L'UDI Unione Donne Italiane

L'UNIONE DONNE ITALIANE (1944-1948)

QUADERNI

della

F.I.A.P.

n.28

Silvana Casmirri

L'Unione Donne Italiane

(1944-1948)

© I Quaderni della FIAP

È permessa la riproduzione integrale

a fini scientifici e divulgativi del presente articolo

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Quaderni della FIAP, n.28

L'Unione Donne Italiane (1944-1948)

di Silvana Casmirri

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Nota dell'autrice

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CAPITOLO I

LE DONNE ITALIANE NELLA RESISTENZA

La partecipazione delle donne italiane alla Resistenza fu espressione di una volontà di lotta e di liberazione maturata anche attraverso sofferenze e privazioni, nel corso della guerra voluta dal fascismo. Vent’anni di dittatura avevano assegnato alla donna un antistorico ruolo fatto di emarginazione sociale, politica e culturale che si era espressa nella negazione del lavoro, nello sfruttamento in posizioni comunque subalterne nelle strutture economiche e nell’umiliante propaganda demografica in cui la donna era considerata come semplice garante della funzione biologico-patriottica della procreazione. Attraverso un rigido controllo e un completo monopolio dell’associazionismo femminile, nel quale s’impegnò con dovizia di energie e di mezzi, il fascismo riuscì non solo a imbrigliare ogni forma e ogni aspetto della vita femminile nelle sue organizzazioni (organizzazioni giovanili differenziate, fasci femminili, associazione delle massaie rurali, ecc.) ma anche a far assumere al consenso femminile un carattere pressoché di massa. Sul piano sociale la demagogia e la propaganda fasciste assegnarono alle donne funzioni puramente assistenziali e strumentalmente atte a impegnarle in attività che ne lusingassero l’istinto, ritenuto innato, di moglie-madre-benefattrice e che al tempo stesso non consentissero la maturazione di una coscienza politica e civile [1]. L’unica forma di dialogo con le donne, concepito dal fascismo, fu quello degli «appelli»: l’appello demografico, insistente ma scarsamente efficace, quello per la richiesta di «oro alla Patria», quello dei sacrifici autarchici, quello contro il lavoro, a favore di un rinnovato ed esclusivo impegno intorno al focolare domestico. Certa «cultura» e «intellettualità» fascista o fiancheggiatrice del regime non mancò, poi, di intraprendere l’ardua via delle argomentazioni medico-biologiche e antropologiche tese a dimostrare l’inferiorità di fatto della donna rispetto all’uomo.

Tanti anni di umiliazioni e di emarginazione, di disconoscimento della donna come individuo e come cittadino, di responsabilità e sacrifici richiesti a ritmo continuo, soprattutto dalla grande crisi del ’29, culminarono nella tragedia collettiva della guerra, in cui si frantumarono le basi di massa del consenso al fascismo.

Non erano mancate tra le forze dell’antifascismo italiano esempi di lucida e coraggiosa opposizione alla dittatura e di impegno politico da parte di donne; molte di esse fornirono un importante contributo all’opposizione clandestina svolgendo attività di corriere per la diffusione delle direttive illegali, di organizzatrici di manifestazioni, di scioperi e altre forme di resistenza alla politica del regime. Il duro lavoro nella clandestinità, il carcere, il confino furono per le antifasciste militanti altrettante occasioni di maturazione e di crescita politica e civile che esse riversarono nel massiccio impegno della guerra di Liberazione. Non va dimenticato, comunque, che tale processo interessò anche molte altre donne che, indipendentemente da un profondo impegno politico, furono protagoniste di episodi di protesta o di ribellione al regime e che, soprattutto in occasione della guerra, acquisirono una nuova consapevolezza del loro ruolo nella società[2].

All’interno dei vasti schieramenti popolari impegnati nella Resistenza, le donne italiane rivestirono un ruolo non trascurabile e molte di loro s’impegnarono nella lotta con uno slancio senza precedenti nella storia nazionale. Si trattava spesso di quelle stesse donne che, per anni, erano state le uniche responsabili dei magri bilanci familiari e della conduzione del lavoro nelle campagne, arbitre di gravose decisioni da capofamiglia per l’assenza di molti uomini, richiamati dalle esigenze del bellicismo fascista. Si trattava anche delle mogli e delle madri dei perseguitati politici, di donne emarginate dal mondo del lavoro o di operaie sfruttate e infine, molto più semplicemente, di quante trovavano la forza di ribellarsi in modo istintivo ed esasperato ad anni di miserie, privazioni e lutti.

Gisella Floreanini, figura di spicco della Resistenza e, in particolare, del movimento di organizzazione delle donne, ricorda: «La partecipazione massiccia delle donne agli scioperi del ’43, alle tante manifestazioni in tutta Italia per il pane e per la pace, tra cui quella imponente di migliaia e migliaia di donne contro la guerra nella giornata internazionale della donna, l’8 marzo 1943 in Piazza Castello a Torino contemporanea al grande sciopero della Fiat Mirafiori, preparava le donne a non essere spettatrici della guerra di Liberazione, ma attive e insostituibili partecipi»[3]. La Resistenza vide, così, impegnate numerose donne in ruoli di assistenza ai partigiani, di staffette, di collegamento tra le brigate che operavano sulle montagne e i centri direttivi del movimento partigiano nelle città, di informatrici, raccoglitrici di fondi, viveri, vestiario, ecc. Si trattava anche di evitare ai militari rimasti isolati e sbandati le rappresaglie fasciste. Numerosi furono i gruppi e i comitati che si costituirono per coordinare le attività di assistenza e di aiuti ai combattenti e per fornire una struttura organizzativa a tutte quelle donne che erano impegnate nella lotta. Tra i principali centri e zone di attività, la Floreanini ricorda Milano, Bergamo, Vicenza, il Friuli, l’Emilia, il Piemonte, la Toscana.

L’evento più significativo, al fine del coordinamento e del rafforzamento del movimento femminile della Resistenza, fu la costituzione, nell’ottobre ’43 a Milano, di un’organizzazione femminile unitaria di massa i «Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai volontari della libertà». Questa specifica forma di organizzazione fondata da donne aderenti ai partiti del CLNAI, si prefisse fin dall’inizio sia compiti di propaganda e di assistenza che di lotta militare e di collegamento tra le formazioni combattenti e i gruppi che operavano a livello più strettamente politico, come si accennava. La nascita dei Gruppi fu accompagnata da un accesso dibattito «sulle forme e il programma e i modi di organizzazione» degli stessi[4]. Infine si decise non per una formula federativa di movimenti o di partiti, bensì per «una organizzazione di tutte le donne di ogni ceto sociale, di ogni opinione politica e religiosa...». Oltre ai compiti già accennati i Gruppi di difesa della donna si proponevano di organizzare la resistenza alla violenza nazi-fascista nelle fabbriche, nelle campagne, nelle scuole, negli uffici, di predisporre azioni di sabotaggio della produzione bellica, di rifiutare il lavoro a catena e il lavoro notturno, di non consegnare il raccolto agli ammassi. A tali obiettivi si connettevano, inoltre, richieste di parità salariale rispetto agli uomini, di una migliore assistenza alle lavoratrici madri, di aumento delle razioni alimentari, di una più efficace assistenza agli sfollati, ai sinistrati, all’infanzia[5].

Evidentemente, al di là dell’impegno di appoggiare la lotta di Liberazione mobilitando le donne nei vari settori della vita sociale e dell’attività assistenziale, i Gruppi si posero anche l’obiettivo di una graduale emancipazione femminile per promuovere la donna al ruolo di cittadina attiva e pienamente cosciente dei propri diritti. Tale impegno restò però limitato per il momento ad alcune rivendicazioni essenziali, come quella del diritto di voto, e non si colloca ancora in un programma organico, data la priorità riconosciuta alla conclusione della lotta contro il nazi-fascismo.

L’adesione ai Gruppi fu più consistente nelle zone dove l’impegno politico e militare della lotta partigiana e una certa tradizione dell’associazionismo femminile di matrice marxista o cattolica erano più vivi. Un apporto non trascurabile fu, inoltre, fornito da donne spinte per la prima volta ad un impegno di lotta dalla gravità delle tragedie individuali e collettive di cui furono partecipi o testimoni. Tra i centri di maggiore attività dei Gruppi ricordiamo il Piemonte, la Lombardia, la Liguria, la Toscana, il Veneto, l’Emilia, le Marche.

Camilla Ravera ha valutato intorno a settantamila il numero delle aderenti ai Gruppi e Gisella Floreanini ha precisato che: «Le donne riconosciute partigiane combattenti furono trentacinquemila e non furono tutte riconosciute quelle che pure fecero la richiesta e ne avevano i requisiti [...] Ventimila furono le donne riconosciute patriote, prime tra tutte le addette alla stampa clandestina, direttrici, redattrici, corrispondenti, fornitrici di quella mole di stampa uscita in quel periodo, del numero illimitato di manifestini per ogni categoria, per ogni ceto, fatti da tutti i partiti, da tutti i movimenti della Resistenza».

Contemporaneamente al rafforzamento dei Gruppi di difesa della donna si costituiscono o si riorganizzano movimenti femminili di più precisa fisionomia partitica; si tratta delle organizzazioni di donne democristiane, socialiste, liberali, del Partito d’Azione («Gruppi femminili Giustizia e Libertà»). Alcune di tali organizzazioni si fonderanno con i Gruppi, altre vi aderiranno mantenendo, tuttavia, una fisionomia autonoma. Tale processo di fusione o anche più semplicemente di collaborazione tra le varie componenti delle organizzazioni femminili all’interno dei Gruppi di difesa della donna non fu privo di dubbi, polemiche e incertezze che, del resto, riproducevano la più generale problematica dei rapporti tra i partiti antifascisti. Le donne democristiane, liberali, azioniste manifestarono in più occasioni, e con diversa accentuazione polemica, il timore che il partito comunista egemonizzasse l’azione dell’organismo unitario, data anche la sua preponderante presenza numerica ed organizzativa all’interno di quest’ultimo. Di fatto la presenza di donne appartenenti ai partiti di sinistra marxista (comuniste e socialiste) nei Gruppi era prevalente. Tra queste erano Rina Picolato, Lina Fibbi, Angela Merlin, Giovanna Barcellona, Gisa Della Porta, Maria Maddalena Rossi e molte altre dirigenti che avevano e avrebbero conservato un ruolo di primo piano nei loro partiti e nell’Unione Donne Italiane, dal ’44-’45 in poi.

Sulla stampa clandestina gli echi delle polemiche in corso giungevano per lo più attutiti e comunque subordinati all’interesse di consolidare un organismo che inquadrasse le masse femminili in senso unitario.

Dalla fine del ’43 comparve l’organo di stampa dei Gruppi di difesa della donna, «Noi donne». Fondato in Francia nel ’36 da un gruppo di donne fuoruscite, questa pubblicazione riapparve adesso clandestinamente in Italia sotto forma di foglio d’informazioni e con un sottotitolo, «organo dei Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai volontari della liberta». «Noi donne» esce, per il momento, nelle edizioni clandestine di Milano (dai primi mesi del ’44), Torino, Firenze, Genova e Reggio Emilia. A Napoli liberata, nel luglio ’44 escono le prime copie legali del giornale mentre a Roma, liberata nel giugno, «Noi donne» verrà pubblicato dalla fine del ’44, con periodicità quindicinale, come organo ufficiale dell’Unione Donne Italiane, costituitasi appunto il 15 settembre dello stesso anno.

CAPITOLO II

LA NASCITA DELL’«UNIONE DONNE ITALIANE»

L’Unione Donne Italiane (UDI), sorta a Roma il 15 settembre 1944 per iniziativa di un gruppo di dirigenti comuniste e socialiste (Rita Montagnana Togliatti, Giuliana Nenni, Maria Romita ecc.) e di alcune simpatizzanti per i partiti di sinistra, tra cui Marisa Cinciari Rodano, si qualificò come organizzazione femminile unitaria di tutte le donne italiane, senza pregiudiziali di fede e di orientamento politico e con la sola limitazione dell’esclusione di coloro le quali si fossero pubblicamente compromesse col fascismo. In uno dei pochi, studi finora compiuti sull’UDI si rileva che, sia per la precisa provenienza ed esperienza delle promotrici che per la fisionomia politica delle aderenti e delle simpatizzanti, l’organizzazione si configurò fin dalla sua nascita come movimento «organicamente collocato nello spazio della tradizione marxista»[6]. «Esiste uno stretto intreccio dialettico - scrive, poi, Aida Tiso - tra elaborazione del partito (comunista), movimento delle donne e iniziativa ed elaborazione dell’UDI. In alcuni periodi prevale la elaborazione della linea del PCI che le comuniste dell’UDI cercano di realizzare nelle iniziative unitarie. In altri momenti avviene il contrario: l’elaborazione e l’approfondimento provengono dalle riflessioni svolte dall’UDI e le comuniste le riportano nel PCI...»[7]. Le annotazioni mettono in rilievo l’obiettiva preminenza della politica comunista (o delle donne comuniste giacché le due cose non sempre coincidono) all’interno dell’UDI, ma bisogna tener presente che tale carattere subirà un’accentuazione solo dal ’47-’48 in poi, mentre nei primi anni di vita dell’organizzazione esso è molto più sfumato perché mitigato dalla politica di unità nazionale che all’interno dell’organizzazione si manifesta sotto forma di collaborazione tra componenti femminili diversificate e non legate ai soli partiti di sinistra.

