GL cuneesi: la pianurizzazione

QUADERNI

della

F.I.A.P.

n.7

Franca Asteggiano

Premessa di

Sergio Pettinati

GL cuneesi: la pianurizzazione

© I Quaderni della FIAP

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Quaderni della FIAP, n.7,

GL cuneesi: la pianurizzazione

Franca Asteggiano

Premessa di

Sergio Pettinati

Da qualche tempo assistiamo, con piacere, al rifiorire di studi sulle vicende storiche che vanno comunemente sotto il nome di Resistenza: a volte sono opere di protagonisti superstiti dove, almeno in qualche caso, le passioni, non ancora sopite a tanti anni da quel tempo, si fanno fin troppo sentire sì da darci dei fatti e degli avvenimenti, una versione, non dico addomesticata, ma, certo in piena buona fede, «illuminata» dalle idee e dai convincimenti politico-sociali di chi scrive.

Si tratta di pubblicazioni di alto interesse, specie per chi ha vissuto quei giorni, ed ha conosciuto per diretta esperienza la complessità e le varietà delle situazioni, logicamente diverse ma pur con un fondo comune, da regione a regione, da valle a valle. Spesso vi si trovano peccati di personalismo, ma, forse proprio per questo motivo, queste opere ci riportano all’atmosfera di allora, ci fanno rivivere le passioni che ci agitavano e ci mettono nuovamente di fronte alle dure situazioni, agli spietati dilemmi che, non poche volte, nell’immaturità dei nostri vent’anni, abbiamo dovuto affrontare, e, in qualche modo, risolvere, quasi per una verifica tra noi stessi. In altri casi si tratta di opere di giovani di oggi, che, logicamente, non hanno della Resistenza una conoscenza diretta, ma, avvicinatisi ai suoi accadimenti spesso sotto la guida di docenti di storia contemporanea, a poco a poco si innamorano del tema affrontato e lo studiano a fondo, nei suoi diversi aspetti, da documenti e testimonianze, una loro interpretazione, meditata e ragionata, degli eventi che hanno studiato: questi tentativi, pur sempre lodevoli, possono riuscire o meno a seconda dell’acume e della capacità di giudizio del ricercatore: possiamo cioè trovarci di fronte ad un’interpretazione di un avvenimento, di un episodio, di un personaggio e del suo comportamento in tutta la guerra partigiana o in qualche suo particolare momento, che è del tutto fasulla: questo perché il giovane studioso ha affrontato l’argomento con una visione già preconcetta delle cose ed ha cercato solo, per le sue convinzioni pezze di appoggio nella documentazione d’archivio; oppure, per incapacità analitica, non ha saputo trarre dai documenti consultati l’essenza della verità.

In questo ultimo caso si può comprendere pensando alla inesperienza dell’autore; non lo si può accettare invece quando il giovane ricercatore, per una sua intima presunzione, si comporta in modo da deformare, secondo la sua personale convinzione, la realtà dei fatti: purtroppo vi sono stati non pochi casi del genere, estremamente dannosi sia perché possono suscitare proteste, dissensi e malintesi fra gli uomini della Resistenza, (e dobbiamo, per la verità, riconoscere che a qualcuno di loro bisogna far risalire la responsabilità di aver fatto prendere ai giovani studiosi un indirizzo del tutto sbagliato), sia perché danno al lettore disinformato una visione distorta, talora del tutto falsa, di quel che descrivono nel loro lavoro.

Talvolta il risultato è felice: ci accorgiamo che l’indagine ha saputo orientarsi bene fra le testimonianze ed i documenti, (povera documentazione partigiana, scarsa, lacunosa, non di rado del tutto mancante per lunghi e cruciali periodi, e ciò per logici motivi di clandestinità, di volute distruzioni di documenti in vista di perquisizioni, di rastrellamenti, quando invece non era del tutto l’archivio di una formazione che finiva in un crepaccio o nel rogo di una baita incendiata dai nazi-fascisti...), ha saputo sceverare bene il vero dal meno vero e dal falso, studiare a fondo caratteri e situazioni, ricercare i motivi che stavano alla base di certe decisioni e di certe prese di posizione, analizzare i rapporti, umani, sociali e ambientali, che, in determinate circostanze, nelle diverse zone, hanno condizionato l’evoluzione della lotta, il suo successo o la sua sconfitta.

