UNA FIGURA LUMINOSA DEL TEMPO CHE FU
VIRGILIO DAGNINO
di Giovanni Ferro
È bene che i giovani – dell’era del consumismo,
delle lotterie e degli arrampicatori sociali
sappiano che sono esistiti uomini che seppero anteporre i grandi
ideali al proprio benessere particolare. Virgilio Dagnino è stato
uno di questi uomini!
Egli si presentò, con giovanile baldanza, sulla scena
della vita politica della sua Genova e seppe conquistare in breve
l’ammirazione dei compagni di cordata, per l’altezza
dell’ingegno, per la virilità del suo sapere, per la forza del
suo carattere.
Stavano spegnendosi le deboli luci dell’Aventino,
quando
il 16 febbraio 1926
giunse la triste notizia che «su un bianco lettuccio di una clinica
parigina era morto Piero Gobetti». Si era così spento il faro che
aveva aperto il cammino a tanti gruppi di giovani, illuminati da
quella luce in ogni contrada d’Italia. Bisognava riaccendere quella
luce di orientamento. Ispiratore naturale fu il poeta genovese
Eugenio Montale di cui Gobetti aveva recentemente pubblicato il primo
libro di poesie: «Ossi di seppia». Con questi versi il poeta
chiudeva la sua ode ai «Flussi»:
«Addio! - fischiano pietre tra le fronde,
la rapace fortuna è già lontana,
cala un’ora, i suoi volti riconfonde,
e la vita è crudele più che vana.»
Le pietre sono dure e inflessibili, sono altresì un
ottimo materiale da costruzione per solidi edifici «Pietre» fu il
nome scelto da quei giovani per la rivista che fondarono al fine di
illuminare l’impervio cammino, oscurato dal fascismo che stava già
per instaurare la sua dittatura. Erano sull’arena: «Quarto Stato»
di Carlo Rosselli e Pietro Nenni; «Il Caffè» di Ferruccio Parri e
Riccardo Bauer; il «Non Mollare» di Gaetano Salvemini, Carlo e
Nello Rosselli, Ernesto Rossi, che teneva desta la sveglia a Firenze.
Nel febbraio del 1927, anniversario della morte,
dedicarono a Gobetti l’intero numero della rivista. Francesco
Manzitti scriveva: «Noi amavamo Piero Gobetti, perché incarnava in
sé, negli atti della sua vita quotidiana, tutta la bellezza eroica
della sana giovinezza idealistica che procede avanti senza corruzione
di utopie, senza impaccio di idoli d’orpello, senza imbellettamenti
da carnasciale, in quel volontarismo che è la ragione più vera
della vita. E Piero Gobetti, che non voleva essere educatore, è
stato maestro ai giovani: ci ha educato alla lotta, e ci ha fatto
amare l’angoscia della lotta; ci ha ammonito a vivere quando tutto
cade ed a credere ancora quando nel crollo delle coscienze, può
parere che gli ideali si frantumino…. Noi professiamo il culto del
carattere. Agli ortodossi preferiamo gli eretici. I nostri eroi sono
figure scarne che hanno sofferto e portano nel cervello, nel cuore,
nei nervi, le stigmate del tormento. I giovani di questa generazione
di spostati, che non sa più credere, perché è educata allo
scetticismo senza passione, hanno bisogno di Gobetti e del suo
disperato donchisciottismo. E spetta a noi che vogliamo essere i
viaggiatori severi e i valorizzatori del passato, far sì che questa
grande anima riviva con il patrimonio di idee e di tormento che ci ha
lasciato …».
Fra i collaboratori di «Pietre» sono, fra i numerosi
altri, il filosofo Giuseppe Rensi e Mario Vinciguerra, lo scomunicato
Ernesto Buonaiuti e il dinamico corrispondente triestino Ermanno
Bartellini, il quale, oltre che collaboratore era un fervente
animatore della rivista, incitando i redattori a perseverare nella
lotta con la massima intransigenza. Fra i collaboratori più
appassionati era Giuseppe Gangale le cui opinioni religiose erano
particolarmente sostenute da Dagnino, il quale era portato a
considerare lo stesso socialismo un’affermazione dell’etica
protestante.
Dopo il maggio 1927 la rivista dovette interrompere le
pubblicazioni a causa del richiamo alle armi di Franco Antolini e di
Virgilio Dagnino, destinati alla scuola allievi ufficiali di Torino.