Indubbiamente questi vedevano nell’azione di un’organizzazione separata la possibilità di allargare la loro influenza tra le masse femminili promuovendo, tra l’altro, una maggiore partecipazione politica delle donne al rinnovamento delle strutture della società italiana. Questo processo fu, tuttavia, graduale e non privo di pause, contraddizioni e carenze, rilevate dallo stesso Togliatti, a proposito del lavoro svolto dal PCI tra le donne. «Per un certo periodo di tempo - dichiarò il leader comunista nel ’46 - non è stata chiara la linea del lavoro di partito fra le masse femminili; vi è stata della incertezza, vi sono state delle esitazioni e persino delle opposizioni, delle resistenze chiaramente individuabili alla linea fissata dal centro del partito per il lavoro femminile»[8].

A questo proposito vale la pena di rilevare che in quegli anni prevaleva ancora, tra gli stessi militanti comunisti, uomini e donne, una concezione conservatrice del ruolo della donna che pure conviveva, abbastanza contraddittoriamente, con l’esigenza di intensificare l’adesione di elementi femminili al partito[9].

Alla luce dell’interesse del PCI verso un’ampia strategia di alleanze di massa e di intese unitarie, ci sembra, tuttavia, che l’UDI rispondesse meglio delle cellule femminili all’obiettivo di mantenere viva tra le donne quella collaborazione antifascista e democratica già sperimentata coi «Gruppi di difesa».

Nel primo anno di vita dell’UDI, la partecipazione di associazioni e singole personalità di ispirazione non marxista alle prime battaglie politiche dell’organizzazione non fu affatto trascurabile. La frattura della fisionomia unitaria si realizzerà, come vedremo, di pari passo col delinearsi sul piano politico interno della crisi del fronte antifascista e coll’accentuarsi delle divergenze ideologiche, programmatiche e di metodo tra i partiti di sinistra e le forze moderate a proposito delle forme e dei contenuti della nuova democrazia.

Al momento della costituzione dell’UDI, il Comitato d’iniziativa in un appello a tutte le donne italiane, enunciava con chiarezza le direttive d’azione del nuovo organismo unitario: proseguimento dell’opera di assistenza al combattenti e alle loro famiglie, a tutti coloro che erano stati o erano perseguitati dal nazismo e dal fascismo, pressioni sul governo per un’efficace opera di epurazione, per un controllo sui prezzi e sugli approvvigionamenti, per una migliore tutela dei bisogni primari dell’infanzia e della maternità, promozione di attività culturali a favore delle donne e soprattutto impulso ad una partecipazione più attiva delle donne italiane alla vita politica e sociale e alla diffusione di una coscienza dei loro diritti, primi tra tutti quello di voto e quello al lavoro. L’appello era firmato, oltre che dai membri del Comitato d’iniziativa dell’UDI, da operaie, impiegate, esponenti sindacali, vedove e sorelle di caduti[10].

Il primo degli accennati obiettivi affrontato su un terreno strettamente politico, fu quello della concessione del diritto di voto. L’affermazione ormai in atto di una più matura coscienza politica e civile tra moltissime donne italiane, conseguente al ruolo da queste svolto nella guerra di Liberazione ancora in pieno svolgimento al Nord, rendeva il problema del suffragio femminile non più rinviabile. Il 25 ottobre ’44, per iniziativa dell’UDI, si costituiva il «Comitato Pro Voto» cui aderirono, oltre ai membri del Comitato Direttivo dell’organizzazione, anche le rappresentanti del Comitato femminile della D.C., del gruppo femminile del partito repubblicano, dei Centri femminili del partito socialista, comunista, d’Azione, liberale, della sinistra cristiana, della Democrazia del Lavoro e le rappresentanti dell’associazione «Pro Suffragio» della F.I.L.D.I.S. Oltre a rivendicare il diritto di voto e di eleggibilità e il diritto delle donne a occupare posti di responsabilità nelle Amministrazioni pubbliche, negli Enti morali ecc. il Comitato intendeva sensibilizzare al problema l’opinione pubblica, i partiti, il governo, il CLN centrale e, naturalmente, il maggior numero possibile di donne. A tal fine furono promossi incontri, comizi, campagne di stampa e infine fu formulata una petizione da sottoporre alla firma delle donne e da far pervenire al Comitato d’iniziativa per verificare il loro grado di sensibilizzazione al problema.

Il 17 novembre, le rappresentanti dei partiti aderenti al CLN illustravano a quest’ultimo un promemoria in cui si richiedeva l’appoggio del massimo organo della Resistenza sulla questione del suffragio femminile; il CLN s’impegnò a fissare in un ordine del giorno la propria posizione in merito e ad esercitare pressioni sul governo per una rapida decisione sul problema. Pochi giorni più tardi il Comitato «Pro Voto» richiedeva la sollecita convocazione di un’Assemblea consultiva cui partecipassero ampie rappresentanze femminili e l’indizione delle elezioni amministrative cui le donne potessero prendere parte con pieni diritti di elettorato attivo e passivo[11].

Sull’edizione romana di «Noi donne» del 1° dicembre ’44, accanto alla pubblicazione di numerosi articoli sui reduci, sulle attività assistenziali in corso di preparazione per il Natale e a un servizio fotografico sul tema «Donne in guerra», veniva annunciato il «Referendum sul voto» e si presentava un questionario che sarebbe stato sottoposto, oltre che alle lettrici e alle aderenti all’UDI, «anche a diverse personalità e a rappresentanti di tutti i ceti e tutte le tendenze in interventi che il giornale farà nelle prossime settimane». Le «migliori risposte» sarebbero state pubblicate in un apposito opuscolo in occasione della «settimana del voto» indetta per il febbraio ’45. Il questionario conteneva domande sull’opportunità che le donne prendessero parte alle prossime elezioni amministrative e politiche, sulle argomentazioni addotte a sostegno della propria tesi, sulla diffusione tra le donne del desiderio di partecipare alla vita politica e sulle concrete possibilità di realizzazione dell’obiettivo del suffragio femminile.

Sullo stesso numero della rivista, sotto il titolo «Cosa attendono le donne dal nuovo Governo», (si trattava del secondo governo Bonomi), vennero pubblicate, a nome del Comitato d’iniziativa, una serie di richieste organiche di natura politica, economica e sociale: epurazione, aiuti ai partigiani del Nord per la «totale liberazione del paese», convocazione di un’Assemblea consultiva, priorità dell’opera di ricostruzione edilizia, migliore razionamento dei generi alimentari, riapertura delle scuole, sollecito impegno del governo per assicurare il lavoro ai numerosi disoccupati. Evidentemente l’UDI si inseriva fin dalla sua nascita, nel vivo dei problemi politici e l’obiettivo dell’emancipazione femminile veniva assorbito in un discorso più ampio e articolato di libertà politiche, di giustizia, di risanamento materiale e morale del Paese.

Alla fine di gennaio ’45 il Consiglio dei Ministri approvava all’unanimità il decreto-legge che estendeva il diritto di voto alle donne in condizioni di complete parità rispetto agli uomini. Il decreto era stato presentato dai ministri De Gasperi e Togliatti. L’avvenimento destò una certa eco, sebbene fattori di costume di mentalità di arretratezza secolare ancora ampiamente presenti nel paese mantenessero in vita la concezione della tradizionale subalternità della donna soprattutto sotto il profilo dei suoi diritti. Nel complesso i partiti, nonostante riserve di singoli ambienti ed esponenti degli stessi, riconobbero nel provvedimento una tappa importante nel processo di democratizzazione del Paese.

Vale comunque la pena di notare che il Decreto Luogotenziale del 1° febbraio 1945 non fu propriamente il risultato di una vera mobilitazione di masse, che del resto non sappiamo quanto fosse giustificato attendersi, ma piuttosto una concessione che, pur tenendo conto dell’inserimento di fatto di molte donne nella lotta contro il nazifascismo, fu anzitutto il risultato «di una convergenza di pressioni sul presidente Bonomi di cattolici e comunisti», ovvero di una mobilitazione di vertice, come osserva Mercuri[12]. Proprio alla DC e al PCI, infatti, il suffragio femminile sembrava prospettare i maggiori vantaggi in termini di aumento dei votanti e non sembra casuale che come notava Michele Cifarelli, «è stato molto facile il varo del decreto sul voto alle donne nell’attuale governo, del quale il partito democristiano e il comunista sono i pilastri»[13]. Ciononostante negli ambienti di sinistra non mancarono le polemiche e le resistenze al suffragio femminile, sia perché questo fu giudicato un «regalo» alle forze moderato-conservatrici e clericali sia per certe resistenze di mentalità ad un ruolo più attivo delle stesse donne di sinistra alla vita politica e di partito.

La polemica fu ripresa nel ’46 in occasione del referendum istituzionale e delle elezioni della Costituente. Giuseppe Cappa, alla vigilia del 2 giugno ’46, sottolineava su «La Critica Politica» che il voto esteso alle donne «analfabete, cieche e paralitiche comprese» dava «quasi» per scontata «nel senso monarchico» la questione istituzionale e aveva «virtualmente» avviato il sistema politico «verso il regime dei parroci, dei monaci e delle monache già in auge nel regno delle Due Sicilie»[14]. Dopo la consultazione elettorale, i risultati meno soddisfacenti del previsto per le sinistre fecero riemergere le resistenze e le polemiche sul suffragio femminile con tono più vigorosamente critico e destinato ad accentuarsi ulteriormente dopo le elezioni politiche del 18 aprile 1948.

L’UDI, dal canto suo, non mancò di dare ampio risalto all’estensione del suffragio alle donne con numerose manifestazioni e comizi, sentendo in parte la «conquista» come risultato del proprio impegno, e subito si mobilitò per la compilazione delle liste elettorali femminili in vista delle imminenti elezioni amministrative.

Da un punto di vista organizzativo l’UDI in questa prima fase si strutturò e promosse la costituzione di gruppi e Circoli decentrati seguendo le direttive provvisorie approvate dal Comitato d’iniziativa al momento della sua costituzione. Secondo tali norme l’organizzazione di base dell’UDI era il Circolo il quale doveva avere una sede propria e distinta da quella dei vari partiti. La direzione di ciascun Circolo era affidata a un Comitato direttivo di nomina elettiva al quale spettava l’iniziativa di promuovere tutte quelle attività «richieste dalla situazione locale». Per l’ammissi0ne ai Circoli erano fissati criteri di massima libertà che, tuttavia, escludevano, come s’è già accennato, «gli elementi compromessi col fascismo (che abbiano ricoperto cariche) o note come immorali, o che possano disgregare l’associazione (disonestà, personalismo, ecc.)»[15].

A livello provinciale tutti i Circoli venivano affidati alla direzione di un Comitato provinciale provvisorio facente capo, a sua volta, insieme a tutti gli altri, Comitati provinciali, ad un Consiglio nazionale provvisorio, con sede a Roma. Le elezioni dei vari Comitati direttivi erano rinviate a quando la situazione generale del paese lo avesse permesso. Il reclutamento delle aderenti sarebbe nel frattempo avvenuto attraverso campagne di tesseramento il cui importo sarebbe stato versato al Comitato nazionale. La formula del tesseramento non si rivelerà molto efficace e in determinati periodi, come vedremo, l’UDI preferirà una formula più aperta, quella delle cartoline di adesione.

L’adesione al Circolo prevedeva, poi, una quota mensile di una lira, metà della quale sarebbe rimasta al Circolo, mentre l’altra metà avrebbe dovuto essere versata al Comitato provinciale. Veniva, inoltre, concessa ai Circoli la facoltà di aumentare i loro fondi attraverso autonome iniziative come sottoscrizioni, campagne per tessere sostenitrici, ecc. Si trattava, evidentemente, di una struttura organizzativa sommaria e piuttosto elastica che si sarebbe definita meglio solo in occasione del primo Congresso dell’associazione e con l’approvazione dello Statuto dell’ottobre ’45.

Tra la fine del ’44 e i primi mesi del ’45 il dibattito interno alla coalizione antifascista si fece più serrato e impegnativo.

Con una «lettera aperta» ai partiti del CLN alla fine di novembre il Partito d’Azione aveva rilevato la non completa maturazione dell’esperienza ciellenistica, insistendo perché il Comitato si preparasse ad assumere le funzioni di governo legale «in caso di insurrezione o di liberazione». Alla proposta di fare dei CLN gli strumenti per realizzare, dopo la Liberazione, le basi del nuovo ordine democratico si affiancava un giudizio decisamente negativo sulla situazione politica del Sud dove l’apparato statale centralizzato era restato «l’unico strumento di governo» e non aveva lasciato spazio ad alcuna forma di partecipazione e di amministrazione «a carattere popolare». Secondo Catalano con la loro iniziativa «Gli azionisti... riprendevano la loro solita polemica contro il vecchio Stato e si battevano per un nuovo Stato di cui, però, non mettevano nel giusto rilievo il carattere sociale»[16]. Per prima giunse la risposta del PCI, il quale pur riconoscendo ai CLN una funzione insostituibile, in quanto espressioni di energie e obiettivi popolari da potenziare sempre di più, preferì non porre alcuna ipoteca di contenuto, metodo e strumenti d’azione politica sul dopo Liberazione. L’interesse primario del partito restava quello dell’affermazione della democrazia progressiva e della collaborazione con gli altri partiti di massa: il partito socialista e la democrazia cristiana.

Il partito socialista, rispondendo agli azionisti, sottolineo l’offensiva conservatrice in atto, guidata dalla monarchia, e indicò in tale situazione le ragioni della crisi del CLNAI evidenziatasi soprattutto dopo la firma dell’«accordo-capitolazione» del 7 dicembre 1944 con gli Alleati.

