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In molti furono impegnati nell'antifascismo: intellettuali, politici, professionisti, gente comune

Gli eroici partigiani ebrei nella Resistenza Italiana

Molti di loro, catturati dai fascisti, finirono nei campi di sterminio, ma tanti altri caddero combattendo contro il mostro nazista, il che attesta che essi non furono soltanto vittime passive di quel regime razzista e liberticida

di G. Marco Cavallarin

a proposito di un convegno organizzato a Roma nel gennaio 2008

Questa è una storia che siamo in pochi a conoscere. La catastrofica dimensione e l’immenso dolore della Shoah hanno lasciato in secondo ordine l’eroico impegno degli ebrei nella lotta contro il fascismo e il nazismo in Italia. Solo adesso cominciano i primi studi sistematici sulla partecipazione degli ebrei alla Resistenza. Nel Convegno che su questo tema si è svolto lo scorso gennaio 2008 a Roma, organizzato dal Centro bibliografico dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, si è potuto intendere quanto frammentario sia lo stato degli studi e della ricerca in proposito: moltissime appassionanti storie individuali, tanti documenti conservati presso il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, ma non ancora un quadro complessivo del fenomeno, e alcune storie ancora inaccessibili perché nascoste nei ben serrati armadi degli archivi militari romani.

Furono molti gli ebrei italiani impegnati nell’antifascismo: intellettuali, professionisti, politici, gente del popolo che subito individuarono nel fascismo il soffocamento della libertà e il progetto razzista. Il loro impegno fu di militanza politica e di opposizione personale. Da loro venne un importante contributo alla formazione iniziale del movimento resistenziale, a partire dai fratelli Rosselli, o alla redazione del Manifesto di Ventotene, su cui poggiano le basi teoriche della costituzione dell’Unità Europea.

La loro resistenza, attiva o passiva che fosse, ebbe un alto costo: Treves, Modigliani, Mondolfo, Levi, Limentani, Rosselli, Colorni, Curiel, Della Seta, Foà, Artom, e tanti, tanti altri, sono nomi che risuonano familiari a chi si occupa della persecuzione, dell’esilio, del confino, della morte di quanti combatterono per la libertà.

Dopo le leggi naziste antisemite di Norimberga del 1933, nel 1934 l’ambiguità del fascismo nei riguardi degli ebrei si trasformò in una ben organizzata campagna antisemita: articoli, libri, volantini, pubblicazioni di ogni genere volevano diffondere nell’opinione pubblica il disprezzo per gli ebrei. Agli argomenti soliti dell’antisemitismo, si aggiunse l’accusa che gli ebrei erano, per di più, antifascisti. Le squadracce nere si dedicarono a commettere atti di violenza contro i luoghi di culto ebraici e le proprietà individuali.

La legislazione razziale italiana del 1938-39 coronò le premesse: definì gli ebrei una “razza”, privandoli dei più elementari diritti civili in materia scolastica, matrimoniale, patrimoniale, nell’esercizio delle professioni, nel servizio militare e in molti altri campi. Fu poi un succedersi di altre vessazioni: divieti di frequentare luoghi di villeggiatura considerati di lusso, di fare inserzioni sui giornali, di possedere la radio, di pubblicare libri, di tenere conferenze, di essere compresi nell’elenco del telefono. L’ultima disposizione relativa agli “appartenenti alla razza ebraica” fu, prima della caduta del fascismo, quella del 6 maggio 1942, che sancì per essi il lavoro forzato obbligatorio.

In seguito alle leggi di Norimberga, moltissimi profughi ebrei, provenienti dalla Germania e dalle altre nazioni che man mano cadevano sotto il suo giogo, cercarono rifugio altrove: l’Italia fu uno dei Paesi cui essi si rivolsero come luogo di transito. Ma non tutti riuscirono ad ottenere i documenti per emigrare prima che le leggi del 1938 li confinassero nei luoghi di internamento, e dopo l’8 settembre del ’43 essi divennero le vittime più indifese della ferocia nazi-fascista. Dei circa 10.000 di essi, almeno 1.915 ebrei stranieri furono deportati dall’Italia e solo 450 fecero ritorno dai campi di sterminio. Se questo bilancio non fu ancora più spaventoso lo si deve alla umanità degli italiani che si prodigarono per salvarli, e ad un’efficiente rete di assistenza e di soccorso organizzata tra il 1938 e il 1943 dagli ebrei italiani.