Oggi poi sempre più spesso l’interesse del ricercatore va ben oltre al puro resoconto delle vicende militari della Resistenza, che viene studiato sempre di più sotto il profilo politico-sociale che, in fondo, è stato quello più importante, quello veramente determinante e caratteristico della guerra di Liberazione quando, per la prima volta, le grandi masse popolari, rimaste pressoché completamente estranee alle vicende risorgimentali, sono entrate da protagoniste nella storia del nostro Paese, e lo hanno fatto volontariamente, uniti tutti, uomini e donne, vecchi e giovani, da un minimo comune denominatore, l’odio per il fascismo e per tutto quello che il fascismo rappresentava, ignoranza, corruzione, provincialismo, prepotenza, stupidità, persecuzioni, guerra, sangue e miseria.

E questo è proprio il caso dello studio di Franca Asteggiano: la III Divisione «G. L.» è stata una formazione partigiana come tante altre, ha pagato anch’essa, come tutte, il suo tributo di morti, di feriti e di torturati, ha sopportato i suoi rastrellamenti, ha avuto i suoi momenti di gloria e quelli di depressione, senza mai giungere, come è successo invece ad altre formazioni, anche più grosse ed importanti, allo sbandamento dei suoi reparti, che hanno saputo mantenersi sempre saldamente uniti fino al 25 Aprile, quando presero parte alla liberazione di Torino e, anzi, i suoi elementi furono forse i primi a congiungersi con le formazioni cittadine che stavano iniziando l’insurrezione aperta, dando a queste ultime la certezza che le forze partigiane delle montagne e delle colline stavano arrivando.

Ma se tutto questo non va dimenticato, come titolo d’onore per chi ha militato tra le file di questa Divisione, l’aspetto particolare preso in esame dalla Autrice, è certamente, dal punto di vista storico, di interesse assai maggiore: come si sono integrate, nel tessuto sociale delle Langhe, le bande partigiane di «Giustizia e Libertà», scese dalle vallate del Cuneese occidentale, dopo un anno di dura guerriglia sui monti? Quale è stata la loro funzione, soprattutto in senso politico-sociale, quali gli obiettivi di questa «colonizzazione» G. L. in Langa, quali i riflessi locali della presenza Giellista, quale l’atteggiamento della popolazione langarola e delle altre numerose, importanti ed agguerrite formazioni partigiane, garibaldine ed autonome, preesistenti nella zona? Questi gli interrogativi che l’Autrice pone alla base della sua ricerca ed ai quali, con l’intelligente perspicacia, dà risposte che mi sento di sottoscrivere pienamente: e invero posso dirlo con una certa cognizione di causa, perché sono stato tra coloro che più direttamente ed immediatamente, per l’incarico che svolgevo, - quello di Commissario della Divisione - hanno dovuto interessarsi proprio a questo aspetto della vita partigiana, all'integrazione dei nostri uomini nel contesto langarolo, in un ambiente sociale profondamente diverso da quello in cui la massima parte di loro, studenti, operai e montanari, avevano vissuto prima della lotta di liberazione e durante il primo anno di vita partigiana. Il mio compito è stato, sia pure paradossalmente, facilitato dall’essere io un nuovo venuto in questa formazione: la mia esperienza di resistente l’avevo vissuta prima nelle colline dell’Alto Alessandrino, simili alle Langhe per conformazione fisica, ma alquanto diverse per la composizione sociale dei loro abitanti, dove cioè la percentuale di mezzadri, di contadini operai, strati sociali in cui i movimenti di sinistra avevano da tempo profondamente inciso, era essa più elevata che non nelle Langhe, terre di prevalente piccola proprietà contadina, di famiglie chiuse nella egoistica difesa dei «beni», con una forte rappresentanza di commercianti e professionisti borghigiani, anch’essi certo ben poco aperti né facilmente disposti ad idee progressiste.

