Ester Parri_ in ricordo di

IN RICORDO DI ESTER PARRI

QUADERNI

della

F.I.A.P.

n.38

Introduzione di Francesco Berti

Nota di

Lamberto Mercuri

In ricordo di

Ester Parri

© I Quaderni della FIAP

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Quaderni della FIAP, n.38

In ricordo di Ester Parri

Racconti

Introduzione di Francesco Berti

Nota di Lamberto Mercuri

Quaderno n.38

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Introduzione

Appartengo al numero di coloro per i quali Ester Parri è stata una scoperta assai tarda, maturata attraverso la conoscenza di «Maurizio», e aperta poi oltre che dall’incontro personale, dalla frequentazione dei suoi scritti cui la pubblicazione nulla toglieva di quella discrezione che è il loro carattere più sensibile. Coetaneo Parri di mio padre, io di suo figlio, il dato di «generazione» s’interponeva subito ingombrante nonostante ogni esorcismo. Ora che sono anche io nella parte di padre, e altri ventenni fanno e chiedono conti, ricordo bene il distacco liberatorio che noi ventenni d’allora provammo, nella stagione partigiana, dalle costellazioni della «generazione di Vittorio Veneto». E che rancori, un po’ vittimistici; che rifiuti insofferenti. Nulla serviva più, perché tutto cambiava (così ci dicevamo senza esitazione, traducendo già in realtà il pensiero che tutto «doveva» cambiare). Per chi ci era arrivato a vent’anni, l’antifascismo era l’epifania della libertà, l’inizio del nuovo mondo. Di che altro poteva esserci bisogno?

Gettati dunque i vecchi strumenti aspettavamo che le cose seguissero docili le nostre certezze native, lasciando lontanissimi ormai i padri e le madri tuttora legati a quel loro linguaggio dannunziano che il fascismo aveva reso insopportabile e volgare. Altri strumenti, altri linguaggi, altri valori ci attendevano.

Le cose, si sa, non furono docili. E furono ben presto le cose a dirci che il filo del valore non nasceva da noi, ma risaliva a unirci ai nostri padri-compagni, di là dalla futile divisoria anagrafica delle generazioni. I padri-compagni: per arrivare alla Resistenza, loro, non avevano dovuto rinnegarsi, né «rifondarsi», come ora si usa dire. La Resistenza era stato anzi il compimento d’un lungo itinerario. Loro erano già antifascisti, quando noi facevamo i balilla, o misuravamo il risveglio della ragione nelle prime fronde dei GUF. «Maurizio», il capo amato dei partigiani era anche, senza contraddizione, il volontario che era tornato dalla guerra 15-18 con tre medaglie d’argento. Tra quelle medaglie e la guerra partigiana, una lunga lotta, coerente, scontata nella persecuzione, condotta con tenacia fino all’incontro con noi ragazzi.

Tutto questo risorge nelle riflessioni di Ester Parri, figlia anch’essa del suo tempo, e stretta al marito in un sodalizio di vita non interrotto, esemplare. «Le donne: forza della nostra forza», ha scritto una volta Parri per una di queste compagne di resistenti che hanno vissuto l’esperienza di una straordinaria comunione spirituale lungo il cammino arduo della lotta clandestina, della resistenza e del «non mollare». Quella di Ester Parri era la forza interiore che si genera nell’animo quando sono chiare ed accettate le ragioni del vivere; non aveva bisogno di essere esibita o millantata. Chi ha conosciuto questa donna coraggiosa ricorda che il tratto dominante del suo viso era il sorriso degli occhi, cui si accompagnava un lampo d’ironia. Armata così, «con un sorriso in luogo di corazza» (come dice nella sua poesia «Tre Maurizi») doveva essere veramente invincibile; sempre salva «da capogiri e depressioni», senza «drammi psicologici» (come ancora lei ricorda in una testimonianza storica sulla liberazione di Parri); con quella capacità di dominio di sé che consente di vedersi dal di fuori, nel fluire di grandi eventi tuttavia partecipati con volontà appassionata.