La Repubblica Sociale Italiana, in linea con le direttive del padrone nazista, esasperò l’azione antisemita dichiarando gli ebrei “nazionalità nemica” (punto 7 del Manifesto di Verona), creando l’Ispettorato Generale della Razza diretto da Giovanni Preziosi e procedendo con sempre maggiore sadismo sulla via della discriminazione razziale. In quell’epoca cupa delatori e aguzzini fascisti collaborarono alla cattura e all’assassinio di ebrei in molte parti d’Italia, proprio mentre le truppe di occupazione tedesche pianificavano la “soluzione finale” del problema ebraico anche in Italia. Bosshammer, alle dirette dipendenze di Eichmann, organizzò la deportazione degli ebrei dal nostro Paese e gli assassinii del lago Maggiore, di Ferrara, delle Fosse Ardeatine, di Gubbio, di Pisa,di Rignano sull’Arno, di Forlì, di Cuneo: in quegli eccidi furono trucidati 163 ebrei italiani e stranieri. In ogni zona dell’Italia occupata ebbero luogo sistematici arresti di ebrei. Essi venivano rinchiusi dapprima nelle carceri locali, poi avviati nei campi d’internamento aperti in diverse zone del Paese (per la loro posizione geografica i più importanti furono quello di Fossoli di Carpi, e quello di Bolzano, mentre a Trieste nella risiera di san Sabba fu organizzato dal comando dell’Adriatisches Künsteland un campo di sterminio ove funzionò anche un forno crematorio), quindi trasportati in Polonia.

Con l’8 settembre divenne indispensabile per gli ebrei trasformare l’opera di assistenza in autodifesa, e fu grazie alla collaborazione con le forze della Resistenza e alla solidarietà dei cittadini che le varie organizzazioni ebraiche riuscirono a far pervenire i loro aiuti a molti perseguitati.

La decisione di molti ebrei di entrare nella Resistenza fu semplice e immediata. Il 28enne Emanuele Artom il 9 settembre del ’43 scriveva: “La radio tedesca annunzia che verranno a vendicare Mussolini. Così bisogna arruolarsi nelle forze dei partiti, e io mi sono già iscritto”. Il suo “arruolarsi nelle forze dei partiti” certifica il carattere unitario della Resistenza sin dagli inizi; l’“Io mi sono già iscritto” testimonia la prontezza e il desiderio di impegno civile che compare anche negli scritti di altri ebrei: Carlo Rosselli, subito dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, aveva scritto a Piero Gobetti: “E’ venuta l’ora per tutti di assumere il proprio posto di battaglia in seno ai partiti”. Tali decisioni discendevano anche dalla memoria della partecipazione politica e militare degli ebrei al Risorgimento italiano e alla Grande Guerra. All’indomani dell’armistizio molti ebrei raggiunsero le formazioni partigiane, ben consapevoli che al rischio comune della lotta clandestina per loro si aggiungeva quello tremendo di appartenere alla “razza ebraica”.

Essi militarono in ogni componente della Resistenza, come organizzatori e come combattenti. Gli ebrei resistenti aderirono prevalentemente al Partito d’Azione e a quello Comunista, cioè alle formazioni partigiane denominate “Giustizia e Libertà” e “Garibaldi”. Mentre nel partigianato complessivo italiano c’è una maggiore presenza di garibaldini, tra gli ebrei c’è sostanziale parità di adesioni ai Garibaldini e a GL.

Se nella maggior parte dei casi si trattò di gente comune che scelse la via della Resistenza per ragioni condivise con ogni altro antinazifascismo, per alcuni di essi anche la profonda consapevolezza culturale del proprio ebraismo è stata determinante. E’ il caso di Artom, autore dei Diari appena ripubblicati da Bollati Boringhieri, catturato dai fascisti e torturato fino alla morte nelle carceri di Torino, o di Enzo Sereni che, ritornato in Italia dalla Palestina per entrare nelle file della Resistenza, viene catturato e deportato a Dachau, dove troverà la morte.

Più di 700 furono i partigiani combattenti ebrei in Piemonte. Molti di essi caddero in combattimento o furono massacrati dai nazifascisti. Non da meno avvenne in Lombardia, e in tutte le regioni d’Italia ebrei parteciparono alla lotta partigiana: dalle 4 giornate di Napoli, ai Castelli Romani, ai coraggiosi che si prodigarono ovunque. Anche molte donne ebree presero parte alla lotta, sia protagoniste di azioni spericolate, sia silenziose collaboratrici dello sforzo comune: Liana Millu, genovese, deportata a Dachau, divenuta poi dirigente dell’ANPI e dell’ANED; Silvia Elfer, uccisa in Lazio, partigiana della banda di Pino Levi Cavaglione, genovese, che operò nei Castelli Romani; e parecchie altre.