La proposta socialista affermava la necessità di potenziare le funzioni dei CLN proprio per arginare la svolta moderata in atto ma di fatto non formulava chiaramente le direttive e i contenuti politici di tale rilancio e restava pertanto una proposta vaga e incompleta.

La DC e il PLI si pronunciarono, invece, per la conclusione dell’esperienza dei CLN non appena fosse stato possibile ripristinare nella loro piena funzionalità gli istituti parlamentari. La democrazia cristiana, in particolare, dimostrò di voler perseguire una via graduale al rinnovamento dello Stato, consapevole di occupare nella vita nazionale uno spazio politico di centro, di equilibrio moderato.

Come scrive in proposito Massimo Legnani: «… nel disegno democristiano di farsi rappresentante di quanti si pongono al di fuori dello scontro in corso è già presente la funzione centrista e moderata che il partito impersonerà nel dopoguerra»[17].

Il dibattito porta all’evidente rifiuto della proposta del Partito d’Azione e già si possono cogliere alcune gravi incrinature del dialogo tra i partiti antifascisti e il rinserrarsi di alcune forze su posizioni di gelosa tutela della logica di partito che l’accettazione del ruolo dei CLN proposto dagli azionisti avrebbe messo in ombra o comunque sfumato.

Come scrive Catalano, infatti, il rifiuto dei liberali e dei democristiani di considerare i CLN gli strumenti del rinnovamento del paese «faceva intravedere quanto sarebbe stata dura la lotta politica dopo la Liberazione» e di fatto operava nel Comitato una spaccatura che «se... non si verificò del tutto fu per l’atteggiamento, per così dire, conciliante del PCI, che si accontentò, sotto la guida del Togliatti, di una fetta del potere pur di continuare a rimanere al governo».[18]

Intanto all’interno del CLNAI il contrasto tra i fautori di una pronta ripresa dell’insurrezione armata, dopo la stasi dell’autunno - inverno, e l’attesismo dei gruppi moderati causava uno stato di grave tensione, presente, del resto, anche nel Corpo Volontari della Libertà.

Il 24 e 25 aprile 1945, grazie anche a una massiccia e contemporanea mobilitazione delle forze partigiane e della classe operaia, tra cui numerose donne, Torino, Genova e Milano insorsero. Dopo l’avanzata degli anglo-americani sul fronte di Bologna anche questa città venne liberata (22 aprile). I nazisti erano ormai sbandati, il fascismo repubblichino alle corde, Mussolini, dopo vani tentativi di accordo col CLNAI, venne catturato e fucilato il 28 aprile.

L’insurrezione armata al Nord fu in gran parte opera dei comunisti e, tra questi, non erano pochi coloro i quali ritenevano possibile sviluppare dall’azione partigiana un processo rivoluzionario che modificasse i rapporti di forza esistenti a favore del partito. Ma di fatto prevalse la linea più cauta di Togliatti che, pur deludendo e scontentando molti, tenne indubbiamente conto della realtà internazionale del momento e dei desideri di Stalin, interessato a mantenersi nello spirito dell’incontro di Mosca e dunque a rispettare la logica delle sfere d’influenza fissate. Gli alleati occidentali, infatti, di fronte a un’azione rivoluzionaria in Italia avrebbero rimesso in discussione i patti sottoscritti, compromettendo anche il controllo che l’URSS stava consolidando nell’Europa orientale[19]. Evitiamo di entrare nel merito della complessa questione sulle reali possibilità di successo o meno di una linea rivoluzionaria del PCI nell’estate ’45 e nel dibattito sulla cosiddetta «rivoluzione tradita», rinviando in proposito alla storiografia e alla memorialistica esistente, avvertendo altresì di non trascurare le fonti diplomatiche per cogliere l’esatta misura dei condizionamenti internazionali di quel periodo.

A Liberazione avvenuta un altro problema di non lieve entità fu quello dell’AMG (governo militare alleato) che si preoccupò di accentuare la propria azione di condizionamento sui futuri sviluppi della situazione italiana, con l’obiettivo fondamentale che questa evolvesse «secondo una linea di prudente restaurazione democratica, priva di brusche lacerazioni e soprattutto capace di contenere e neutralizzare il peso delle forze comuniste e socialiste»[20].

Gli echi di questi decisivi avvenimenti, ma non altrettanto quelli relativi alle ipoteche di carattere politico-internazionale che pesavano sulla situazione italiana, sono presenti sulla stampa dell’UDI la quale espresse la chiara consapevolezza che tutti gli sforzi dovevano essere ora rivolti al ripristino di condizioni democratiche di vita politica e civile. In questi mesi l’UDI compì un grosso sforzo di crescita e di estensione della propria influenza e intensificò le forme di proselitismo e di finanziamento attraverso apposite campagne di propaganda, sottoscrizioni a favore della rivista (Avanti per le 100.000 lire, «Noi donne», 1-4-1945), emissione di azioni a fondo perduto il cui ricavato avrebbe dovuto essere ripartito tra i Comitati d’iniziativa, i Comitati provinciali e i Circoli che le avessero vendute.

Sul modulo di adesione diffuso apparve un appello a «operaie, intellettuali, contadine, donne di casa», a sottolineare l’ampiezza del fronte femminile e il carattere di massa che l’UDI si proponeva di realizzare.

Dopo circa sei mesi di attività dell’organizzazione, «Noi donne» annunciò: «Siamo certe di non esagerare affermando che l’UDI conta oggi nell’Italia liberata circa cinquantamila aderenti». Accanto alle esigenze di crescita e di una più capillare struttura organizzativa, cominciò ad acquistare particolare rilievo un tema che l’organizzazione d’ora in avanti avrebbe potenziato progressivamente fino a farne uno degli impegni più qualificanti della propria azione politica: quello del diritto delle donne al lavoro e alla parità di trattamento rispetto agli uomini. Su quasi ogni numero della rivista si cominciò a dare ampio risalto a denunce di disparità salariale o dell’ammontare della contingenza e a conquiste di parità di trattamento per certe categorie di lavoratori o rami di attività. A più riprese, inoltre, «Noi donne» ribadì la necessità che il governo dell’Italia liberata attuasse una seria epurazione, non colpendo soltanto personalità pubblicamente compromesse col regime ma anche tutti quegli speculatori e profittatori che fino a tutto il periodo della guerra e perfino all’indomani della Liberazione avevano tratto enormi sovraprofitti, approfittando delle miserie di ogni genere in cui viveva la maggioranza della popolazione. Scriveva in proposito Nerina Giannesi: «… gli italiani attendono: chi a denti stretti, chi impaziente, chi fiducioso» («Noi donne», 26-4-’45).

Un’altra fondamentale esigenza ribadita dall’UDI, e pur sempre connessa all’esigenza di cancellare ogni residuo di fascismo e di una visione fortemente limitativa del ruolo della donna, era quella di ottenere la pronta revisione di quelle parti del Codice civile e del Codice penale «che riguardavano in particolare la concezione giuridica della donna». L’UDI riteneva particolarmente urgente, nell’interesse di tutte le donne e per l’affermazione di una loro più completa dignità, la modifica di certi articoli sul matrimonio, sulla patria podestà, sull’amministrazione dei beni dotali, sul patrimonio familiare, sull’adulterio, sull’esclusione delle donne da certe cariche della magistratura e dal ruolo di giudice in Corte d’Assise, ecc.. Venne, quindi, creata una «Commissione per lo studio della condizione giuridica della donna» che fu ricevuta dal ministro della Giustizia, Tupini, il quale si dichiarò «disposto a discutere» le richieste avanzate dall’UDI. Anche questa esigenza di diffondere tra le donne una chiara informazione circa le leggi che tutelano i loro diritti e di sensibilizzarle agli aspetti giuridici in cui si sostanziano le loro lotte e il loro impegno resterà una costante nella linea d’azione dell’UDI, delle future deputate e senatrici aderenti all’organizzazione e della rivista, anche se va sottolineato che per il momento si trattava di un terreno arduo per la mobilitazione di massa, data l’impreparazione politica e culturale e l’insensibilità verso questo ordine di problemi di gran parte delle donne. (Oggi, a posteriori, sappiamo quanto sia stata lunga, ardua, piena di resistenze politiche e di mentalità la conquista di un nuovo diritto di famiglia e di una legislazione sociale e previdenziale che garantisca un’ampia e reale tutela dei diritti della donna come cittadino, come madre, come lavoratrice, anche se ancora sussistono diversi ostacoli ad una reale parità di diritti tra i due sessi).

Quella frattura tra vertice e base dell’UDI in cui diversi critici hanno individuato il punto debole dell’organizzazione è senz’altro riscontrabile nel caso di battaglie che, pur fondamentali per il loro significato democratico, non toccavano in modo immediato gli interessi materiali, quotidiani della grande maggioranza delle donne, senz’altro più sensibilizzate ai problemi del razionamento, dei sussidi, del lavoro, delle colonie estive per i figli in un momento in cui i bisogni più urgenti erano quelli legati alla sussistenza. La fondatezza della critica nulla toglie, tuttavia, alla validità di una mobilitazione più strettamente politica, come quella cui s’è accennato, tanto più se si considera che l’UDI ha sempre perseguito, in parallelo, l’emancipazione dai bisogni più immediati (si pensi all’intensa attività assistenziale e alla campagna per il lavoro femminile) e un tipo di emancipazione politico-culturale più ampia, sottolineando, tra l’altro, che la prima doveva essere presupposto ed occasione per conseguire la seconda.

CAPITOLO III

L’UDI E I PROBLEMI DELLA RICOSTRUZIONE

Il quadro politico che si delinea dopo la Liberazione di tutta la penisola è molto complesso e la realtà socio-economica italiana richiede una valida direzione politica. Mentre l’esperienza dei CLN e della clandestinità ha facilitato un nuovo rapporto tra forze sociali e partiti (premessa delle nuove forme di partecipazione democratica alla vita pubblica che si dovranno realizzare nel Paese), nel Centro-Sud la permanenza di secolari strutture clientelari non ha avviato alcun processo di effettiva democratizzazione e gli stessi partiti di sinistra stentano ad impostare un dialogo costruttivo con le masse.

Anche lo squilibrio economico tra Nord e Sud risulta accentuato: i danni subiti dall’apparato produttivo, il tasso d’inflazione, il costo della vita, i salari presentano un’accentuazione diversa nelle due parti del Paese. I danni di guerra subiti dall’apparato industriale sono nel complesso abbastanza contenuti ma comunque molto più gravi al Centro-Sud, dove le operazioni belliche hanno danneggiato maggiormente il territorio e il suo assetto economico-produttivo. Al Nord, grazie anche alla difesa degli impianti da parte della classe operaia nonché per un certo collaborazionismo tra industriali e forze occupanti, la capacità produttiva risulta menomata solo di un quarto circa. Sul Nord pesa, semmai, la carenza di materie prime e di mezzi di trasporto che hanno subito danni gravissimi. Anche le reti di comunicazione risultano pesantemente danneggiate. L’indice complessivo di produzione delle industrie manifatturiere è caduto, rispetto all’anno base 1938, a meno di un terzo, il reddito nazionale è pressoché dimezzato, l’aumento del deficit del bilancio statale risulta moltiplicato per trenta volte circa rispetto all’esercizio 1938-39.

Il settore agricolo ha subito danni più gravi di quello industriale. Per la guerra il valore della sua produzione rispetto a quella delle industrie è cresciuto e così i prezzi agricoli, per la rarefazione dei generi alimentari. Sul fronte dei salari, il loro aumento non riesce minimamente a seguire il ritmo di crescita del costo della vita, dovuto quasi esclusivamente all’aumento delle spese di alimentazione. La condizione operaia e quella dei contadini, soprattutto dei contadini e dei braccianti del Sud, saranno realtà che si imporranno attraverso significative lotte sociali dalla fine del ’45; mentre la classe operaia avrà, però, nel sindacato, nei partiti e negli organismi di fabbrica altrettanti elementi di sostegno, i contadini saranno esposti, specie al Sud, alla controffensiva della grande proprietà senza che la prospettiva della riforma agraria riesca ad affermarsi.

Al momento della Liberazione pesa, inoltre, su tutto il Paese la minaccia di una paurosa inflazione che ha, tuttavia, un corso ben più grave al Sud. Qui la massa di moneta d’occupazione alleata e la maggiore scarsità di generi di prima necessità hanno accelerate il tasso di inflazione anche perché il governo del «Regno del Sud» per numerose ragioni non ha saputo o potuto impostare un sistema di controllo dei prezzi e del razionamento, favorendo così la diffusione del mercato nero e di ingenti speculazioni, specie sui prodotti agricoli. Integrate queste due realtà socio-economiche e politiche già di per sé così diverse, divenute ancora più eterogenee in seguito alla guerra, è uno dei non facili compiti che il nuovo governo dell’Italia liberata si trova a dover affrontare[21].

Quando nel giugno ’45 si giunge alla formazione del governo Parri, come soluzione di compromesso, dopo logoranti trattative tra i partiti della coalizione antifascista e profondi contrasti tra sinistre e moderati, i compiti prioritari del nuovo governo sono quelli di avviare la ricostruzione economica del Paese, di assicurare le condizioni per la ripresa della vita politica e sociale e di dare nuova efficienza agli organi dello Stato[22]. Tutti questi fondamentali temi trovano ampio rilievo nell’attività e nella stampa dell’UDI che ribadisce la necessita di un’azione unitaria fra le forze politiche sulla base di un programma minimo comune.

«Noi chiediamo al Governo - si legge su «Noi donne» del 25-6-’45 - una rapida ed efficace epurazione... di dare sì lavoro ai reduci ma di non togliere il pane alle donne... di rivolgere tutte le sue cure all’infanzia oggi minacciata fisicamente e moralmente. Al Governo che attuerà questo programma noi donne daremo tutto il nostro appoggio».