Donna colta, che non aveva mai cessato di coltivarsi, Ester Parri aveva una felicità espressiva che le alimentava il «vizio segreto» di scrivere, per sé più spesso che non per altri. Ma non siamo di fronte ad uno dei tanti casi di innocente velleità letteraria. C’è, a darcene la prova più sicura, quella parte dei suoi scritti civili che più d’ogni altra correva il rischio di essere offuscata dai moduli letterari e dagli stilemi che Ester Parri pure aveva appresi nel formarsi della sua personalità culturale, durante gli anni della sua adolescenza, all’epoca estrema del mito del progresso e della felicità dell’uomo, prima del fatale ’14.

Per la sua generazione (torniamo a questo concetto senza timore, ma senza abbandonare le necessarie difese critiche) l’evento cruciale fu «la guerra di redenzione», come la retorica corrente chiamava quella che a noi pare piuttosto la «guerra borghese». Trieste, Trento, il nemico secolare, la Patria alata, i destini dell’Italia, l’eroismo come modello etico, l’esaltazione sfrenata del nazionalismo, infine il mito della Vittoria: era difficile resistere a queste idee che catturavano i giovani con l’offerta d’una visione del mondo appagante per le loro aspirazioni di potenza e di forza. Il fascismo vi trovò bell’è pronto l’humus ideale per il suo modello culturale che chiamò, non impropriamente, propaganda. Ma v’era chi riusciva a sottrarsi al sequestro della propaganda, e a conservare il senso riposto ed elementare di parole che la metamorfosi fascista condannava al disvalore. Noi non lo sapevamo, e lo apprendemmo solo dopo il ’45: ma c’era stato chi aveva rivendicato altamente l’onore del proprio paese riscattando e rilegittimando quelle parole consumate dalla retorica del regime. Nel 1927 Parri nella lettera al Giudice istruttore di Savona scriveva: «io, che nel 1915 ho inteso di combattere per la grandezza morale della patria e insieme per una idea augusta di libertà e di giustizia, io non potevo non sentire che l’esempio del Risorgimento ed il dovere del 1915 erano ancora il dovere di oggi». Dunque s’erano conservate caste e sacrosante, queste parole di patria, di nazione, di grandezza; e non avevano perduto il loro valore irriducibile; e potevano ancora comunicare, dall’animo e dalle labbra dei combattenti per la libertà e la giustizia, quella virtù e quella forza che sempre vi aveva attinto l’uomo.

Ebbene, Ester Parri dal dopoguerra a Savona, a Lipari, alla Milano percorsa dai nazisti, testimonia la sua fedeltà a quell’idea di patria libera, indipendente e giusta che doveva inesorabilmente separarla dai fascisti. E quando ricorda i giorni della guerra vissuti nella sua gioventù (si veda il bellissimo pezzo sui sessant’anni di Caporetto) trova spontaneo di riconoscersi fino a identificarsi nelle parole di un’altra grande combattente per la giustizia, Anna Kuliscioff che nei giorni più bui scriveva a Turati: «il vostro dovere di socialisti e di italiani è di combattere per la liberazione del proprio paese». Una consegna che sarebbe passata, immutata, ai partigiani di ventisette anni dopo.

Ester Parri aveva raccolto la severa austerità di questo dovere, e forse proprio per questo poteva esserle concesso il dono di scrivere con levità, malinconia ed indulgenza, tanti anni dopo, sulla vittoria e sulla «guerra di Vittorio Veneto» (si veda «I tre anelli»).

