circoscrizioni con decine di migliaia di voti di preferenza. Ricordo che le compagne di Modenasostenevano che persino alcune suore avevano votato per me. Risultava infatti che, in una sezione elettorale dove avevano votato molte suore, il numero dei voti di preferenza da me ottenuti superava quello degli iscritti “civili” alla sezione. Dissi che forse le suore avevano votato per santa Teresa.

Le donne elette all’Assemblea Costituente

(da Donne e Costituente, a cura di Marina Addis Saba, Mimma De Leo e Fiorenza Taricone, Roma, Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna, 1996, ora in Italia 1946: le donne al voto, cit.)

Il 2 giugno 1946, su 556 membri totali vennero elette 21 donne all’Assemblea Costituente. La DC, che aveva ottenuto il 35,2% dei voti e 207 costituenti, aveva fra i suoi rappresentanti 9 donne. Il PSIUP aveva il 20,7%, 115 seggi e 2 donne. Il PCI ottenne il 19% dei consensi, 104 costituenti e fra di essi 9 donne. 40 seggi andarono a vari gruppi moderati, 30 seggi al Partito dell’Uomo Qualunque, di cui uno assegnato a una donna. 23 seggi furono assegnati ai repubblicani e 7 al Partito d’Azione: fra le loro fila nessuna donna.

Democrazia Cristiana

1. Laura Bianchini – Castenedolo (Brescia), 23 agosto 1903 (43 anni)

Laureata in filosofia, insegnante e pubblicista. Partigiana, membro del comando «Fiamma Verde», incaricata dell’assistenza presso il Comando generale del Corpo dei volontari della libertà. Membro del Consiglio nazionale della DC, responsabile per i Gruppi femminili. Eletta deputato alla Costituente nel VI Collegio elettorale di Brescia.

2. Elisabetta Conci – Trento, 23 marzo 1895 (51 anni)

Laureata in lettere, professoressa. Delegata provinciale per il Movimento femminile della DC. Eletta deputato alla Costituente nell’VIII Collegio elettorale di Trento.

3. Filomena Delli Castelli – Città S. Angelo (Pescara), 28 settembre 1916 (30 anni)

Laureata in lettere, insegnante di scuola media. Attivista della DC. Incaricata regionale del partito per i gruppi femminili. Eletta deputato alla Costituente nel XXI Collegio elettorale dell’Aquila.

4. Maria De Unterrichter Jervolino – Ossana (Trento), 20 agosto 1902 (44 anni)

Laureata in lettere. Presidente delle universitarie cattoliche; dal 30 aprile 1946, membro della Direzione centrale della DC. Eletta deputato alla Costituente nel Collegio unico nazionale.

5. Maria Federici Agamben – l’Aquila, 19 settembre 1899 (47 anni)

Professoressa di lettere. Dopo l’8 settembre 1943 impegnata nella lotta clandestina a Roma. Delegata nazionale delle ACLI e presidente nazionale del CIF. Eletta deputato alla Costituente nel Collegio unico nazionale.

6. Angela Gotelli – Albareto (Parma), 28 febbraio 1905 (41 anni)

Laureata in lettere, insegnante di scuola media. Impegnata nell’azione clandestina, nelle fila della Resistenza nel Parmense. Eletta deputato alla Costituente nel III Collegio elettorale di Genova.

7. Angela Maria Guidi Cingolani – Roma, 31 ottobre 1896 (50 anni)

Laureata in letterature slave. Membro della Consulta nazionale in rappresentanza della DC. Eletta deputato alla Costituente nel XX Collegio elettorale di Roma.

8. Maria Nicotra Fiorini – Catania, 6 luglio 1913 (33 anni)

Casalinga. Presidente diocesana della Gioventù femminile di Azione Cattolica dal 1940 al 1948. Eletta deputato alla Costituente nel XXIX Collegio elettorale di Catania.

9. Vittoria Titomanlio – Barletta (Bari), 29 aprile 1899 (47 anni)

Insegnante, proveniente dalle fila dell’Azione Cattolica. Eletta deputato alla Costituente nel XXIII Collegio di Napoli

Partito Socialista

10. Bianca Bianchi – Vicchio (Firenze), 31 luglio 1914 (32 anni)

Laureata in pedagogia e filosofia, insegnante. Partigiana, impegnata nella lotta clandestina. Eletta deputato alla Costituente nel XV Collegio elettorale di Firenze.