Da questo momento l’UDI intensifica, inoltre, la sua campagna per il ribasso del costo della vita, chiede ed ottiene dalla CGIL che una sua rappresentante venga ammessa nelle Commissioni popolari per il controllo dei prezzi, sottolinea la necessita, per un’efficace azione in tal senso, di appoggiare le Camere del Lavoro e il sindacato nella loro azione di pressione sulle forze politiche e sul governo (Donne e carovita, «Noi donne» 15-8-’45).

Intanto la struttura organizzativa si va potenziando e, grazie anche alla diffusione periferica dei circoli, l’UDI riesce ad essere presente in diverse realtà locali e spesso ad inserire sue rappresentanti negli organismi assistenziali, nelle Commissioni per l’epurazione, in quelle per i reduci, in quelle consultive per i prezzi, nell’UNRRA, nell’ONMI, nei CLN aziendali.

L’attività assistenziale costituisce un punto fermo di grande rilievo nell’azione dell’UDI ma attraverso la rivista viene ripetutamente respinta la palese o larvata intenzione di certe forze conservatrici di limitare l’attività dell’organizzazione al piano della semplice assistenza.

Nell’agosto ’45, in seguito all’uscita delle donne liberali (la decisione fu presa dalla Giunta esecutiva del PLI) si operava la prima frattura di fatto del carattere unitario dell’UDI; con tono polemico la Direzione accusava le donne liberali di essere venute meno a un dovere verso l’intero Paese che in quel momento aveva bisogno di sforzi solidali per la ricostruzione e l’assistenza e non di «azioni sporadiche e isolate di piccoli gruppi» (L’Unità femminile non è più necessaria?, «Noi donne» 31-8-’45).

In occasione della I Conferenza femminile del PCI (Roma 2-5 giugno 1945) Togliatti, nel contesto di un’analisi molto più ampia del problema dell’emancipazione femminile, aveva chiarito l’importanza del ruolo che il suo partito assegnava all’UDI. Il leader comunista aveva sostenuto innanzitutto la specificità della questione femminile e aveva indicato nel processo di emancipazione della donna un metro di valutazione della concreta attuazione della «rivoluzione democratica» nel Paese[23].

«… l’emancipazione della donna - affermò Togliatti - deve essere uno dei problemi centrali del rinnovamento dello Stato italiano e della società italiana.... Se la democrazia italiana vuole affermarsi come democrazia nuova, antifascista, popolare e progressista, deve emancipare la donna.... La democrazia italiana ha bisogno della donna e la donna ha bisogno della democrazia. Questo vuol dire che tutte le questioni legate alla formazione e affermazione di un nuovo regime democratico, sono strettamente legate anche alla emancipazione delle donne, all’avvento delle donne alla vita politica...»[24].

Oltre a ribadire l’impegno del PCI nel processo, riconosciuto di importanza storica, di emancipazione femminile Togliatti esprimeva stupore e rammarico per i dissensi, le incomprensioni e le polemiche esistenti tra donne comuniste e donne di altri partiti, soprattutto con quelle «iscritte alle organizzazioni cattoliche», e riaffermava oltre che la possibilità la necessità di trovare un terreno d’intesa per un’azione unitaria sui grandi e comuni problemi dell’infanzia, della famiglia, del lavoro, dei diritti politici. Il favore dimostrato dal PCI nei confronti della creazione dell’UDI e della formula aperta dell’associazione veniva indicato dal leader comunista come la conferma dello spirito di collaborazione che il partito desiderava fosse alla base di una politica per l’emancipazione della donna. Nel suo discorso Togliatti faceva anche il punto sullo sviluppo politico-organizzativo dell’UDI e ne sottolineava carenze e lentezze soprattutto nel ritmo delle iniziative e di diffusione di nuovi circoli.

Negando, inoltre, che il PCI intendesse fare dell’UDI uno strumento del partito, Togliatti si pronunciava per il carattere autonomo dell’associazione. Di fatto tale fisionomia sarà riscontrabile solo in una prima fase, accentuandosi ben presto nell’UDI, sia a livello di distribuzione degli incarichi ufficiali che di programma politico, il carattere fiancheggiatore dei partiti di sinistra, con una crescente prevalenza della presenza e della linea politica comunista. Nonostante ciò ripetuti e insistenti rimarranno, almeno fino ai primi mesi del 1948, gli appelli dell’UDI per una politica femminile unitaria e non condizionata dagli steccati ideologico-partitici.

La stessa impostazione unitaria che l’UDI richiedeva per un’efficace azione assistenziale veniva ribadita e richiesta anche sul piano dell’impegno politico e sindacale. Accanto agli appelli di mobilitazione per aiuti all’infanzia, per i sussidi alle famiglie razziate dai tedeschi, per l’istituzione di mense gratuite, per un migliore funzionamento dei commissariati per gli alloggi ecc., nell’estate-autunno ’45 si fanno sempre più frequenti su «Noi donne» le cronache del lavoro e delle lotte sociali, strettamente connesse al quadro politico e aventi i loro epicentri nel Nord nel triangolo industriale, al Centro nelle zone mezzadrili e nel Centro-Sud nelle aree dominate dal latifondo. Il momento della rivendicazione sindacale risulta collegato all’impegno per una rapida ricostruzione, in quanto entrambi i problemi vengono visti come aspetti di una nuova giustizia sociale che deve essere instaurata soprattutto nei confronti dei lavoratori ovvero di coloro che pagano maggiormente la crisi economico-sociale in atto. È per questo che l’UDI dà ampio risalto alle iniziative delle Camere del Lavoro, della CGIL, delle Commissioni interne nella lotta contro il carovita e nelle contrattazioni aziendali, inserendo il fondamentale problema della parità di trattamento delle lavoratrici rispetto ai lavoratori nel più generale contesto delle lotte sociali che si stanno svolgendo nel Paese. Un accentuazione particolare viene data alla necessità di creare le Commissioni consultive femminili presso le Camere del Lavoro, come già era stato fatto presso la CGIL, per una più efficace tutela del lavoro femminile e delle condizioni normative dello stesso «contro l’odiosa campagna di defemminizzazione iniziata negli uffici, nelle fabbriche, nelle aziende statali» («Noi donne» 31-9-’45). Appelli come «Non spezziamo il Fronte del Lavoro» («Noi donne» 31-5-’45), «Le donne hanno diritto al lavoro» («Noi donne» 15-10-’45) affiancano articoli in cui viene dato ampio risalto alle manifestazioni delle operaie tessili a Torino per adeguamenti salariali e agli accordi, vivamente criticati, raggiunti a Milano a proposito dell’indennità di carovita, fissata nella misura di 110 lire mensili per gli uomini capofamiglia e 100 lire per le donne capofamiglia e di 92 lire per gli uomini non capofamiglia e di 66 lire per le donne («Noi donne» 15-8-’45).

Anche il volto della rivista registra modifiche che riflettono la maggiore diffusione organizzativa dell’UDI, il moltiplicarsi delle manifestazioni, delle riunioni e delle iniziative assistenziali promosse dall’associazione stessa o alle quali questa aderisce. Fanno la loro comparsa le rubriche «Vita del movimento», quelle della corrispondenza con le lettrici, dei calendari delle riunioni, i bilanci delle iniziative svolte, le notizie sulla costituzione di nuovi circoli e, spesso, sul numero delle aderenti per province o regioni[25]. Da questi dati si desume una maggiore presenza organizzativa dell’UDI nel Centro-Nord rispetto al Sud, presenza che del resto rispecchia sia il tipo di spazio politico che si va sempre meglio delineando nell’associazione che il grado di sensibilità politica e di esperienza di lotta che le donne del Nord hanno maturato.

Inoltre «Noi donne» in questo periodo ospita sempre più frequentemente novelle, rubriche di consigli per la cura della casa, di cucina, di moda, di spettacoli, cenni storici sulla questione femminile e sintesi di fatti di cronaca. È evidente in questi nuovi contenuti, che implicano anche un tono e un linguaggio meno impegnati, più immediati e comprensibili, l’esigenza di conquistare un pubblico femminile sempre più ampio e di estendere l’influenza dell’UDI anche a quelle donne (la maggioranza) che per impreparazione culturale e politica non sono sensibilizzate ai temi politico-sindacali ma con le quali bisogna comunque aprire un dialogo, anche attraverso tale tipo di rubriche, nella prospettiva di educarle e coinvolgerle gradualmente nel discorso sull’emancipazione che l’UDI porta avanti. In realtà, la battaglia più impegnativa che l’organizzazione combatte in questa prima fase è proprio quella contro un certo tipo di visione della donna, dei suoi compiti, della sua presunta, «naturale» destinazione a certe funzioni prettamente famigliari e assistenziali. Questa mentalità, condivisa e accettata anche da moltissime donne, poteva essere lentamente modificata, secondo l’UDI, attraverso un’opera di coinvolgimento e di responsabilizzazione delle donne nelle iniziative di gruppo e attraverso un paziente lavoro di chiarimento del significato e dei contenuti pratici dell’emancipazione femminile. Pertanto il linguaggio e l’impostazi0ne grafica di «Noi donne» in questi primi anni, con il frequente ricorso a schematizzazioni figurate che consentono di esprimere un concetto senza ricorrere a lunghe spiegazioni, rispondono proprio all’esigenza di abituare le donne a pensare se stesse come soggetti detentori di precisi diritti e di una dignità che va affermata anche sul piano sociale, culturale e politico. In tal senso l’UDI in questa prima, più difficile fase di rottura di certi schemi, assolve ad una funzione educativa in senso lato e non soltanto politica. La diversificazione dei temi trattati sulla rivista ha lo scopo di alleggerirne il tono, pur restando fermo lo sforzo delle redattrici di trattare gli argomenti di maggiore interesse generale (carovita, provvidenze a favore dell’infanzia, dei disoccupati e dei senzatetto, problema degli alloggi, diritto al lavoro, lotta contro l’analfabetismo) con un linguaggio il più possibile chiaro che non sempre, invece, si riscontra quando vengono affrontati temi più strettamente politici, sindacali e giuridici. Soprattutto a proposito di questi ultimi compaiono sulla rivista le singolari ed efficaci esemplificazioni cui si accennava, per ribadire, ad esempio, la necessità di perseguire l’obiettivo della parità tra uomini e donne sia sotto l’aspetto politico e sindacale che di costume o per far comprendere a tutte le donne il dovere di votare e «saper» votare. Nel primo caso «Noi donne», attraverso una serie di gustose e ironiche vignette, fornite di didascalie e riunite sotto il titolo Riconoscimento o sfruttamento?, riassume la disparità di trattamento tra uomini e donne che si evidenzia fin dal momento della nascita «quando l’evento è ancor più lieto se il neonato è un maschio». Si prosegue, poi, sottolineando che la mentalità tradizionale associa ancora la donna «al fuso e alla conocchia», «mentre i nostri tempi l’hanno associata al moschetto e alla mitraglia», che a parità di lavoro e di responsabilità non è riconosciuta alle donne parità di retribuzione e di dignità e che l’ingiustizia è aggravata dal fatto che «tornando a casa l’uomo può riposarsi soddisfatto mentre la donna oltre tutto compie altre otto ore di lavoro domestico». In fondo all’articolo illustrato campeggia a grandi caratteri il retorico interrogativo «È giusto?» («Noi donne» 26-4-‘45).

Per quanto riguarda il diritto-dovere del voto, oltre alla propaganda che fa leva su argomentazioni di carattere politico e civile, la rivista ricorre alla formula della lettera inviata da un’immaginaria Maria Rosa a un’altrettanto immaginaria Caterina. La lettera è lineare sia per contenuto che per linguaggio ed esprime abbastanza verosimilmente il modo di ragionare di una donna comune, casalinga, studentessa o operaia, che argomenta perché, a suo giudizio, le donne devono votare, associando il nuovo diritto al sacrificio e all’impegno che esse hanno dimostrato nel corso della guerra e della lotta di Liberazione e alle nuove responsabilità che tale ruolo ha loro assegnato. (Tutte dobbiamo votare e saper votare, «Noi donne» 15-5-’45).

L’appello era, del resto, giustificato dall’imminenza di un primo turno di elezioni amministrative in occasione delle quali l’UDI svolse una discreta attività di propaganda a favore delle liste femminili, dichiarandosi poi soddisfatta, ad elezioni avvenute, per il numero di elette nei Consigli comunali e alla carica di sindaco, più per il significato politico che quantitative dei risultati, e sottolineando al tempo stesso l’incomprensione e la diffidenza rivelatesi ancora prevalenti nei confronti delle donne, specie nel Mezzogiorno[26].

Il quadro politico nell’estate-autunno ’45 presentava preoccupanti segni di tensione dovuta sia all’evoluzione in senso moderato dei programmi politici e di ricostruzione economica che alle accese discussioni sui poteri che avrebbe dovuto avere la Costituente e, conseguentemente sull’ampiezza del dibattito che in essa avrebbe dovuto svolgersi. Anche all’interno delle singole forze politiche si sviluppano polemiche che ostacolano un regolare apporto all’azione di governo: nel PSIUP si accende il dibattito sul problema del partito unico della classe operaia, ovvero sulla prospettiva di fusione col PCI, mentre il Partito d’Azione deve risolvere la contraddizione della sua duplice anima socialista da un lato e democratica - liberale dall’altro. Il PCI continua la sua politica di consolidamento dell’intesa con il PSIUP e la DC mentre quest’ultima, può non nascondendo una certa insofferenza per lo scomodo alleato di governo, si astiene da scelte nette, consapevole della coesistenza al proprio interno di orientamenti economici, sociali e istituzionali diversi.