Le sue immagini, velate d’un affetto sorridente, hanno il potere di sopire la diffidenza che è restata nei nostri animi: allora, è proprio vero che questo valore elementare è arrivato in salvo fino a noi, attraverso «l’azione costante e forte» illuminata dallo spirito dell’agàpe delle donne e degli uomini che resistevano anche per noi, per restituirci il senso vero di essere liberi in una nazione libera. «Nazione»: come diversa, e piena di conforto e simpatia, suona questa parola che il fascismo aveva avvilita, e che il nazionalismo aveva reso detestabile, ora che la leggiamo attraverso gli occhiali di Ester Parri; ora che la ritroviamo nel documento splendente che Ferruccio Parri, vero giudice nel processo che lo vedeva incatenato a Savona, lanciava con dignitosa fierezza al giudice e a noi, per il tempo in cui saremmo tornati liberi.

Perché, nell’ampio spettro di titoli di Ester Parri che antologicamente presentiamo, perché mi soffermo con insistenza sugli scritti civili, sui suoi ricordi di un tempo che oggi ci sembra lontano armi-luce? Non è che non senta la sottile suggestione dei suoi racconti, delle filastrocche; e la semplicità incantevole delle lettere (ne ho una anch’io, che mi scrisse nel 1970 dopo aver letto le prime poesie d’un fanciullo, che era mio figlio; ma non mi è proprio possibile pubblicare un documento di così toccante intimità). Penso anche che una pubblicazione distesa di sue lettere aggiungerebbe una pagina importante ad un genere letterario che all’Italia ha dato epistolari gloriosi e famosi. E tuttavia, è la prosa civile di Ester Parri quella che più mi colpisce proprio perché offre la prova che una realtà distante ed ostile poteva esser capita nel suo divenire, quando tutto attorno invitava alla mistificazione della retorica. Ester Parri aveva capito, e i suoi ricordi fanno capire meglio anche noi. Leggendo le sue parole, sentiamo sciogliersi la contraddizione che ci è sembrata a lungo il carattere di un’epoca, dalla quale cominciavano invece a sdipanarsi proprio i fili che sarebbero giunti fino a noi.

Io credo che una cosa soprattutto abbia aiutato Ester Parri a capire e interpretare così bene un tempo difficile: oltre la sua alta coscienza morale, oltre le sue armi culturali, quella «pietà» che ricorre come una costante in tante sue poesie. È la pietà sul destino di sofferenza e finitezza dell’uomo, che apre il cuore alla comprensione di quelle ragioni que la raison ne connait pas.

La forza di Ester Parri è la forza stessa di questa profonda pietà umana, senza la quale non v’è autentica accettazione della vita, né sorge la speranza che sostiene l’uomo nel cammino verso la libertà.

E vorremmo comunicare ora con lo spirito di Ester Parri per ringraziarla di quello che ha vissuto e scritto, persosi sull’ultima poesia («Quando sarò morta») che lascia l’impressione sconsolata di una caduta di speranza: «poco posto avrà la pietà». Vorremmo dirle, alla cara signora Ester, che la pietà vive invece; che non la rifiutiamo; e che aiuta anche noi, suoi compagni.

Francesco Berti Arnoaldi

NOTA DI LAMBERTO MERCURI

Questi materiali che abbiamo raccolto e riordinato con pazienza e rispetto e forse non con la necessaria perizia, non sappiamo se riescono a restituirci interamente il personaggio che noi vogliamo riproporre a tanti amici, estimatori e compagni: Ester Parri, a qualche mese dalla sua dipartita. È naturale che scomparendo un protagonista, uno scrittore, un personaggio, un amico che è stato presente per un lungo periodo di tempo e che noi abbiamo amato porsi anche delle domande-bilancio.

Non crediamo, per cominciare, che la storia di lei si chiuda entro i limiti dei suoi scritti; forse la risposta è meno difficile di quanto si possa pensare, un altro capitolo meno riposto, più segreto riguarda, al di là delle prime apparenze, il suo impegno civile che dura, con alterne vicende, per circa sessanta anni. Oltre ad un mondo lontano che per suo mezzo tornerà a vivere.