La pubblicazione della rivista riprende a Milano sotto
la guida di Lelio Basso con un’impronta ideologica più aperta e un
maggior intercambio di idee e di informazioni fra gli intellettuali
antifascisti di diverse città del Nord e del Sud. Al suo fianco
Lelio Basso ebbe il fratello Antonio e gli amici: Mario Paggi, Mario
Boneschi ed Emiliano Zazo. La continuità della rivista era garantita
dalla presenza del gruppo fondatore rappresentato da Enrico Alpino,
da Francesco Manzitti, da Virgilio Dagnino. Si aggiunse alla schiera
Eugenio Colorni, allora giovane socialista che stava preparando la
sua tesi di laurea in filosofia. Compresi da uno spirito
ciellenistico ante litteram, i giovani redattori di «Pietre»
avevano stabilito rapporti con elementi di diverso orientamento
politico e culturale, concordi però nell’opposizione intransigente
al fascismo. A Roma con Giorgio Amendola, Ugo La Malfa, Nicola
Chiaramonte, Leone Cattani; a Torino con il gruppo socialista che
faceva capo a Mario Passoni, Camillo Pasquali, Fernando De Rosa,
Leone Ginzburg, Renato Treves, Dante Livio Bianco, Massimo Mila e
Geymonat; a Trieste e a Fiume i collegamenti erano assicurati da un
gruppo di diffusori della rivista «Quarto Stato» che facevano capo
a Ermanno Bartellini, già collaboratore di «Rivoluzione liberale»,
a Bruno Pincherle, a Chabod e a Leo Valiani allora non ancora
ventenne; a Padova e Venezia con Mario Damiani; Armando Gavagnin,
Giavi e Gianquinto; a Napoli oltre che con Vinciguerra e Consiglio,
con Schiano e Paone, con Emilio Sereni ed Eugenio Reale.
«Pietre» era così diventata il perno della più
estesa organizzazione antifascista democratica operante semi
legalmente in Italia, adempiendo l’ambizioso ruolo di catalizzatore
delle energie giovanili in circolazione nel paese per offrir loro un
obiettivo comune di opposizione attiva al regime fascista incipiente.
Questa benemerita impresa fu interrotta da un tragico
evento, forse concepito e realizzato nell’ambito delle file
fasciste per provocare un cambiamento di rotta in senso
antimonarchico.
Il 12 aprile 1928, in piazza Giulio Cesare a Milano,
esplose una bomba presso l’entrata della Fiera Campionaria e tra la
folla che aspettava il passaggio del re vi furono 20 morti e 80
feriti. Era opinione diffusa che responsabile dell’attentato fosse
l’estremista fascista Giampaoli per offrire a Mussolini l’occasione
di liberarsi della monarchia. Sta di fatto che la polizia ne
approfittò per scatenare una vasta azione di repressione. Nella
notte tra il 12 e il 13 aprile, seguendo le indicazioni
dell’indirizzario degli abbonati e collaboratori della rivista
«Pietre» di cui era venuta in possesso, la polizia effettuò retate
di arresti contemporaneamente a Milano, Torino, Genova, Roma, Trieste
e in altri centri minori. Centinaia di abitazioni furono perquisite
cui seguirono arresti numerosi di entità imprecisata. Fra questi
vanno ricordati quelli di Lelio Basso, di Umberto Segre, di Mario
Paggi, di Ermanno Bartellini, di Pilo Albertelli, di Leone Cattani,
di Alberto Consiglio, di Fabio Luzzatto, di Mario Vinciguerra, di
Giavi, Caramella, Vittorio Alfieri. Il processo naturalmente non ebbe
luogo perché non esisteva la benché minima prova di complicità e
corresponsabilità nell’attentato contro nessuno degli arrestati.
Basso, dopo 35 giorni di carcere trascorsi in una cella di grande
sorveglianza, contraddistinta da un cartello su cui era scritto in
tutte lettere: «imputato di attentato a S.M. il Re», fu inviato al
confino di polizia nell’isola di Ponza con Mario Paggi, mentre
Bartellini e Zazo furono inviati a quella di Lipari. Tutti gli altri
furono colpiti da un provvedimento di ammonizione. Antolini e
Dagnino, all’epoca allievi ufficiali a Torino, furono pure
arrestati e poi rinchiusi nello stabilimento militare di pena al
Forte Ratti
sulle alture di Genova
in attesa di essere deferiti al Tribunale Speciale sotto l’accusa
di terrorismo e di appartenenza all’associazione clandestina
antifascista «Giovane Italia». Quando la montatura poliziesca ebbe
termine furono «incorporati» in una compagnia militare di
discipline per tutto il periodo della leva.