Ero poi passato, in città, nella cospirazione clandestina, trovandomi a «lavorare» in ambiente studentesco ed operaio, dove la Resistenza non si presentava certo solo come opposizione armata all’invasore, ma aveva un significato più profondo, per un più giusto ed avanzato ordinamento sociale.

Mi trovai poi proprio in mezzo ai problemi messi a fuoco dall’Autrice e devo riconoscere che oggi, a distanza di tanti anni, rileggendo quanto ella ha scritto, mi rendo meglio conto di tante cose e così delle difficoltà che dovetti affrontare allora, ingigantite poi dalla mia poca esperienza (avevo ventitre anni), e rese tutte ancor più gravose dall’esigenza pressante di soluzioni rapide, rapidissime, per il continuo evolversi delle situazioni e degli avvenimenti.

Non voglio anticipare troppo al lettore -- e mi scuso per la apparente personalizzazione - quanto troverà nelle pagine dell’opera che si basa su una analisi critica, fondamentalmente esatta, del nostro operato e dell’ambiente in cui si è svolto: l’autrice ha seguito la strada più giusta, quella di valutare insieme documenti e testimonianze, traendo obbiettivamente da essi gli elementi più idonei per giungere ad un giudizio critico preciso e sereno.

Bisogna darle atto di aver saputo operare una giusta scelta e di aver dato valutazioni pienamente corrette e rispondenti alla realtà quale io, e con me altri compagni di allora, la ricordiamo nelle sue luci e nelle sue ombre.

Per concludere, cosa abbiamo ottenuto allora con la nostra azione in questo campo? Al momento un successo, forse più per le circostanze in cui ci siamo trovati ad operare (come ben riferisce l’Autrice), che non per nostro merito: in Langa i «G. L.» furono largamente apprezzati e ben voluti e le popolazioni dimostrarono in ogni occasione la loro stima nei nostri confronti, dandoci ogni appoggio possibile.

La nostra azione politica, in senso sociale, diede però nell’immediato dopoguerra risultati piuttosto scarsi: la Langa non divenne di colpo progressista per il nostro intervento, troppo profondamente radicati nella mentalità del langarolo erano i vecchi criteri, le vecchie norme che regolavano i rapporti famigliari e sociali cristallizzati da secoli.

La struttura del mondo langhigiano, su cui il ventennio fascista era passato lasciandola del tutto immutata anzi, direi, con il solo risultato di irrigidirla maggiormente, restò tale anche dopo la Resistenza e lo dimostrarono le prime elezioni del dopoguerra, i cui risultati furono però condizionati dalla violenta controffensiva di chi aveva temuto che le sue posizioni di, sia pure modesto, privilegio e potere, insite nella stessa struttura societaria langarola, crollassero davanti alle prospettive rivoluzionarie affacciate almeno da una parte degli attori della Resistenza.

Oggi invece avvertiamo che il seme da noi gettato allora non è andato del tutto perduto; sia pure lentamente, qualcosa si sta muovendo in un mondo che per secoli era rimasto immobile: i giovani contadini di quelle colline che, nelle file delle formazioni partigiane, erano venuti a contatto con studenti e operai, di loro socialmente assai più evoluti, non hanno dimenticato la lezione di allora. Diventati adulti, con la calma e la pazienza che è loro propria, hanno elaborate e maturate le lezioni di tanti anni addietro e si sono convinti della ristrettezza del loro cosmo e, con i loro figli, ne stanno uscendo.

Si è fatto di più, in Langa, in senso di evoluzione e di elevazione sociale, in questi ultimi venti anni che non dal Medioevo alla fine del fascismo. E non ultimo fattore a determinare questo progresso è stata proprio la Resistenza che, in questa zona, oltre alle spietate repressioni, alle stragi, alle devastazioni fasciste, ha saputo portare una volontà di progresso sociale in un mondo tutto chiuso nelle sue ben radicate usanze e nei suoi pregiudizi, e che oggi si sta invece aprendo ad una vita più umana, più libera, più progredita.

SERGIO PETTINATI