Detto ciò, parliamo un momento di questi materiali e quale il criterio con cui abbiamo diviso la sua lunga esercitazione:

- Racconti.

- Poesie e filastrocche.

- Testimonianze.

- Ritratti.

- Consensi e dissensi.

- Recensioni.

- Lettere.

Non pensiamo di suggerire o indicare una chiave di lettura di questo accumulo di pagine (il lettore potrà fare da sé e meglio di noi) che sono ben dentro il doppio segno della fede e della cultura storica. Fede, perché fatalmente la sua apparizione al fianco del suo compagno di vita la segna per sempre, e poi se ripensiamo ai modi di partenza e alla qualità del lungo, ininterrotto itinerario, al patrimonio di speranze così gelosamente custodite e vissute, dall’interventismo democratico, all’antifascismo, alla Resistenza (nei suoi momenti più cupi e disperati, per giungere poi al regno delle delusioni e degli abbandoni degli anni del post-fascismo, questa testimonianza non può non dirsi sorretta dalla consapevolezza di far storia. Non sappiamo se oggi esistono rifugi che potrebbero, male o bene, consolare le nostre inadempienze e la indifferenza che ci sovrasta ma è certo che dovremmo rifare i conti non solo con la generazione cui appartengo ma anche con altre che abbiamo attraversato senza un grande costrutto. Non è nostra intenzione condurre un discorso per generazioni (certo non è che sarebbe privo di interesse e, Francesco Berti le accenna assai significativamente) ma una frase di lei che non ho mai dimenticato e che adesso ritorna mentre scrivo queste righe, era certamente significativa: «Ma quando noi entrammo nella Resistenza (alludendo non solo a Ferruccio e a lei stessa ma anche a tanti compagni già avanti negli anni) eravamo già vecchi, avevamo vissuto la prima guerra mondiale e il fascismo e non avevamo i vostri vent’anni». Certo Ester Parri non voleva fare discorsi per generazioni ma è chiaro che la frase ha una valenza storica perché i fatti attraversati in questo lungo itinerario hanno avuto conseguenze incalcolabili. E poiché a me sembra che vi sia o sia sempre da cercare una ragione morale del vivere e del morire, nel pensare a tutta questa generazione di amici scomparsi, una mi chiarisce soprattutto il senso del loro insegnamento che si era svolto sempre alla insegna della severità e della ragione. Parlavo della fede di lei che oggi ci consente un riscontro, una interiorizzazione, un corteo quotidiano di verità generali che ci aiutano a comprendere meglio anche i grotteschi e i tragici paradossi del nostro furioso tempo storico. E poi la cultura storica. Nessun accostamento di comodo, e i «racconti della Resistenza», se da un lato ci indicano quali erano le sue letture, le sue ansie, il suo coraggio, dall’altro ogni figura rappresenta ogni metafora amorosamente foggiata, ogni evento narrato vengono sempre accompagnati da una coscienza vigile e attenta, con la speranza di sanare quasi le lacerazioni e le ferite degli uomini e degli spiriti offesi. Un bisogno continuo di testimoniare, di lasciare simboli e segni di più lunga durata in un respiro più lungo di vita. Quanti episodi e personaggi qui affiorano o riaffiorano che sono stati cancellati dalla mano invidiosa del tempo. E quale somma di gesti, di corpi, di abiti di realtà non solo di superficie dietro le quali è possibile cogliere sempre lo sfondo. Si pensi ai tempi di attività, per quanti anni la signora Ester ha lavorato e come ha lavorato. Annotazioni spesso fuggevoli ma ferme, e la necessità di vergare una nota, un appunto sui cui ritornare, quale trepidazione, quale pudore in questi scritti sui quali ella pensava che nessuno avrebbe mai messo mano.