Quell’arresto generale che coinvolse giovani
intellettuali di molte città italiane rappresentò il battesimo del
fuoco per la nuova generazione antifascista e costituì un momento
importante della biografia politica di molti uomini di diverso
orientamento per tutto il loro avvenire. Per la bomba di piazza
Giulio Cesare la polizia ripiegò nelle sue ricerche
come d’abitudine
sulle solite file comuniste, arrestando circa 560 militanti per farne
condannare un certo numero dal Tribunale Speciale. Fra questi era
Romolo Tranquilli, fratello di Ignazio Silone, che dopo aver
trascorso tre anni nel penitenziario di Procida, morì di malattia.
Per ripercorrere le tappe del «curriculum vitae» del
caro Virgilio, attingo al suo libretto di memorie dal titolo: «Gli
Incorporati» dedicato al suo amico del cuore: Franco Antolini, dopo
la morte di questi avvenuta nel 1959 in seguito alle sofferenze
sopportate prima nel carcere fascista, poi nel campo di
concentramento di Mauthausen.
«Dopo quattro anni di Istituto Superiore di Commercio
dove insegnava Carlo Rosselli
nel luglio 1927 mi ero laureato con una tesi sui Cartelli industriali
nazionali e internazionali, che doveva essere pubblicata l’anno
dopo nella “Biblioteca di Scienze Moderne” dei F.lli Bocca a
Torino. Buona parte della documentazione era stata raccolta a Ginevra
nell’estate 1926, in occasione di un viaggio effettuato assieme a
Stefano Oberti di Genova, per contatti con le organizzazioni
studentesche antifasciste d’Oltralpe; e nella primavera del 1927,
durante lo svolgimento della Conferenza Economica Internazionale. A
Ginevra avevo conosciuto Roberto Tremelloni che teneva un corso di
economia come Libero Docente di quella Università e Manlio Sancisi,
un repubblicano romagnolo, antifascista emigrato, che lavorava alla
Biblioteca del Bureau International du Travail. Dopo la Laurea,
nell’estate 1927, avendo ottenuto una borsa di studio, tornai a
Ginevra per frequentare l’Institut Universitaire de Hautes Etudes
Internationales».
Io avevo letto quella sua tesi di laurea al confino di
Ponza e ne avevo tratto l’impressione che provenisse dalla matrice
«Das Finanzkapital» di Hilferding, opera base che consentì a Lenin
di redigere: «Imperialismo, ultima tappa del capitalismo», per cui,
quando lo conobbi a Milano nel 1935 gli domandai se era parente di
quel Dagnino, autore di un’opera che, nella mia giovanile
ingenuità, avrei attribuito ad un vecchio studioso
socialdemocratico.
Nell’ambito della Società delle Nazioni, voluta da
Wilson , con sede a Ginevra, si agitava il problema delle nuove
tecnocrazie internazionali che iniziavano la scalata al potere
finanziario attraverso la stessa Società delle Nazioni e il Bureau
International du Travail. È dallo studio di questi organismi
internazionali e da quello alquanto originale del New Deal
rooseveltiano che Dagnino trasse gli elementi per il suo nuovo
lavoro: «Tecnocrazia».
Nel frattempo si era trasferito a Milano dove era stato
assunto dalla società ANIC in qualità di segretario generale. Era,
forse, il primo Manager socialista, che utilizzando l’esperienza
diretta nella grande industria italiana, poté impadronirsi delle
tecniche direzionali necessarie a guidare lo sviluppo dell’industria
moderna. Chiuse la sua carriera in questo campo, come segretario
addetto alla Presidenza della Montecatini, chiamato a quell’incarico
dallo stesso Presidente, ing. Guido Donegani.
Nella vita politica clandestina riprende il dialogo
interrotto fra i socialisti e i comunisti. Lo guida Rodolfo Morandi
che poco dopo costituirà il Centro Interno Socialista rivolto ad
assumere la direzione del partito all’interno sottraendola al
Centro emigrato. Vi interveniva anche lo stesso Giorgio Amendola.
Libero Lenti ha rievocato, sulle pagine di «Nuova
Antologia» e poi nelle sue memorie, episodi delle iniziative di
opposizione al fascismo, sfruttando la residua legalità esistente.
Dietro il paravento della rivista di pubblicità «L’Ufficio
Moderno», diretta da Guido Mazzali, si promuovevano incontri fra
oppositori, prevalentemente socialisti, per affrontare temi di
attualità come la razionalizzazione del lavoro.