L’essenziale questione della ricostruzione economica e delle scelte non indolori che essa richiede si arena, intanto, per le sempre maggiori resistenze delle forze conservatrici e degli esponenti del potere economico e finanziario agli incisivi interventi prospettati dal governo e dalle sinistre in particolare: cambio della moneta e istituzione di un’imposta progressiva sul patrimonio.

Tali misure di finanza straordinaria, che consentirebbero di tassare i sovrapprofitti di origine speculativa e di appesantire la pressione fiscale sugli aumenti di ricchezza determinati dalla guerra, verranno, infatti, gradualmente abbandonate sia per le forti pressioni degli ambienti conservatori, tra cui quelli dei Ministeri interessati, che per l’orientamento immobilista dei centri del potere economico, tesi a conservare i privilegi loro conferiti dal fascismo e dalla guerra[27]. La mancata attuazione dei due progetti impedisce il risanamento del bilancio dello Stato e apre la strada a un processo involutivo della politica economica e finanziaria che verrà confermato entro breve tempo dalla mancata nazionalizzazione di alcuni settori industriali di base, dall’abbandono dei progetti di riconversione industriale, dalla ripresa delle speculazioni in borsa dei capitali privati, stimolati dalla congiuntura favorevole. La spinta inflattiva, determinata dall’aumento della circolazione monetaria che provoca a sua volta l’aumento del deficit del bilancio statale, imprime una spinta notevole alle lotte del lavoro e peggiora le già precarie condizioni delle classi a reddito fisso[28].

Tra la fine del ’45 e l’inizio del ’46 i ceti imprenditoriali devono fronteggiare tutta una serie di azioni sindacali tese a recuperare una parte del dislivello tra salari e costo della vita e si appoggiano fondamentalmente alla DC perché questa eviti l’attuazione di misure riformatrici troppo spinte. La piccola e media borghesia, dal canto suo, continua ad essere schiacciata dall’inflazione e sviluppa un atteggiamento fortemente polemico verso lo spirito e gli uomini della Resistenza, confluendo in gran parte nel movimento dell’«Uomo qualunque»[29]che nelle elezioni amministrative a Roma e nel Centro-Sud limiterà seriamente il successo della DC.

Nel dibattito tra i fautori di una politica economica pianificata attraverso l’intervento statale e quanti, invece, richiedono un’economia di mercato che lasci libero gioco all’iniziativa privata, le sinistre fanno non poche concessioni all’impostazione liberista perché innovatrice e correttrice dell’autarchia e del corporativismo. È opportuno, comunque, sottolineare che il dibattito tra pianificatori e liberisti si attua su un piano prevalentemente teorico e a livello di studi per lo più accademici; di fatto il modello di ricostruzione economica risultò condizionato più dai programmi e dagli interventi in gran parte già prefissati dagli Alleati che non dai progetti «alternativi» di molti ricostruttori. Del resto lo stesso liberismo non tarderà a rivelarsi la copertura teorica che consentirà al capitalismo italiano di attuare una ricostruzione non soggetta ad alcuna forma di controllo da parte dello Stato e molto condiscendente nei confronti delle linee di sviluppo economico-politiche elaborate dagli USA(9bis). La compenetrazione tra capitale privato e industria di Stato, avviata negli anni ’30 dal fascismo, continuerà a perpetuarsi, inoltre, grazie alla mancata riforma dell’apparato statale e alla continuità delle strutture burocratico-amministrative dello Stato fascista[30].

Alle incertezze e al ritmo «frenato» della ricostruzione economica corrisponde sul piano politico un nuovo schieramento che vede il coagularsi intorno alla DC, e in certa misura al PLI, degli ambienti conservatori e moderati, proprio nel momento in cui il Paese sta per affrontare la scadenza delle elezioni dell’Assemblea Costituente e del referendum istituzionale.

In questo quadro complesso, che condanna il governo Parri ad un certo immobilismo, matura, nel novembre ’45, la crisi del ministero.

Il PLI (con le cui istanze formalmente si apre la crisi), chiede che il nuovo governo sia informato ad una sintesi di principi e di misure tese a superare, e in gran parte cancellare, l’eredità della Resistenza. Nonostante il nuovo ministero presenti la stessa base politica del precedente, il clima e l’azione politica saranno sostanzialmente diversi. La normalizzazione assumerà un ritmo più sostenuto, l’epurazione verrà definitivamente accantonata, la sostituzione dei prefetti e dei questori nominati dal CLN sarà attuata con sollecitudine.

CAPITOLO IV

DAL I CONGRESSO

ALL’ELEZIONE DELL’ASSEMBLEA COSTITUENTE

Nell’ottobre ’45 l’UDI tenne il suo primo Congresso nazionale per fare il punto su di anno di attività dell’organizzazione ma anche per programmare le future linee d’azione, alla luce della situazione politica ed economica del Paese[31].

Il Congresso si svolse a Firenze dal 20 al 23 ottobre e ad esso parteciparono, oltre alle dirigenti nazionali, numerose rappresentanti provinciali e regionali, rappresentanze di partiti e personalità politiche, tra cui lo stesso Presidente del Consiglio, Parri. Le relazioni delle dirigenti e gli interventi delle delegate furono caratterizzati da istanze e contenuti fedelmente ispirati allo spirito della Resistenza, che ribadivano la necessità di un impegno politico unitario tra i vari partiti. In realtà, come abbiamo visto, i segni di disgregazione dell’unità antifascista erano ormai numerosi e l’appello del Congresso si può considerare ispirato dalla volontà di salvare ad ogni costo almeno la collaborazione tra i partiti di massa per poter portare a compimento le riforme di struttura di cui il Paese aveva bisogno.

L’UDI si definiva «libera associazione che si propone la difesa di tutti gli interessi delle donne nel lavoro, nella società, nella famiglia e nello Stato» e, nell’art. 2 dello Statuto approvato nel corso dei lavori, indicava come propria finalità quella di organizzare «le donne italiane per la realizzazione degli ideali di libertà e di giustizia, di solidarietà popolare, di elevazione culturale, di rinnovamento democratico del paese e per contribuire attivamente e direttamente alla ricostruzione materiale, morale, sociale e politica della nazione».

Nei punti programmatici riassunti nel manifesto diffuso a conclusione del Congresso non si trovano sostanziali novità rispetto al tipo di rivendicazioni e di mobilitazione che l’UDI ha perseguito nel suo primo anno di vita; notiamo, semmai, un’accentuazione di certi motivi, come quello del diritto al lavoro e ad una partecipazione più attiva alla vita politica e sociale e del dovere di ogni donna di migliorare la propria preparazione culturale e politica. La questione del diritto al lavoro viene affrontata nella sua globalità e connessa a tutta una serie di temi che non sono solo quelli della retribuzione, degli avanzamenti di merito, delle qualifiche, pure ritenuti essenziali, ma anche quelli dell’ambiente di lavoro, delle previdenze igieniche, dell’assistenza, della creazione di mense e asili nido che «semplifichino il problema familiare» della lavoratrice e le garantiscano «serenità sul lavoro». Sempre nell’ambito del problema del lavoro femminile si affaccia nel corso del Congresso un altro tema destinato ad avere un certo sviluppo nell’impegno dell’UDI, di altre organizzazioni femminili del dopoguerra e delle forze politiche democratiche: quello del lavoro della casalinga. Per questa categoria di lavoratrici, «le più modeste, oscure, ignorate» l’UDI chiede una protezione giuridica adeguata che, come sappiamo, stenterà a realizzarsi e si affermerà attraverso conquiste che a tutt’oggi possiamo definire parziali, soprattutto perché non integrate da una sostanziale modificazione della mentalità e da una rivalutazione del lavoro casalingo rispetto al lavoro «esterno»[32].

L’impegno assistenziale verso la maternità e l’infanzia si precisa nei suoi aspetti pratici (alimentazione adeguata e sufficiente, lavoro non nocivo, assistenza medica, istituzione di ambulatori, asili, colonie, riformatori ecc.) ma non vengono trascurate rivendicazioni di misure legislative a tutela delle «madri nubili» e «dei bambini illegittimi». Il problema dell’istruzione, da rendersi «obbligatoria fino ai 14 anni» e quello di garantire ai ragazzi delle classi meno abbienti, «ai figli del popolo», la possibilità di accedere alle scuole superiori e ai corsi universitari, vengono affrontati in stretta connessione con la questione della gestione e dell’organizzazione del sistema scolastico per il quale si richiede una profonda modifica nei metodi, nei contenuti, nei «fini». Se si tengono presenti le profonde innovazioni introdotte nel sistema educativo e scolastico dal fascismo, si può capire l’insistenza sulla essenzialità del rinnovamento di questo settore «perché la scuola possa realmente educare cittadini coscienti della loro responsabilità nella società democratica e preparati alle esigenze della vita moderna».

Come risulta evidente non sono previste soltanto attività assistenziali di efficacia immediata, necessarie per tamponare le più tragiche conseguenze della guerra, ma anche forme di assistenza che implicano un profondo rinnovamento di strutture, la rimozione di vecchi apparati legislativi e di privilegi, l’introduzione nel nuovo ordinamento democratico di criteri del tutto nuovi, l’affermazione, in definitiva, di uno Stato che riconosce certi diritti umani e civili e non di uno Stato che eroga assistenza in mancanza di tale riconoscimento. Non a caso l’entusiasmo e l’impegno emersi dal Congresso si sintetizzarono in una richiesta che sembrava fornire garanzie per tutte le altre rivendicazioni specifiche: quella della Costituente.

Il programma approvato a conclusione dei lavori è di notevole modernità e non presenta contenuti e indicazioni di metodo che possano far escludere, almeno in teoria, la sua «apartiticità». Non si vede, infatti, come gli obiettivi in esso fissati potessero non essere condivisi da tutte le donne: democristiane, liberali, azioniste oltre che comuniste e socialiste. In realtà, però, nel quadro politico precedentemente delineato e caratterizzato dall’affievolirsi della volontà politica unitaria tra i vari partiti e dalla ripresa dei particolarismi ideologici e politici, le forze moderate si mostrarono quanto meno caute nei confronti delle conclusioni del Congresso e degli obiettivi che l’UDI si era posta in quella sede. Oltre ad insistere sulla necessità di uno sforzo solidale di tutte le donne nel processo di ricostruzione e rinnovamento del paese (Dobbiamo unirci per ricostruire, «Noi donne» 31-10-’45), il Congresso aveva dato una particolare accentuazione al tema della collaborazione tra UDI e CIF (Centro Italiano Femminile), l’organizzazione della maggioranza delle donne cattoliche. In una mozione di Adda Corti, di Milano, membro del Comitato direttivo dell’UDI era stato rivolto un appello a «tutte le associazioni femminili e per primo il CIF» ad aderire all’UDI e si era smentita ogni presunta forma di incompatibilità tra l’adesione all’organizzazione e l’iscrizione a qualunque associazione cattolica confessionale. «Noi donne» aveva pubblicato con un certo risalto una parte della mozione («Noi donne» 31-10-’45) ma la concorrenza tra UDI e CIF era ormai delineata e le numerose remore di ambienti cattolici, femminili e non, stavano già sviluppando un tipo di propaganda che poneva l’accento sul presunto carattere «ateo» dell’UDI, identificandola in pratica tout court col PCI, con l’anticlericalismo, con la distruzione dei valori religiosi e morali del cattolicesimo. Propaganda superficiale, oltre che dal carattere strumentale, che tuttavia, specie negli anni successivi, contribuì non poco a frenare l’adesione all’UDI da parte delle donne cattoliche, in particolare in quelle zone dove più forte era il monopolio della DC e della Chiesa sull’organizzazione sociale.

Anche sul piano organizzativo il Congresso introdusse novità di rilievo. A livello locale lo Statuto prevedeva la costituzione del «gruppo» (di Azienda, di caseggiato, di scuola, di laboratorio) oppure del «circolo» (di rione o di villaggio). Gli organi del circolo erano l’Assemblea, per la quale venivano previste convocazioni mensili e il Comitato direttivo, eletto dall’Assemblea ogni sei mesi e composto da sei a nove membri. A sua volta il Direttivo eleggeva una Segreteria di almeno tre membri, avente funzioni esecutive. La possibilità di frequenti controlli della base sul Direttivo e il rapido ritmo previsto per il ricambio delle dirigenti forniscono l’esempio di una struttura aperta che, tuttavia, si rivelerà inadeguata a garantire funzionalità ai circoli, specie quando le iniziative di base si moltiplicheranno. Si prevedeva che col Comitato direttivo collaborassero alcune commissioni di lavoro, ciascuna addetta a uno specifico settore di attività.

A livello provinciale, lo Statuto prevedeva la convocazione annuale del Congresso provinciale per l’elezione del Comitato direttivo e delle delegate al Congresso nazionale. Al Comitato provinciale, composto da sette a quindici membri e che eleggeva una Segreteria di almeno tre membri, era affidato il compito di suggerire e coordinare il lavoro dei gruppi, dei circoli e dei Comitati comunali della provincia.

A livello nazionale, lo Statuto prevedeva il Consiglio nazionale, da convocarsi una volta l’anno; esso eleggeva un Congresso nazionale composto da rappresentanti regionali e da altre donne di riconosciuto prestigio nel campo politico e culturale. Al Consiglio nazionale spettava il compito «di indirizzare ed eventualmente di coordinare tutto il lavoro nell’intervallo tra un Congresso e l’altro» (art. 19). Un altro organo nazionale era il Comitato direttivo il quale eleggeva una Segreteria di almeno tre membri e aveva come compito quello di «indirizzare e coordinare l’attività dei Comitati provinciali di tutta Italia secondo le decisioni del Congresso e le direttive del Consiglio nazionale» (art. 19).

