SALVEMINI GAETANO

Salvemini Gaetano (da Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, La Pietra, Milano, 1987, vol. V, pp. 334-336)Nato a Molfetta (Bari) nel 1873, morto a Sorrento (Napoli) nel 1957; docente di Storia.

Figlio di un ex volontario garibaldino e secondo di 9 fratelli, fu inviato a studiare in un seminario. Grazie a una borsa di studio poté poi frequentare l’Istituto di studi superiori a Firenze, laureandosi in quella Università. Allievo prediletto di Pasquale Villari, ebbe come compagni di studi Ugo Guido Mondolfo e Cesare Battisti. Nel 1896 vide stampata la propria tesi di laurea su La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze e nel 1899 pubblicò una delle sue opere più importanti: Magnati e popolari in Firenze dal 1280 al 1295. Nel 1901 ebbe la cattedra di Storia all’Università di Messina.

Nel Partito socialista

Iscritto al P.S.I. dal 1892, orientato verso il marxismo all’interno di una più generale formazione positivistica e con forti interessi per il pensiero dei politici lombardi più avanzati (come Carlo Cattaneo, 1801-1869), divenne collaboratore della «Critica sociale» e dell’«Avanti!», rivolgendo la propria attenzione soprattutto ai problemi del Mezzogiorno, alle autonomie locali e alla riforma della scuola.

Nel 1908, il terremoto di Messina gli tolse la moglie, i cinque figli e la sorella. Dalla tragedia uscì un uomo segnato nel profondo dell’animo, ma deciso a impegnarsi più che mai nel lavoro scientifico e nella lotta politica. Fierissimo critico del malcostume elettorale giolittiano nel Sud, nel 1909, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche, che condusse nella zona di Gioia dei Colle (Bari) dove imperava Vito De Bellis, uno dei più corrotti luogotenenti dello statista cuneese, Salvemini scrisse un famoso libello antigiolittiano (Il ministro della malavita), durissima requisitoria contro l’intero sistema politico instaurato (ma, negli anni dopo il 1945, rettificherà il suo giudizio complessivo su Giovanni Giolitti).

Candidato socialista ad Albano (Roma) in un turno di elezioni suppletive del 1910, tradito dai suoi stessi sostenitori, abbandonò la battaglia. Nel 1911 lasciò il P.S.l., accusando questo partito di disinteresse verso il problema meridionale.

Democratico radicale

Rivedendo il proprio indirizzo politico in senso radical-democratico, rimase portatore di una concezione moralistica, ancorata però alla visione centrale della necessaria unità fra classe operaia del Nord e masse contadine del Sud per battere il blocco degli interessi padronali. In sostanza, era l’impostazione della linea del «blocco storico», intorno alla quale si svolgerà poi anche l’analisi di Antonio Gramsci per una strategia alternativa del movimento operaio al capitalismo e alla direzione borghese del Paese.

Nel 1911 Salvemini fondò a Firenze il settimanale l’Unità, abbandonando la collaborazione prestata alla «Voce», di cui non condivideva l’appoggio offerto alle tesi di Giovanni Amendola e Pietro Jahier favorevoli alla guerra di Libia. Contro l’intervento italiano in Africa «L’Unità» condusse invece una campagna martellante, ma dopo l’inizio delle operazioni militari lo stesso Salvemini condivise il punto di vista di quei socialisti che auspicavano una vittoria italiana.

Nel 1914 rifiutò la candidatura alla Camera offertagli dal P.S.I. per un collegio di Torino, ma tenne in questa città due grandi comizi a favore dei candidati socialisti.

Nel 1915, nelle polemiche riguardanti l’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale, si schierò con i cosiddetti «interventisti democratici» (o di sinistra), portati a considerare l’attacco agli imperi centrali come la necessaria conclusione del Risorgimento e l’occasione per far cadere l’autoritarismo asburgico, liberando le nazionalità oppresse di quello Stato multinazionale. Coerente con la sua scelta. si arruolò volontario e combatté sul Carso, ma data la fragilità del suo fisico fu presto restituito alla vita civile.

Colpito, nel sia pur breve periodo di permanenza al fronte, dalla cattiva organizzazione militare e dalla scarsa funzionalità dei Comandi, ne fece denuncia al ministro Martini.

Al termine del conflitto, fu tra i propugnatori di una pace che garantisse il rispetto delle nazionalità soprattutto verso i popoli balcanici e giungesse a un assetto democratico dei rapporti internazionali. Polemista sferzante e instancabile, queste posizioni lo resero il bersaglio di feroci accuse da parte dei nazionalisti.

Nel 1919, candidato in una lista di ex combattenti, fu eletto deputato.

Date le aspre polemiche che Salvemini aveva avuto con i socialisti, Benito Mussolini cercò di ottenere da lui l’adesione al fascismo e, di fronte al suo netto rifiuto, fascisti e nazionalisti cominciarono ad attaccarlo duramente. Nell’ottobre 1922, al momento della «marcia su Roma», egli si trovava all’estero e fu sul punto di non rientrare in patria, deluso e depresso dal volgere degli avvenimenti, ma infine tornò alla cattedra d’insegnante a Firenze.

Nella primavera del 1923, quando il governo fascista gli negò il passaporto per andare a tenere un corso di politica estera all’Università di Londra, espatriò clandestinamente avvertendo Mussolini che intendeva comunque esercitare «il suo mestiere di professore». l fascisti fiorentini colsero l’occasione per attizzare gli attacchi contro il «profugo volontario», ma Mussolini, temendo in quel momento uno scandalo a livello internazionale, gli fece restituire il passaporto e Salvemini poté così rientrare, riprendere i suoi corsi all’ateneo fiorentino e diventare uno dei maggiori punti di riferimento dell’antifascismo in Italia.