Allo scopo era stato costituito il «G.A.R.» (gruppo
amici della razionalizzazione). I soci promotori erano: Guido
Mazzali, Libero Lenti, Roberto Tremelloni, Dino Villani, Antonio
Valeri, Virgilio Dagnino, Lelio Basso, Aldo Oberdorfer, Ermanno
Bartellini. Luogo di ritrovo era il Caffè dell’Orologio, dietro il
Duomo. I temi dibattuti furono tanti e vari, quali la disoccupazione
da Roberto Tremelloni; la pianificazione economica da Agostino
Lanzillo; la riforma del sistema monetario internazionale da Vincenzo
Porri; la tecnocrazia da Virgilio Dagnino; la concentrazione delle
imprese da Francesco Vito; la crisi economica del 1929 da Paolo
Baffi, il futuro Governatore della Banca d’Italia.
È di questo periodo l’iniziativa di Roberto
Tremelloni rivolta alla pubblicazione di un giornale economico,
denominato: «La Borsa» in collaborazione con Libero Lenti,
Ferdinando Di Fenizio, ma dopo il primo mese di vita fu soppresso
dalla censura. L’idea venne ripresa dopo la Liberazione con il
quotidiano «24 ORE» diretto da Pio Colombo.
La recente amnistia concessa per il Decennale della
«Marcia su Roma» aveva rimesso in circolazione molte personalità
dell’antifascismo già relegate nelle isole di deportazione o
immobilizzate dai provvedimenti di polizia, come l’ammonizione.
L’economia moderna in via di sviluppo era alla ricerca
di personale specializzato che il regime fascista non era in grado di
offrire, perciò a Milano poterono affluire tutte le competenze
tecniche necessarie all’industria. A Ferruccio Parri fu affidato
per intercessione del professore di Statistica dell’Università
Bocconi, Giorgio Mortara, e la direzione del «Giornale degli
economisti» e la direzione dell’Ufficio Studi della Società
Edison. Entrambi questi incarichi gli avrebbero offerto l’opportunità
d’intrattenere rapporti di collaborazione costante con tutti gli
economisti italiani e con gli Uffici Studi delle più grandi aziende
industriali, bancarie e assicurative. Questi erano diretti
prevalentemente da antifascisti come Ugo La Malfa e Antonello Gerbi
che dirigevano quello della Banca Commerciale Italiana; Libero Lenti
della Snia Viscosa; Ferdinando Di Fenizio della Montecatini; Virgilio
Dagnino con Ermanno Bartellini e Antonio Valeri della Motta ed altri
ancora che tutti insieme venivano a costituire «l’intelligenza»
dell’antifascismo operante, a livello gestionale, nella macchina
produttiva della nazione.
È in questo mondo, contrapposto a quello ufficiale, che
Dagnino affina il suo ingegno e prepara le sue specializzazioni
tecnico-politiche in vista dello sviluppo futuro del paese e della
liberazione dello stesso dalla cappa di piombo che lo opprime.
Quando feci ritorno dal mio secondo periodo di confino,
nell’ottobre del 1940, lo ritrovai desto e combattivo. La rivista
«Relazioni Internazionali», notoriamente collegata al Ministero
degli Affari Esteri, gli aveva commissionato un lavoro basato sulla
sua passata esperienza presso la Montecatini. Egli svolse così con
la consueta brillante perizia il tema che gli era stato posto:
«Carburanti sintetici nell’economia mondiale».
Durante la guerra di Liberazione il C.L.N.A.I. aveva
costituito una Commissione Economica, affidata prima a Cesare
Merzagora, poi a Roberto Tremelloni e alfine a Virgilio Dagnino. Il
compito era quello di distribuire alle industrie le materie prime
fornite dal Piano Marshall e poi dall’UNRRA.
Nel corso dei primi anni della Repubblica Virgilio
Dagnino si dedicò con l’abituale entusiasmo allo sviluppo
democratico e socialista del nostro paese, ma le sue doti
intuizioniste
che gli facevano prevedere con molto anticipo i processi in corso
lo indussero a non farsi coinvolgere nel professionismo politico,
troppo angusto per il suo spirito audace e per il suo temperamento
esplosivo. A riprova di ciò, già nel lontano 1967 diede alle stampe
un opuscolo dal titolo avveniristico: «Obsolescenza delle
ideologie». Vent’anni dopo sarebbe crollato il muro di Berlino!
È con animo riconoscente ch’io ho sentito il bisogno
di rievocare il suo bello spirito!
Spero che i giovani ne possano seguire l’esempio!
Giovanni Ferro
I fatti suesposti sono reperibili
inquadrati nel momento storico in cui sono avvenuti
nel mio libro pubblicato nel 1985: Giovanni Ferro «Milano Capitale
dell’antifascismo», editore Mursia Milano