Del Comitato direttivo eletto al primo Congresso dell’UDI entrarono a far parte, fra le altre, Gisella Floreanini (PCI), Rosetta Longo (PSIUP), Teresa Mattei (PCI), Rita Montagnana (PCI), Rina Picolato (PCI), Marisa Rodano (Sinistra Cristiana, dal ’46 nel PCI) e Maria Romita (PCI). Tra le personalità elette a far parte del Consiglio nazionale erano Ada Alessandrini (DC), Giovanna Barcellona (PCI), Adele Bei (PCI), Maria Calogero (PdA), Ada Gobetti (PdA), Lucia Corti (PSC), Lina Merlin (PSIUP), Giuliana Nenni (PSIUP), Teresa Noce (PCI).

Pochi giorni dopo la conclusione dei lavori si apriva la crisi del governo Parri di fronte alla quale l’UDI assunse un atteggiamento fortemente critico, vedendo venir meno l’impegno delle forze politiche alla solidarietà nazionale e all’avvio di concrete misure di ricostruzione, minacciate dall’evidente sopravvento «degli interessi di gruppo e di partito»[33].

Rina Picolato scriveva in proposito: «Le donne dell’UDI e delle associazioni democratiche italiane hanno compreso che non si risolvono le gravi questioni del lavoro, dal freddo e della fame... perdendo settimane di tempo a discutere se il governo debba tornare ad essere diretto dai vecchi uomini politici che ci hanno portato al fascismo, ma lavorando invece... ad aiutare la nostra Italia a rinascere dalle rovine e procurando al popolo italiano la possibilità di lavorare e di vivere» (Meno crisi e più solidarietà nazionale, «Noi donne» 15-12-’45). L’UDI promosse anche manifestazioni di protesta, in collegamento con altre organizzazioni di massa e con rappresentanti dei «partiti popolari», contro «l’intempestiva e dannosa crisi».

La costituzione del I governo De Gasperi, la cui composizione non presentava, in apparenza, sostanziali differenze rispetto al precedente, aveva, al contrario, un significato politico preciso: l’assunzione del potere esecutivo da parte di un cattolico per la prima volta nella storia unitaria del paese.

L’UDI salutava il nuovo governo augurandosi che esso sapesse, in vista della Costituente, «assicurare alla donna una sempre più vasta partecipazione alla vita nazionale». Il problema che impegnò, nei primi mesi del ’46, l’attività dell’organizzazione fu quello delle elezioni amministrative di marzo, in occasione delle quali l’UDI non solo svolse una intensa attività di propaganda a favore delle candidature femminili ma si preoccupò soprattutto di preparare ed educare le donne all’uso del nuovo diritto di voto. In modo più sistematico che in precedenza e attraverso un linguaggio piano ma polemico nei confronti di quanti richiedevano che il voto femminile fosse reso obbligatorio, nell’evidente intenzione di strumentalizzare le donne stesse soprattutto attraverso il richiamo confessionale, «Noi donne» svolse un’opera di chiarificazione dei termini del problema, invitando tutte le donne a valutare in piena libertà di coscienza se e come usufruire del nuovo diritto. La rivista sottolineava il dovere di ogni donna di partecipare alle elezioni ma rifiutava il metodo «fascista» di quanti speravano che l’obbligatorietà del voto femminile avrebbe bilanciato il successo dei partiti di sinistra (Marisa Rodano, Votare è un obbligo?, «Noi donne» 15-1-’46).

Rosetta Longo, richiamando le donne al dovere di impegnarsi a fondo nella campagna elettorale, scriveva: «Invitiamo le donne a votare, indirizziamole nella scelta verso quegli uomini che danno maggiore garanzia di saper difendere la pace conquistata, la democrazia, i diritti del popolo in genere e quelli delle donne» (dal discorso di Rosetta Longo al Consiglio nazionale in «Noi donne» 1-2-46).

In un appello ancora più incisivo chiedeva «Votate pei difensori del Popolo» e sottolineava il grande valore politico delle prossime elezioni amministrative in quanto di poco precedenti quelle per l’Assemblea Costituente: «Scegliere gli amministratori dei comuni significa scegliere coloro che provvederanno a soddisfare i bisogni fondamentali della popolazione. I trasporti... la repressione della borsa nera la manutenzione delle strade e degli edifici pubblici, i locali scolastici... Quale donna può dire che non l’interessa?... Non saranno certo i fascisti, gli speculatori... a rendersi conto della tragedia quotidiana di chi è senza lavoro. Solo coloro che vengono dal popolo, che vivono la vita del popolo possono veramente rappresentare il popolo e tutelarne gli interessi» («Noi donne» 15-2-’46).

Nei primi mesi del ’46 l’UDI sviluppa anche una campagna per l’aumento delle adesioni, per il tesseramento, per l’attuazione delle direttive organizzative emerse dal Congresso nazionale. Dalle pagine della rivista emerge un nuovo fervore, la volontà di trovare una base più ampia di consensi e di conquistare la fiducia di tutti quei settori femminili in cui gli obiettivi dell’organizzazione non sono conosciuti o non sono stati sufficientemente pubblicizzati. In vista dell’8 marzo, giornata internazionale della donna (è il primo 8 marzo che l’UDI festeggia nell’Italia liberata, inaugurando una tradizione che troverà sempre grande spazio nell’attività dell’organizzazione) gli obiettivi che ci si impegna a raggiungere per tale data, se sono in parte indubbiamente ambiziosi, sono anche coerente sviluppo del programma approvato a Firenze nell’ottobre ’45:

«1) raddoppiare il numero delle iscritte in rapporto all’ottobre ’45[34].

In ogni località, in ogni rione, in ogni azienda creare un circolo e un gruppo dell’UDI;

Questo saggio intende avere un carattere di ricostruzione storico-politica della nascita dell’Unione Donne Italiane. Con esso si è inteso mettere in risalto il significato e il ruolo che l’UDI ha avuto nel processo di lenta ma sicura maturazione politica e civile delle donne italiane tra la fine della guerra in Italia e il 1948. Anche la partizione cronologica scelta fornisce una prima misura dei criteri adottati nell’affrontare il problema. Il saggio non ha alcuna pretesa di completezza. È ovvio che ben altra ampiezza e altro significato avranno quegli studi, che ci risultano in via di elaborazione, condotti da dirigenti e militanti del movimento, anche per quanto riguarda la «ricostruzione dall’interno» della politica dell’organizzazione. Sento il dovere di ringraziare soltanto la compagna Maria, bibliotecaria dell’UDl nazionale, la quale ha collaborato con cortesia ed intelligenza al reperimento della maggior parte del materiale necessario alla ricerca.

Silvana Casmirri

2) far conoscere a tutte le donne come si vota, il pensiero dell’UDI sulle elezioni, il loro significato;

3) costituire presso ogni Camera del Lavoro la Commissione Consultiva Sindacale Femminile;

4) iniziare concretamente la lotta contro l’analfabetismo femminile;

5) ottenere risultati soddisfacenti nella campagna «tutto il latte e lo zucchero ai bambini». (I nostri obiettivi per l’8 marzo, «Noi donne» 15-1-’46).

Per quanto riguarda la campagna per il tesseramento si invitano i Comitati provinciali a richiedere sollecitamente il numero di tessere di cui prevedono di avere bisogno e si stabilisce, inoltre, che la quota mensile di adesione «dovrà tener conto della situazione e delle possibilità locali». L’organo che curerà a livello nazionale l’attività di tesseramento sarà il Comitato nazionale di Roma[35]. «Noi donne» riserva ampio spazio anche a tutte le altre iniziative in corso per festeggiare l’8 marzo, fornisce consigli sui modi di propaganda, fa appello alle sue aderenti e simpatizzanti perché si impegnino a diffondere il «numero speciale» della rivista che uscirà per l’occasione e collaborino alla compilazione di giornali murali per illustrare a tutte le donne, con un linguaggio chiaro, le iniziative previste e invitarle a collaborate. In tale occasione viene ribadita anche la necessità di un’azione unitaria tra l’UDI e altre associazioni, gruppi politici, forze sindacali e più precisamente si auspicano «accordi e collaborazione con il CIF, la CGIL, la F ILDIS, la FIDAPA, l’Alleanza per i diritti della donna, il Centro Femminile della DC e degli altri partiti, l’Associazione Donne Ebree Italiane, le Ragazze d’Italia, l’Unione Cristiana della Gioventù ecc., chiedendo l’adesione e la collaborazione di altri organi come l’Unione Popolare, la Dante Alighieri, l’ANPI, il Fronte della Gioventù ecc.» (8 Marzo ’46, «Noi donne» 1-2-’46).

Pochi giorni più tardi l’UDI si dichiarerà soddisfatta sia del bilancio dell’8 marzo che di quello delle elezioni amministrative del 10 marzo. In un articolo di Rita Montagnana Togliatti (Gli avvenimenti ci hanno dato ragione, «Noi donne» 1-4-’46) si rilevava la dimostrata infondatezza del timore che il voto alle donne portasse a una vittoria della reazione e «degli elementi più retrogradi». L’importanza dell’avvenimento veniva individuata nel fatto che «molte donne avevano per la prima volta assistito a una riunione pubblica, ad un comizio, avevano... per la prima volta sentito parlare di schede, di urne...», avevano cioè capito il significato e il meccanismo del nuovo diritto conquistato. Non mancava, naturalmente, una certa soddisfazione per i risultati cui le donne avevano collaborato votando «come noi prevedevamo, come le abbiamo esortate a fare, per i partiti del CLN, per i partiti repubblicani e democratici e non come molti speravano per la reazione e per i qualunquisti».

Tra gli oltre cinquemila comuni nei quali tra il marzo e l’aprile ’46 si svolsero i turni delle elezioni amministrative, le liste di sinistra erano prevalse in duemiladuecentocinquantasei comuni, contro i millenovecentocinquantacinque in cui la maggiore affermazione era toccata alla DC. Le liste socialiste e comuniste si erano affermate particolarmente nel Piemonte, in Lombardia, in Liguria, in buona parte dell’Italia centrale, in Puglia, in Calabria e in Sicilia mentre il successo democristiano si era manifestato particolarmente nel Trentino, nel Veneto, in Campania, in Basilicata e in Sardegna. Nel Mezzogiorno avevano, poi, riportato un affermazione non trascurabile le liste di destra tra cui quella dell’Uomo Qualunque, la cui crescita minacciava le possibilità di espansione elettorale della DC tra i ceti medi del Sud.

La legittima soddisfazione, espressa a nome dell’UDI, da Rita Montagnana per il successo delle sinistre sorvolava, tuttavia, su altri aspetti dei risultati elettorali quali, appunto, il delinearsi di un’ampia fascia di consensi intorno alla DC e ai suoi programmi moderato-restauratori e la presenza nel Mezzogiorno di grosse sacche di conservazione.

Intanto la situazione politica e le prospettive con cui i partiti si avviavano alla scadenza del 2 giugno aveva avuto modo di chiarirsi in occasione dei Congressi di partito che si erano svolti nei primi mesi del ’46. Il PCI aveva confermato il suo interesse prioritario per una politica di alleanze con i socialisti e i cattolici, nel quadro di un gradualismo che creasse le condizioni per le necessarie riforme di struttura; il PSIUP si era dimostrato profondamente diviso tra una corrente fusionista, favorevole alla creazione del «partito unico» e un’altra corrente, contraria a tale soluzione, ad ogni prospettiva rivoluzionaria e al ruolo egemone dell’URSS sul movimento operaio internazionale. Il Partito d’Azione, intanto, conosceva la sua crisi definitiva, cui contribuirono, oltre alla caduta del governo Parri, sia le conseguenze del forte ridimensionamento elettorale, in occasione delle amministrative, che la scissione seguita all’uscita dal partito di Parri, di La Malfa e di Spinelli i quali, all’indomani del I Congresso del partito (4-8 febbraio ’46), avevano fondato il «Movimento democratico repubblicano». Il contrasto tra la corrente socialista e quella democratica aveva visto il successo della prima con grave irritazione dei comunisti e dei socialisti che rimproverarono al partito di voler occupare uno spazio non suo, già coperto dai due grandi partiti di massa della sinistra, e di rinunciare in tal modo a svolgere quell’utile funzione aggregatrice di ceti medi e di «tutti quei piccoli e friabili gruppi nei quali si disegnava il centro del panorama politico italiano»[36]. Intanto al centro e a destra acquistava una più precisa fisionomia quello schieramento di forze moderate di cui la DC diventava il perno, occupando uno spazio e una funzione fin allora svolte dal partito liberale, condannato ormai ad un ruolo marginale e rappresentativo solo dei ceti borghesi più retrivi[37]. Sul problema istituzionale le sinistre si erano pronunciate decisamente a favore della repubblica; nella DC, divisa al suo interno, prevaleva l’orientamento repubblicano mentre i liberali avevano confermato la loro fedeltà alla monarchia. Profonde divergenze si erano manifestate anche sul modo di eleggere la Costituente e sulle competenze di quest’organo: i democristiani e i liberali richiedevano un referendum popolare, con obbligatorietà del voto, e la limitazione dei compiti dell’Assemblea alla redazione della carta costituzionale, per poter conservare all’esecutivo l’effettiva guida del Paese, mentre le sinistre erano contrarie sia al referendum che al voto obbligatorio che alla limitazione dei poteri della Costituente. Di fatto prevalse una soluzione pesantemente condizionata dalle richieste della DC e dei liberali, soluzione-compromesso forzata dal timore di un ennesimo rinvio della consultazione. In vista del 2 giugno i sistemi di mobilitazione e di condizionamento dell’opinione pubblica furono esercitati con mano pesante oltre che dalle forze monarchiche anche dagli Alleati e dalla Chiesa che sostennero il rinnovamento promesso dal nuovo re Umberto II. La propaganda della DC e delle forze conservatrici non rinuncio a far leva sull’argomento confessionale, identificando le sinistre con l’ateismo e con quelle forze che volevano la distruzione di valori fondamentali come la religione e la famiglia. Questi toni da crociata, che saranno molto più accentuati nelle elezioni politiche del ’48, cominciarono ad esercitare il loro ruolo condizionante sull’opinione pubblica fin dalla vigilia della consultazione del 2 giugno.