Nell’estate 1924, il delitto Matteotti pose termine a ogni sua esitazione di fronte agli avvenimenti, dai quali aveva pensato di estraniarsi.

A Firenze, i giovani Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi e il collega di ateneo Piero Calamandrei fondarono un Circolo Salvemini che divenne il centro culturale dell’antifascismo locale, in un clima di continue minacce e aggressioni allo storico, di cui i fascisti tentarono anche di impedire lo svolgimento delle lezioni all’Università.

Senza cadere nelle illusioni che animavano i secessionisti dell’Aventino, il pugnace gruppo antifascista fiorentino si buttò in una lotta frontale al fascismo e, nel gennaio 1925, pubblicò il Non mollare. Usciti alcuni numeri del periodico, Salvemini venne arrestato, ma il rinvio del processo e la concessione della libertà provvisoria gli permisero di continuare la battaglia. Intanto Firenze subiva ogni giorno i colpi dei fascisti. Dopo essere stato ospite nella casa dei Rosselli (successivamente saccheggiata per vendetta dagli squadristi), Salvemini cercò di sfuggire alle sempre più minacciose aggressioni portandosi a Roma, a Napoli e a Sorrento, sempre tenendosi però a disposizione del tribunale.

Nell’esilio

L’amnistia per i reati politici, emanata nel luglio 1925, gli fece ritenere di poter emigrare senza taccia di diserzione politica. Andò quindi in Francia e, da qui, scrisse al rettore dell’Università di Firenze denunciando l’impossibilità di svolgere il proprio magistero sotto un regime di dittatura. Si trasferì poi a Londra, da dove compì anche numerosi viaggi negli Stati Uniti, svolgendo un’intensa attività di pubblicista e di saggista storico per far conoscere al mondo la vera natura del regime mussoliniano. Dopo la fuga da Lipari di Carlo Rosselli ed Emilio Lussu (luglio 1929), Salvemini fu tra i fondatori di Giustizia e Libertà e, in Inghilterra, diede inoltre vita all’associazione Friends of Italian Freedom che aveva come scopo precipuo la diffusione di materiali di propaganda antifascista.

Sempre in diretta collaborazione con il movimento guidato da Carlo Rosselli e, più in generale, con l’area democratico - radicale dell’antifascismo in esilio, scrisse a getto continuo articoli contro il regime per i principali giornali inglesi e americani, mentre circolava con successo il suo libro La dittatura fascista in Italia (pubblicato nel 1927 e riedito nel 1928 in edizione accresciuta).

Nel 1934 ottenne la cattedra di Storia della civiltà italiana, istituita presso l’Università statunitense di Harvard. Il prestigioso riconoscimento indusse i fascisti a rinfocolare le campagne diffamatorie nei suoi confronti, con l’appoggio anche di autorevoli quotidiani americani filofascisti (come il New York Times), cercando di imputargli perfino un attentato terroristico onde farlo espellere dagli U.S.A..

Anticomunista

Nel corso degli anni, Salvemini accompagnò al proprio antifascismo una non meno accesa polemica anticomunista. Nel 1935, parlando in un Congresso di scrittori per la difesa della cultura, si pronunciò nettamente contro l’intesa con gli intellettuali comunisti, stabilendo una analogia fra dittatura in camicia nera e regime sovietico. Dissentì quindi dalla posizione di Carlo Rosselli, favorevole a un rapporto unitario fra tutte le forze antifasciste durante la guerra di Spagna e fu contrario anche all’intervento dei volontari italiani a fianco dei repubblicani spagnoli.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale partecipò, negli U.S.A., alla fondazione della Mazzini Society insieme a G. A. Borghese, Giorgio La Piana, Max Ascoli, Lionello Venturi e a un folto gruppo di emigrati italiani di tendenze democratico-repubblicane, tutti rigorosamente anticomunisti (tanto che il sodalizio venne accusato da altri gruppi antifascisti di essere uno strumento del governo U.S.A.).

Collaborò al periodico «Nazioni Unite», al mensile «Il Mondo» e al foglio anarchico «Controcorrente», oltreché al quindicinale «Italia Libera».

Con La Piana pubblicò, nel 1943, il libro What to do with Italy? (che sarà tradotto in italiano, nel 1945, con il titolo La sorte dell’Italia), compendio assai chiaro dell’antifascismo e dell’anticomunismo salveminiani, uniti all’intransigenza antimonarchica.

Secondo dopoguerra

A guerra conclusa Salvemini rientrò in Italia (1947) e, nel 1949, riebbe all’Università di Firenze la cattedra che gli era stata tolta dai fascisti insieme alla cittadinanza italiana.

Trascorse gli ultimi anni a Sorrento, partecipando di scorcio ai dibattiti politici sulla stampa italiana e riservando in particolare la propria collaborazione alle riviste «Il Ponte» e «Critica sociale». Il contatto con la realtà italiana, l’ammirazione per i partigiani e per lo sforzo compiuto dalla classe operaia nella Resistenza avevano affievolito il suo aspro anticomunismo, senza però smuoverlo dalla vecchia posizione democratico-radicale, «concretistica» e spesso carica di impeti polemici peculiari del suo temperamento.

M. Gi.

(Dott. Mario Giovana - Comandante di formazione partigiane della II divisione alpina G.L.. Direttore dei periodici «Giustizia e Libertà» e «Resistenza». Deputato regionale. Pubblicista)