Si stima che in Italia essi siano stati circa 2.000, molti di essi già combattenti partigiani nella guerra di Spagna, e le ricerche in corso, ancora parziali, ne hanno censiti già un migliaio. Cifre enormi se rapportate alla totalità degli ebrei italiani rimasti, in un modo o nell’altro, sul suolo patrio (sfuggiti alla deportazione e alle stragi, rifugiati in nascondigli, non rifugiati all’estero). Tra il 1943 e il 1945 molti giovani ebrei che avevano cercato scampo all’estero, fecero ritorno in Italia per prendere parte alla lotta di Liberazione collaborando sia con le formazioni partigiane sia con le forze armate alleate. I contatti si svilupparono anche attraverso le Alpi, in Svizzera con i rappresentanti del Governo Bonomi, con i servizi segreti alleati, con i soldati della Brigata Ebraica Palestinese in seno all’VIII Armata.

Come a Varsavia, in altri ghetti polacchi, in Francia, o in Lituania, dove la popolazione ebraica era assai più numerosa , o in Grecia, anche in Italia, dove pur era maggiore l’integrazione degli ebrei nella società, la partecipazione ebraica alla lotta fu una tangibile realtà. Moltissimi di loro caddero, giovani e anziani, partecipi del destino comune dei combattenti per la libertà. Per i loro eroici comportamenti tanti partigiani ebrei della Resistenza ottennero riconoscimenti ufficiali. Oltre alle centinaia di medaglie d’argento, di bronzo, e croci di guerra, sette sono le medaglie d’oro. Accanto alle figure a tutti note di Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Mario Jacchia, furono insigniti della più alta onorificenza Ildo Vivanti, giovane partigiano della Val Gesso, Eugenio Calò, che assommò in sé tutta la tragedia e l’impegno di quel tempo, Sergio Forti, e una donna, Rita Rosani, la giovane maestra triestina che a 21 anni cadde in combattimento a Monte Comun in provincia di Verona.

Ma molti altri ancora come Marcello Cantoni, medico dell’89a Brigata Garibaldi operante sulla Grigna, o il giovane Giorgio Latis che, dopo l’arresto dei genitori e della sorella alla frontiera italo-svizzera, divenuto partigiano, il 25 febbraio 1944 fu arrestato e rinchiuso a San Vittore dove non venne però riconosciuto come ebreo. Con un geniale espediente riuscì ad evadere e a fuggire in Piemonte dove riprese a combattere. Fu ucciso dai fascisti la sera del 27 aprile 1945 mentre rientrava a Torino dopo aver portato alle formazioni partigiane in collina l’ordine di entrare in città. Fu tra gli ultimi caduti della Resistenza.

Quelli catturati come partigiani, e poi riconosciuti ebrei, venivano avviati ad Auschwitz, come fu per Vanda Maestro, Primo Levi, Luciana Nissim, un Bachi, Enzo Sereni, … Una testimonianza terribile di quello che è stato ce l’ha data Primo Levi, uno dei pochissimi che hanno fatto ritorno da quell’inferno.

Nella Resistenza ebrei ebbero alti incarichi negli organismi dirigenti locali e nazionali: Leo Valiani, azionista di origine ucraina, e Emilio Sereni, comunista, furono l’uno il primo membro effettivo e l’altro il primo membro supplente del Comitato esecutivo insurrezionale incaricato dal CLNAI nel marzo del ‘45 di sovrintendere alla fase finale dell’insurrezione, quella della Liberazione vera e propria. Il comunista Umberto Terracini fu segretario della Giunta Provvisoria di Governo costituita nell’Ossola libera nell’autunno del ’44, e successivamente eletto nell’Assemblea Costituente della quale fu uno dei vice presidenti e, dal febbraio 1947, il presidente.

La Resistenza restituì dignità e libertà all’Italia e, raccogliendo sin dagli inizi dirigenti politici e combattenti ebrei, riassegnò loro la qualifica di italiani e diede nuova vita al concetto di appartenenza alla storia patria.

In questo modo si ristabilì il suggello degli ebrei con la propria patria, che il fascismo aveva troncato nel 1938 rinnegando la storia nazionale unitaria sviluppatasi a partire dal processo risorgimentale. Come nella rivolta del ghetto di Varsavia, nell’impegno militare con gli alleati nella Jewish Brigade, nel doloroso intellettuale resistere all’annientamento nel campo di Terezin, anche nella Resistenza italiana gli ebrei furono protagonisti di un ruolo attivo.

Da diversi anni mi occupo di questo argomento, ricerco i partigiani ebrei, li intervisto, schedo e raccolgo i loro dati, cerco di restituire organicità al fenomeno, lavoro alla scrittura di una sceneggiatura per la produzione di un film documentario che, primo nella storia della cinematografia italiana, vorrebbe mostrare un’immagine diversa da quella stereotipata secondo la quale gli ebrei subiscono passivamente l’annientamento, il pogrom, l’oltraggio. La ricerca che ho in corso e il progetto del film godono già del patrocinio dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ma non ancora della fortuna di aver trovato un finanziamento congruo.

(G. Marco Cavallarin)