Eppure su questo terreno, ella non ha mai perduto il senso delle distinzioni anzi dalla misurazione. I motivi che nei suoi scritti civili ritornano e non certo in forma libresca, ma in modo appassionante e lucido, appartengono ad un osservatorio solo in apparenza distaccato e disincantato ma sempre attento alla interpretazione storica. Che, per rimanere aperta all’avvenire, deve saper sempre cogliere nel passato gli elementi vitali (e così quelli statici), di involuzione e di sviluppo al tempo stesso. Si pensi ai racconti della Resistenza, come detto, che non sono certo all’insegna del «protagonismo degli eroi»; di alcune figure ella sembra voler accentuare, piuttosto che ridurre il taglio per così dire biografico in quella parte di produzione che noi abbiamo chiamato ritratti. Pensiamo anche al delicato esercizio poetico di lei che sicuramente meriterebbe una diversa sistemazione. E alle lettere con numerosi amici attraverso le quali ella teneva i contatti soprattutto in questi ultimi anni resi difficili dalla assistenza al consorte fermo in casa. Eppure questa attività notturna (pochissime le ore della giornata che le rimanevano dopo l’estenuante combattimento quotidiano) all’insegna della lettura, dello scrivere, delle annotazioni, in agende, della più minuta routine quotidiana sono il segno più evidente di una volontà senza soste. E alla delicatezza dei sentimenti verso i suoi più intimi.

I materiali da noi riproposti sono in gran parte inediti; alcune cose di lei apparvero su vari quotidiani, su riviste, fogli scomparsi, ecc. e sono datate. Altri scritti non sono facilmente databili. Non so che senso avrebbe lasciare queste carte riposare nel tempo o anche per un breve momento; naturalmente - si osserverà - non tutto è stato ed è della stessa qualità ma sono sempre sotto il segno di una tessitura culturale di alto livello; per lei (e per noi soprattutto) contava e conta l’abnegazione e l’onestà delle sue annotazioni, spesso pungenti e tormentate, e quel modo di fare lettura del mondo che le era accanto e che era diventato sempre più futile e coperto di retorica. Sono discorsi, racconti, fatti che ci riguardano che hanno, in un senso o nell’altro e in misura diversa, accompagnato la nostra vicenda. È vero che la dissacrazione era cominciata da tempo e poi, alternando formule e motivazioni, è continuata senza freno ma tutti questi anni di lavoro hanno valore di testimonianza, dello scrupolo e della forza delle intenzioni di lei e sono il frutto limpido e amaro di una esperienza che ha dovuto subire il prevaricare della rozzezza e del futile a scapito delle ragioni morali dell’uomo. E la sua intelligenza critica, dell’analisi e della fede - lo abbiamo già detto - del miglioramento o se si preferisce nella correzione dell’uomo, deve esser giudicato per quello che è: lo sforzo per accostarsi all’ottimismo della disperazione. Che del resto ha coinvolto una gran parte del nostro mondo in questi ultimi anni. Chi la conobbe e la frequentò non poteva non finire per amarla E non restare affascinato della sua personalità che cogli anni si era fatta più dolce, al senso spiccato della mediazione tra le svariate avversità del quotidiano, sicura nei giudizi su uomini e cose e tutte queste cose sono da rifondere, insieme a mille altre virtù frutto e sorretta da un’intelligenza sempre penetrante, per una visione complessiva di tutta la sua umana vicenda.

Un modo di comprendere e di far comprendere come pochi. Ella ci ha insegnato e continuerà a insegnarci che la sua vicenda e la sua proposta di vita hanno operato dialetticamente e fecondamente in un solco ben preciso. Quell’esperienza, tormentosa e difficile quanto irrinunciabile che del resto ha coinciso con la storia del lungo sodalizio con il suo Ferruccio - come dicevamo - parte della nostra coscienza e del nostro presente e non la possiamo non pensare come patrimonio di un più largo cerchio che vada ben oltre il nostro.