L’UDI è consapevole che il richiamo confessionale può dimostrarsi efficace soprattutto sulle donne, su quella grande maggioranza di donne non ancora politicizzate, raggiunte più dalla voce del prete che non dalla propaganda dei partiti di sinistra, condizionate per tradizione, educazione e modi di vita dai principi religiosi e morali della religione cattolica e dalle strutture organizzative della Chiesa. È per questo che, oltre a schierarsi «accanto a tutte quelle forze che combattono per la Repubblica democratica», l’UDI imposta la sua battaglia politica alla luce di un’esigenza fondamentale: chiarire a tutte le donne che votare per i partiti di sinistra e seguire l’orientamento espresso dall’organizzazione non significa rinnegare i propri principi religiosi né il proprio sistema di vita. In un immaginario (ma fino a che punto?) dialogo tra due donne, entrambe cattoliche, di cui una è portavoce dei dubbi e delle riserve indotte dalla propaganda clerico-conservatrice e l’altra è un’iscritta all’UDI, vengono confutate le accuse per cui le donne dell’UDI sono tutte «atee e comuniste che vogliono distruggere Dio e la religione» e l’organizzazione «è contro la famiglia... vuole il divorzio e vuole togliere i figli ai genitori» (Perché queste menzogne?, «Noi donne» foglio speciale, 7-4-‘46). L’accento viene posto particolarmente sull’ampia presenza all’interno dell’UDI di donne «cattoliche e praticanti» per le cui convinzioni religiose si esprime il massimo rispetto, e sul fatto che promuovere la partecipazione attiva delle donne alle scelte politiche che implicano un democratico rinnovamento del Paese non significa combattere i valori religiosi e morali cattolici. Il tono dell’articolo è volutamente rassicurante e si esprime attraverso un linguaggio semplice che adotta modi espressivi e termini per diversi aspetti simili a quelli adottati dalle pubblicazioni parrocchiali, forse nell’intenzione di fronteggiare la propaganda clericale con le sue stesse armi All’apporto già fornito dalle donne al successo elettorale dei «partiti del popolo» è dato un rilievo molto contenuto. La conferma dell’impegno dell’UDI e delle sue aderenti in occasione del 2 giugno è implicita nella seguente conclusione «… le donne vogliono e sanno pensare con la loro testa... e non intendono farsi infinocchiare da nessuno». L’articolo rivela la duplice esigenza dell’UDI di fiancheggiare le sinistre in occasione del referendum e delle elezioni per la Costituente e di non perdere, al tempo stesso, per tale scelta di campo, l’appoggio e le simpatie di una parte almeno delle donne cattoliche non tanto riteniamo, in occasione del 2 giugno quanto nei confronti della più generale politica dell’organizzazione. Sul piano del concreto lavoro di propaganda l’UDI lancia attraverso la rivista e attraverso le direttive ai Circoli l’appello ad una mobilitazione capillare da attuarsi per mezzo della stampa locale, della diffusione di «Noi donne», della compilazione di giornali murali, della creazione di «responsabili elettorali di strade, di frazioni, di caseggiato per propagandare e insegnare come si vota e perché», di riunioni di rappresentanti di tutti i partiti democratici «per includere nelle liste, nelle commissioni elettorali e nei seggi elettorali il maggior numero di donne».

«… Ogni iniziativa - leggiamo su «Noi donne» del 1 aprile - deve far sì che strati sempre più vasti di donne, di popolazione, guardino a noi con fiducia e votino per la repubblica democratica».

L’UDI insiste sulla necessità che si compili il maggior numero possibile di liste femminili le cui candidate si impegnino a una politica a favore delle donne e delle fondamentali riforme di struttura di cui il Paese ha bisogno; si accoglie, tuttavia, con favore anche la compilazione di liste femminili da parte dei partiti non di sinistra[38].

Il 2 giugno, oltre alla vittoria della Repubblica, con 12.718.641 voti contro i 10.718.502 della monarchia, la consultazione elettorale per la Costituente vede una forte affermazione delle sinistre nel Centro-Nord e un altrettanto consistente successo della DC nel Mezzogiorno e nelle isole, dove il partito erode sensibilmente le posizioni della destra, che tuttavia mantiene complessivamente buone posizioni percentuali. Dei partiti minori il partito repubblicano ottiene una discreta affermazione mentre il Partito d’Azione esce dalla consultazione nettamente sconfitto[39].

All’Assemblea Costituente, che si insedia il 25 giugno, entrano 207 rappresentanti della DC, 115 del PSIUP, 104 del PCI, 23 del PRI, 2 della Concentrazione Democratica Repubblicana, 7 del Partito d’Azione, 41 dell’Unione Democratica Nazionale, 30 del fronte dell’Uomo Qualunque, 16 del Blocco Nazionale della libertà, comprendente una parte dei gruppi monarchici, e 1 del Partito Cristiano Sociale[40]. Dei quasi 11 milioni di voti monarchici forniti dall’elettorato «d’ordine», le destre nel loro insieme (liberali, qualunquisti, monarchici del Blocco Nazionale e altre liste minori), beneficiano solo in parte (circa 4 milioni di voti) mentre la restante, cospicua parte confluisce nella DC.

Senza soffermarci sull’ovvio significato storico dell’esito della consultazione del 2 giugno, sia sotto il profilo della scelta istituzionale che del rapporto di forze che ne emerge, basti considerare gli effetti politici che condizionano la composizione del nuovo governo: i tre partiti di massa, DC, PCI, PSIUP, usciti vincitori dalla prova elettorale, si avviano a una collaborazione imposta dai risultati, ma difficile e irta di incognite, cui De Gasperi nel ’47 preferirà una soluzione di centro-destra. La stessa distribuzione dei dicasteri e le non impegnative dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio sono le spie dell’ispirazione moderata del nuovo governo la cui nascita coincide con il rinnovarsi di forti pressioni degli ambienti cattolici ufficiali sulla DC perché questa muti indirizzo politico. Contemporaneamente le iniziative di lotta sindacale e le manifestazioni di piazza promosse con crescente frequenza dal PCI nella seconda metà del ’46 e l’ampio margine di massimalismo e settarismo presenti nella base del partito per esplicito riconoscimento della stessa classe dirigente comunista, non contribuiscono a rassicurare l’opinione pubblica moderata che ha fatto blocco intorno alla DC proprio in virtù dell’impegno anticomunista di quest’ultima. Diviso tra una crescente polemica nei confronti dei comunisti e la convinzione che non sia opportuno abbandonare la formula del tripartito, il partito di De Gasperi non fa mistero di considerare la formula del nuovo governo come una soluzione forzata, imposta da uno stato di necessità10bis.

Le sinistre, dall’altra parte, non si presentano come un fronte compatto e ciò consente a De Gasperi di chiarire senza eccessivi contraccolpi l’ispirazione moderata che intende imprimere al nuovo governo. I quadri comunisti e la base, dopo i deludenti risultati del 2 giugno, attraversano una fase di riflessione critica sugli obiettivi e sulla struttura organizzativa del partito; pertanto il PCI affronta il negoziato sul programma di governo in un momento di notevole tensione e confusione.

Nel PSIUP, nonostante i più soddisfacenti risultati elettorali, si fa più acuta la polemica tra «autonomisti» e fautori di una più stretta intesa col PCI, mentre la richiesta di un preciso e organico programma economico governativo, avanzata come pregiudiziale al ritorno dei socialisti al governo, viene presto lasciata cadere nel corso delle trattative per l’accordo. Ne risulta un compromesso in cui viene accantonato ogni proposito di pianificazione e di controllo sull’iniziativa privata e che testimonia lo stato di confusione e di astrattezza ideologica ancora ampiamente presenti nei programmi economici delle sinistre. Il nuovo governo accentuerà, inoltre, l’importanza della ricostituzione dell’apparato statale, del controllo dell’ordine pubblico e dell’inserimento dell’Italia in una precisa area di influenza e di relazioni internazionali: quella controllata dagli USA.

L’UDI accolse i risultati del 2 giugno con discreta soddisfazione, pur rilevando la scarsità dei nominativi femminili inclusi nelle liste, soprattutto nell’Italia meridionale, e delle deputate elette. Trattandosi della prima grande prova elettorale cui le donne partecipavano sia in qualità di elettrici che di candidate, l’attesa era vivissima soprattutto per il fatto che l’andamento delle elezioni avrebbe consentito di fare un bilancio anche dell’impegnativa attività promossa dall’UDI sul piano dell’emancipazione e dell’educazione delle donne alla partecipazione alla vita democratica.

«Con grande trepidazione abbiamo seguito i risultati delle elezioni - scriveva Rosetta Longo - man mano che essi venivano dati e quando sentivamo il nome di una donna, a qualunque partito essa appartenesse, provavamo una gioia profonda fatta un po’ d’orgoglio e molto della certezza che le donne italiane avrebbero finalmente avuto tenaci e competenti rappresentanti per tutelare i loro interessi e difendere i loro diritti. Nel complesso i risultati sono stati soddisfacenti: 21 Deputate alla Costituente»[41].

Delle 21 elette, 11 erano dirigenti dell’UDI: 9 presentate nelle liste del PCI e 2 nelle liste del PSIUP. Se è indubbio che la mobilitazione e la propaganda promosse dall’UDI, anche a livello periferico attraverso i Circoli, la diffusione della stampa associativa, comizi e incontri, influenzarono una parte dell’elettorato femminile convincendolo della necessità di una specifica rappresentanza che tutelasse i suoi interessi, è anche certo che le undici dirigenti dell’UDI non sarebbero state elette se non fossero già state per lo più esponenti dei partiti di sinistra e se questi ultimi non avessero, quindi, impegnato il loro apparato e la loro base elettorale in tal senso.

In un appello a tutte le donne elette alla Costituente, l’UDI confermò il significato che attribuiva all’elezione delle ventuno deputate e auspicò tra loro un’unità d’intenti e di impegno politico «al di sopra di ogni differenza ideologica». Si trattava di un ennesimo tentativo di mantenere un discorso unitario sull’emancipazione femminile con le componenti dei partiti non di sinistra, proprio nel momento in cui la frantumazione dell’unità antifascista aveva già cominciato a produrre i suoi effetti anche all’interno dell’organizzazione, come provato dalla presenza sempre più esigua delle rappresentanti dei partiti di centro-destra e dalla maggiore efficacia del reclutamento, quando esso attingeva alla base elettorale del partito comunista e del partito socialista. Nell’appello l’UDI confermava i punti programmatici su cui da tempo si era impegnata (parità giuridica tra i due sessi, diritto al lavoro e alla parità di retribuzione, protezione della madre e dell’infanzia, ricostruzione che garantisse una casa e un lavoro ai senzatetto, ai profughi, ai disoccupati, lotta contro l’analfabetismo e per la normalizzazione dell’attività scolastica) e invitava «le Deputatesse» a impegnarsi sia «sulle questioni di principio» che sui problemi materiali del Paese giacché «esse, che in maggioranza sono madri e hanno una estesa esperienza di vita femminile e sociale, sono le interpreti più qualificate per rappresentare in Montecitorio le famiglie italiane» (Il compito delle nostre deputate. Salvare le famiglie italiane, «Noi donne» 20-7-‘46).

CAPITOLO V

RINNOVAMENTO, IMPEGNO POLITICO

E DIFFUSIONE DEL MOVIMENTO

La situazione economico-sociale del Paese esigeva interventi sostanziali la cui urgenza era messa in luce dal moltiplicarsi delle azioni sindacali e dalle vertenze sorte nelle campagne di tutta la penisola. Il movimento dei contadini e dei braccianti, nelle campagne meridionali in particolare, non accennava ad esaurirsi ed anzi giunse a punte di esasperazione che culminarono spesso in gravi e cruenti scontri con la forza pubblica che sosteneva e coadiuvava la reazione degli agrari[42]. Anche la questione dei Consigli di gestione intorno alla quale si era incentrato il non sempre chiaro dibattito sulla democratizzazione delle strutture aziendali e sulla partecipazione delle rappresentanze operaie alla gestione delle aziende stesse, conosceva una battuta d’arresto e veniva in un certo senso liquidata con la realizzazione di Consigli dalle funzioni fortemente limitate, alla FIAT[43].