11. Angelina Livia Merlin– Pozzonovo (Padova), 15 ottobre 1881 (65 anni)

Professoressa di scuola media (durante il regime fascista, si era rifiutata di prestare giuramento quale insegnante). Eletta deputato alla Costituente nel VI Collegio unico nazionale.

Partito Comunista

12. Adele Bei – Cantiano (Pesaro), 4 maggio 1904 (42 anni)

Operaia e organizzatrice sindacale. Per la sua attività comunista, condannata a diciotto anni di carcere. Liberata il 20 agosto 1943, dopo l’8 settembre attiva nella lotta clandestina, per cui avrebbe avuto il riconoscimento di partigiana combattente. Eletta deputato alla Costituente nel XVIII Collegio elettorale di Ancona.

13. Nadia Gallico Spano – Tunisi, 2 giugno 1906 (40 anni)

Aderente al PCI dal 1937, condannata in Francia dal Tribunale speciale del regime di Pétain insieme al marito, impegnata nell’attività clandestina. Rientrata in Italia nel 1944, era stata nominata responsabile dell’attività femminile del partito per il Meridione, assumendo la direzione di Noi Donne. Eletta deputato alla Costituente nel XX Collegio elettorale di Roma.

14. Leonilde (Nilde) Iotti – Reggio Emilia, 10 aprile 1920 (26 anni)

Laureata in lettere, professoressa, promotrice durante la Resistenza dei Gruppi di difesa della donna. Eletta deputato alla Costituente nel XIV Collegio elettorale di Parma.

15. Teresa Mattei – Genova, 1° febbraio 1921 (25 anni)

Laureata in filosofia. Antifascista, entrata nel PCI nel 1943, impegnata nella lotta clandestina. Tra le promotrici dei GDD a Firenze e tra le prime iscritte all’UDI. Eletta deputato alla Costituente nel XV Collegio elettorale di Firenze.

16. Angiola Minella Molinari – Savona, 3 febbraio 1920 (26 anni)

Laureata in lettere, insegnante, infermiera durante la guerra. Partecipe della lotta clandestina, prima con i gruppi badogliani del Piemonte, poi nelle formazioni garibaldine della zona di Savona. Eletta deputato alla Costituente nel III Collegio elettorale di Genova.

17. Rita Montagnana Togliatti – Torino, 6 gennaio 1895 (51 anni)

Apprendista a 13 anni, iscritta al Gruppo femminile socialista «La Difesa» e nel 1921 passata al PCI, delegata a Mosca al Congresso internazionale comunista. Dal 1926 in esilio tra la Francia, la Spagna e l’Unione Sovietica; ritornata in Italia nel 1944, tra le Fondatrici dell’UDI e membro della direzione del PCI. Designata alla Consulta nazionale. Eletta deputato alla Costituente nel XIII Collegio elettorale di Bologna.

18. Teresa Noce Longo – Torino, 29 luglio 1900 (46 anni)

Operaia, iscritta nel 1921 al PCI, in esilio dal 1926 dapprima a Mosca, poi in Francia e in Svizzera; combattente nella guerra di Spagna. Arrestata in Francia in quanto impegnata nella lotta partigiana, deportata in Germania e liberata il 5 maggio 1945. Membro del Comitato centrale e della Direzione del PCI, designata alla Consulta nazionale. Eletta deputato alla Costituente nel XIV Collegio elettorale di Parma.

19. Elettra Pollastrini – Rieti, 15 luglio 1908 (38 anni)

Operaia, nel 1924 emigrata in Francia. Nel 1930 impegnata nella Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà e nel 1933 delegata al Congresso mondiale di Parigi. Nel 1941 rientrata in Italia, nel 1943 arrestata dalla polizia tedesca e condannata a tre anni in Germania. Designata alla Consulta nazionale. Eletta deputato alla Costituente nel XIX Collegio elettorale di Perugia.

20. Maria Maddalena Rossi – Codevilla (Pavia), 29 settembre 1906 (40 anni)

Laureata in chimica. Eletta deputato alla Costituente nel IX Collegio elettorale di Verona.

21. Ottavia Penna Buscemi – Caltagirone (Catania), 12 aprile 1907 (39 anni)

Casalinga. Eletta deputato alla Costituente nel XXIX Collegio elettorale di Catania.