Lamberto Mercuri

RACCONTI

Dicembre 1949

IN SAN PIETRO PRIMA DELL’ANNO SANTO

Il raggio improvviso di sole venuto domenica dopo una notte di pioggia continua mi fece decidere di andare a San Pietro, pensavo che forse sarebbe stato l’ultimo giorno in cui avrei potuto vedere la piazza, il colonnato e la basilica come io li amo. Li amo non soverchiamente affollati e senza i paludamenti i palchi e palchetti che l’appesantiscono, anche se colonnato e basilica hanno tali dimensioni da rendere lillipuziano quanto vi si avvicina e autopullman, automobili, carrozze, uomini non sono che puntolini variamente colorati in loro confronto, specie quando c’è il sole che dà rilievo ad ogni gioco di prospettiva. Domenica il sole era venuto, ma io avevo dimenticato che a chiusura della Crociata della bontà il Papa quella mattina aveva detto la messa in San Pietro. Avrei dovuto ricordarlo e fare in modo di essere una dei 30.000 privilegiati che vi avevano assistito dalle tribune paludate di velluti scarlatti e mi dolgo di non averlo fatto, perché le messe papali durante l’anno santo saranno più affollate ancora, e nella calca quella semplice eppure tanto complessa fede religiosa che ognuno porta in sé viene offuscata, seppure superficialmente ed in apparenza, dalla «pressione» dei nostri simili.

Domenica sono dunque giunta a San Pietro da via di Porta Angelica, e, com’è mia consuetudine, ho attraversato il quadruplice colonnato, senza guardarmi intorno, ho camminato dritto fino al centro della piazza: perché mi piace essere un puntolino ai piedi dell’obelisco che porta sulla cima una grossa reliquia della santa Croce, un puntolino che sempre con improvviso e fresco entusiasmo abbraccia con lo sguardo duecentottantaquattro colossali colonne, ottantotto pilastri e centosessantadue statue di santi che si stagliano nel cielo perfette e morbide nelle pose, palpitanti di vita, più vive nella luce di noi vivi che le osserviamo, tanto più rosi dal tempo di quanto esse lo siano. Ed i bambini che si rincorrono intorno alle due fontane scintillanti per le gemme del potente zampillo in questa piazza perfetta per l’armonia delle linee hanno la leggerezza degli angeli e il passo degli uomini come il pulsare dei motori ed il rullio delle carrozze si perde nello spazio. La vigilia di Natale quando Pio XII l’attraverserà questa piazza prima dell’apertura della Porta Santa quante migliaia di fedeli conterrà?

Ho salutato dall’obelisco i santi e ho camminato adagio fino alla scalinata che sembra una dolce salita a forma di conchiglia: il puntolino ch’ero io si faceva sempre più piccolo. Come spiegare il senso di umiltà profonda che ci preme le spalle al cospetto della basilica centro del mondo? È l’improvviso ricordo dei lunghi secoli di storia dominati dalla Chiesa, oppure è la stanchezza infinita che ci viene dalla storia giorno per giorno costruita tanto faticosamente che maggiormente concorre a staccarci del mondo esterno, facendoci dimenticare la nostra stessa corporea consistenza fino a farci sentire d’essere una piccola pietra della costruzione che ci sta davanti, possente eppure lieve?

Ma della consistenza corporea mi avvedo quando un aitante carabiniere mi stende un braccio davanti per disciplinare l’ingresso alla basilica. Ci sono già steccati e tribune anche sotto il portico: se fossi un monello vorrei deludendo la sorveglianza arrampicarmi su una delle scale a pioli appoggiate ai muri per osservare da vicino la volta decorata da stucchi gialli e le trentadue statue di pontefici canonizzati che ornano la sommità delle pareti. Ma forse sarebbe meglio essere un uccellino e potermi celare nella piega d’un braccio del pontefice più prossimo alla Porta Santa, l’ultima a destra, segnata da una croce, per assistere alla cerimonia della sua apertura al tocco del martello d’oro di Pio XII.

I giornali rifanno la storia dei giubilei passati, in ognuno leggenda e realtà s’intrecciano, ma è questa nostra realtà vissuta giorno per giorno che ha valore, che vorremmo vivere più degnamente possibile, che talvolta, spesso, non riusciamo a guidare e per la quale sono le preghiere e il perdono dell’Anno Santo.

Non potendo essere né monello né uccellino non resta che confondersi nella folla, e camminare con un bimbo che preme la testa contro le nostre ginocchia, un lembo del velo della vecchia che ci sta davanti quasi in bocca, un braccio stretto dalla bimba in berrettino rosso che crede d’attaccarsi alla mamma o alla nonna, e finalmente si entra nella basilica. San Pietro non è deserto. Tribune ed assiti hanno creato una specie di labirinto, i passaggi sono obbligati e per giungere all’immagine della Madonna «Salus Populi Romani» che attende fra ghirlande di bianchi fiori d’essere oggi riportata in solenne processione nella basilica di Santa Maria Maggiore debbo procedere a piccoli passi in uno stretto corridoio segnato da steccati. La folla che mi spinge non è quella che ieri sera acclamando alla predica gridava «Viva padre Lombardi», né è quella che assistette alla messa papale, è composta di gente d’ogni classe e d’ogni età e la suora dagli occhi ridenti nel viso rosato è stretta come me fra un robusto vecchio ed una signora compassata in grande ambascia per la volpe che le penzola sul petto. Davanti a noi un gruppo di chierici vestiti di rosso sorridono e parlano in inglese ad un compagno venuto chi sa da quale parte dell’Africa, a giudicare dalla sua pelle lucida e nera come coppale. Girando la testa a fatica vedo alla mia destra la bronzea statua di San Pietro che dalla marmorea seggiola sembra paragonare la calca di oggi con quella dei giubilei passati, e forse dei futuri.

Davanti all’immagine della Madonna in un recinto limitato da una ringhiera fiorita di ceri si accumulano le offerte dei devoti. Vorrei appoggiarmi alla ringhiera e volgermi a guardare in viso gli offerenti, e anche il viso di quelli che avanzano a testa bassa dando di gomito a destra ed a sinistra e recitando il Rosario. Vorrei vedere, ma non posso fermarmi; un carabiniere in alta uniforme ripete «circolate» con voce non sai se di preghiera o di comando. Tombe papali, statue, mosaici, quadri, ceri solenni sono lontani: non ci sono che delle piccole creature di fronte ad una sacra immagine, alla ricerca di una briciola di speranza divina. Ma io sono uscita dalla calca col rimorso di non aver rivolto nemmeno una preghiera alla Madonna miracolosa: chiedere mi spaventa.

Un prete anziano con lo zucchetto nero su di una coroncina di capelli bianchissimi mi scivola accanto, ad una donna che gli mormora: - È aperto il Tesoro? - risponde con un «naturalmente» casalingo e garbato, sorridendo. Il Tesoro di San Pietro (non è questa folla ossequiente?) mi pare più grande di ogni calice ingemmato.

Dalla cappella del santissimo Sacramento mi giunge a tratti la voce del sacerdote che spiega il Vangelo. Non riesco a vederlo, solamente intravedo il ciborio che il Bernini ingemmò di lapislazzuli e non posso varcare il cancelletto per avvicinarmi. Cerco un angolo non affollato e ai piedi di una colonna vedo una donna inginocchiata a terra col volto nascosto fra le mani. Prega come pregava mia madre.

Quando sono uscita dalla basilica ho visto che piovigginava: il colonnato appariva bianco come se fosse stato di finto alabastro come i «ricordi» che i pellegrini porteranno nelle loro valige al loro ritorno da Roma. Quando la Porta Santa verrà richiusa saremo tutti più buoni? Bisogna volerlo, auguriamocelo.

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