Il logoramento dell’intesa tra le forze politiche si manifestava così anche sul piano economico-sociale, comportando un progressivo peggioramento delle condizioni dei lavoratori e lasciando ampi spazi a un tipo di ricostruzione basata sui criteri del profitto, della libera iniziativa e della speculazione finanziaria. Il secondo ministero De Gasperi accentuò il carattere di non intervento in materia economica e fiscale di quello precedente e favorì la speculazione borsistica che in breve portò al raddoppio dei valori azionari. Tale congiuntura favorevole guidò infatti i capitali privati verso i titoli industriali piuttosto che verso quelli di Stato. Contemporaneamente si accentuò la spinta inflazionistica di cui fecero le spese, insieme ai lavoratori dipendenti, le classi medie a reddito fisso; inoltre, nonostante l’inizio delle forniture gratuite di materie prime dell’UNRRA, provenienti dagli USA; dopo qualche cenno di miglioramento, la produzione industriale nei primi mesi del ’46 tornò a ristagnare. Non fu, del resto, casuale che nelle elezioni amministrative a Roma e in alcuni grossi centri del Mezzogiorno, nell’autunno ’46, il movimento dell’Uomo Qualunque, espressione della protesta dei ceti medi e piccolo borghesi, sottraesse alla DC una parte del suo elettorato e nella Capitale si affermasse addirittura come la forza politica quantitativamente più consistente[44].

Le sinistre non mancarono di fare l’autocritica sulla permissività dimostrata verso l’impostazione liberistica della ricostruzione economica e il PCI affiancò allora all’attacco alla politica impersonata dal ministro del Tesoro, Corbino, l’elaborazione di un «nuovo corso di politica economica» i cui cardini venivano indicati in un maggior controllo dello Stato sulle speculazioni borsistiche, in un’energica politica fiscale verso i ceti abbienti, in un’azione pianificatrice del governo «al centro e alla periferia», nel controllo sulla produzione, nell’aumento delle razioni alimentari, nella nazionalizzazione delle imprese monopolistiche e nella realizzazione della riforma agraria[45].

Una delle prime misure rivendicate con estrema urgenza dalle sinistre, e a cui De Gasperi consentì, quasi a bilanciare le ben più gravi omissioni e insufficienze della politica governativa, fu quella della concessione del cosiddetto «premio della Repubblica» ai salariati industriali e agricoli. Tra gli impegni assunti dalle dirigenti dell’UDI elette alla Costituente ci fu anche,quello di ottenere l’estensione del premio alle donne capofamiglia, sia vedove di guerra che mogli di prigionieri. Su sollecitazione di alcuni Circoli, l’UDI nazionale presentava al governo, attraverso le sue deputate, il seguente ordine del giorno: «L’Assemblea Costituente, interprete della giustificata attesa popolare, chiede al Governo di voler estendere l’assegnazione del Premio della Repubblica alle vedove di guerra e alle mogli di prigionieri; nella misura di lire 3000 come manifestazione di solidarietà per le durissime condizioni di vita in cui versano queste donne con le loro famiglie...».

Nel discorso alla Costituente con cui Nadia Gallico Spano, il 25 luglio ’46, accompagnò la presentazione dell’o.d.g. veniva sottolineato il carattere del tutto insufficiente e provvisorio del provvedimento, definito «un piccolo respiro» per i lavoratori e le loro famiglie. Il beneficio del premio, continuava la Spano, avrebbe dovuto essere «inevitabilmente» seguito da nuovi provvedimenti sostanziali e «impegnativi» se il governo avesse voluto dimostrarsi «effettivamente il primo governo della Repubblica italiana cioè di quel regime che deve essere il regime di tutti gli italiani e non di poche caste privilegiate»[46]. Nel rivendicare il diritto al beneficio del premio per le vedove di guerra e le mogli dei prigionieri di guerra («categorie di capofamiglia troppo spesso... dimenticate ed escluse dai minori benefici») si richiedeva che queste donne venissero considerate come disoccupate e pertanto aventi diritto alle forme di assistenza previste per tale categoria.

Il 26 luglio il Consiglio dei Ministri approvò un decreto che stabiliva l’erogazione del «premio della Repubblica» e ne estendeva la corresponsione alle mogli dei prigionieri di guerra. Per le vedove capofamiglia si stabiliva un anticipo sui prossimi aumenti delle pensioni, pari all’ammontare del premio stesso. L’iniziativa delle deputate comuniste, socialiste e democristiane, a nome delle quali Nadia Gallico Spano pronunciò il suo discorso, dimostrava come, nonostante i più difficili rapporti tra DC e sinistre, le componenti femminili dei partiti potessero ancora affrontare in modo unitario certi problemi connessi alla ricostruzione, all’assistenza e all’attuazione di forme di giustizia sociale.

All’interno dell’UDI e su «Noi donne» però, il tono e il linguaggio con cui si rivendicavano certe misure a favore delle classi lavoratrici e dei disoccupati tendevano implicitamente a dissociare le sinistre dalle responsabilità di una politica governativa carente e sottolineavano che la linea politica attuale era gestita prevalentemente dalla DC. Se, infatti, la presenza delle sinistre al governo, pur con tutte le limitazioni imposte a queste ultime, frenava l’UDI dal polemizzare in modo troppo aperto e vivace con il governo De Gasperi, tuttavia l’organizzazione continuò a denunciare le insufficienze della politica economica e sociale imputandole alle resistenze dei settori più conservatori, alla Confindustria, alle organizzazioni padronali in genere. Contemporaneamente veniva dedicato ampio spazio alla campagna per l’aumento dei salari, degli stipendi e delle pensioni e per la diffusione del sistema cooperativo.

Possiamo dire che, al pari dell’azione politica delle sinistre, anche quella dell’UDI si trova, nell’estate-autunno ’46, su posizioni per lo più difensive, di fronte alle soluzioni moderate che la congiuntura economica, la riacquistata autonomia delle classi medio-alte e i condizionamenti internazionali stanno imponendo a tutto il Paese. Forse proprio tale situazione spinge l’UDI ad affrontare con una certa energia sia i problemi organizzativi, di funzionamento, che quelli di diffusione del movimento, non solo per garantire maggior forza alla politica dell’organizzazione ma anche per coprire spazi socio-economici, culturali e professionali femminili ai quali si ritiene di non aver dedicato sufficiente attenzione. Sulla funzionalità dell’apparato organizzativo una delle dirigenti, Anna Lorenzetto, sostiene su «Noi donne» la necessità di una maggiore disciplina: scarsi o inesistenti appaiono infatti i collegamenti tra i comitati provinciali e la direzione dell’UDI come pure quelli tra i comitati provinciali e i circoli. Le cause vengono individuate nelle difficoltà finanziarie e di trasporto ma soprattutto «nello scarso interesse verso l’attività altrui» ossia verso l’attività svolta ai vari livelli dell’organizzazione. La Lorenzetto polemicamente conclude che «È necessario non confondere quello che devono essere le forme fluide, aperte, penetrative della base con la serietà, la disciplina di lavoro dei vari comitati direttivi, da quello nazionale a quello del più piccolo circolo... Ci dobbiamo porre su... (un) piano di disciplina e di lavoro». Le critiche rivolte ai comitati e ai circoli riguardano principalmente lentezze ed omissioni nell’attività di propaganda e di diffusione di nuovi circoli e nell’invio delle relazioni periodiche sull’attività svolta. La rilevata esigenza di maggiore disciplina e serietà risponde, inoltre, al bisogno di fornire dell’UDI l’immagine di un’organizzazione funzionale ed efficiente, che offra il minore spazio possibile alle critiche e alle polemiche dei suoi avversari. A proposito dell’ampliamento delle adesioni all’UDI Anna Lorenzetto dedica particolare attenzione al problema delle «indipendenti» a proposito delle quali scrive: «bisogna curare maggiormente le indipendenti... quelle donne cioè che non appartengono a nessun partito e in particolare a quelli che hanno aderito all’UDI, (che) rimangono più difficilmente raggiungibili e sono in un certo senso meno responsabilizzate ai problemi sociali e femminili...; è certo che il problema delle indipendenti si pone come quello che più va curato sul piano organizzativo e politico» («Noi donne» 1-8-’46). La Lorenzetto rileva pure come l’UDI finora non si sia preoccupata sufficientemente di coinvolgere nella sua azione di emancipazione femminile categorie come quelle delle insegnanti e delle professioniste («per le quali si è fatto poco»). «Mi si dirà ancora - scrive - non si degnano, non vogliono venire accanto alle operaie. Non è sempre vero. Ma in questi casi occorre avere pazienza e tenacia... Non dobbiamo loro chiedere ma dare: difendere i loro interessi, affrontare i loro problemi».

L’impressione che si ricava da queste parole è che l’UDI, oltre ad accrescere la propria influenza nei vari settori socio-economici e di attività, voglia ampliare in particolare la propria azione tra le donne appartenenti ai ceti medi, ponendosi in posizione concorrenziale con le organizzazioni femminili della DC, la quale sta efficacemente egemonizzando in chiave moderata i bisogni e le aspirazioni di tali ceti. Sullo stesso numero della rivista viene annunciato, ma senza eccessivo rilievo, il reingresso nell’UDI di un gruppo di dirigenti liberali «di sinistra» distaccatosi dal partito con deliberazione del 18 luglio 1946.

L’UDI avverte tutti i condizionamenti che le derivano da un’identificazione tout court con l’area social-comunista e, soprattutto, il peso dei pregiudizi che frenano molte donne di educazione cattolica o appartenenti alle classi medie dall’aderire all’organizzazione e sviluppa, allora, una serie di punti programmatici che spera riescano a coinvolgere più ampi schieramenti di masse femminili. Sulla rivista viene dato, ad esempio, maggiore spazio ai problemi dell’istruzione e dell’informazione e al problema dell’infanzia, mentre la battaglia contro le speculazioni nel settore alimentare e contro l’aumento dei prezzi spesso prende spunto da notizie e cifre riportate da quotidiani come «Il Popolo» e «Il Tempo» oltre che «l’Unità» e l’«Avanti!». Questa esigenza di diffusione del movimento si esprime in modo particolarmente chiaro sulla stampa associativa che da questo periodo comincia ad integrare sempre più i suoi contenuti maggiormente politicizzati con notiziari dall’interno e dall’estero note culturali, annunci di iniziative e pubblicazione di mozioni unitarie tra l’UDI, il CIF e altre organizzazioni femminili. Nonostante tali sforzi, però, lo spazio politico occupato dall’UDI continua a corrispondere in maniera prevalente a quello del partito comunista e del partito socialista, come testimoniano certe lodi, che oggi appaiono palesemente ingenue, della «democrazia» nell’URSS, dove sarebbe stata applicata, in «29 anni di libertà» una reale democrazia e dove le donne avrebbero raggiunto da tempo un’effettiva parità con l’uomo nel lavoro, nello studio, nelle possibilità d’accesso a tutte le professioni (29 anni di libertà, «Noi donne» 1-8-’46). Anche di Stalin e della politica russa in genere, la rivista offre un’immagine particolarmente benevola e tranquillizzante, mettendo in risalto l’impegno dell’URSS per il disarmo mondiale espresso da Molotov alla Conferenza dei quattro, tenutasi a Washington («Noi donne» 15/30-11-’46).

Il problema dell’identificazione dell’UDI con le cellule femminili del PCI, operata dalla maggioranza dell’opinione pubblica, e da certi settori, non soltanto femminili, dello stesso partito è affrontato nel corso di una conferenza che Togliatti tiene di fronte ad un gruppo di delegate comuniste dell’organizzazione, nel settembre ’46. Dopo avere tracciato le linee di lavoro delle donne nel partito il leader comunista afferma la necessità che il partito stesso ponga al centro dei suoi compiti quello del lavoro «tra» le donne, superando quella «mentalità arretrata che esclude la possibilità di attirare la donna a un lavoro politico (e) che prevale ancora nelle file del nostro… partito». Togliatti mette in guardia contro la semplicistica tendenza a considerare la cellula femminile come un organismo che si occupa esclusivamente di questioni femminili (nel qual caso «non avreste - egli afferma - un organismo di partito ma, semmai, una frazione dell’UDI») e sostiene che proprio dopo il 2 giugno è emerso più che mai chiaro il bisogno di un’organizzazione femminile differenziata, che faciliti «la soluzione del problema della conquista di quei milioni di donne che, se non hanno votato contro i partiti democratici di sinistra, non hanno neanche votato per essi». Togliatti dichiara che la direzione del partito è decisamente contraria alla tendenza, manifestatasi nel PCI stesso dopo le elezioni di giugno, a liquidare l’UDI. Viene ugualmente condannata la tendenza a identificare l’UDI col partito giacché la prima è un’organizzazione di massa con forme organizzative e scopi diversi da quelli del partito che è «l’organizzazione politica della avanguardia». Criticando certi ambienti di partito che per primi operano tale confusione, Togliatti sollecita le donne comuniste a non voler egemonizzare sia la linea politica che i ruoli dirigenti dell’organizzazione e a lasciare spazio alle iniziative e alle rappresentanti di altri partiti («Le democristiane, le socialiste, le azioniste, le indipendenti, masse di donne, cioè, che non sono e non possono essere comuniste») per poter realizzare un’autentica organizzazione femminile di massa.

Un accenno particolare è dedicato alla «sincerità» degli appelli alla collaborazione rivolti alle donne cattoliche. Nel discorso del leader comunista, che investe anche le strutture organizzative dell’UDI, ritenute ancora insufficienti e disorganiche, è evidente la preoccupazione di fornire dell’UDI una fisionomia interpartitica, di organismo pluralistico nel quale la partecipazione di donne di vari orientamenti politici acquisti un carattere di massa e costituisca uno dei condizionamenti a quella vasta politica di alleanze che il PCI, pur perseguendo da tempo, vede al momento gravemente minacciata dal deterioramento degli equilibri politico-sociali in atto nel Paese[47].

Nel mese di ottobre, in occasione del I Convegno nazionale della Federterra (Bologna 17-21 ottobre) l’UDI, oltre a dare grande risalto all’avvenimento, assume un impegno congiunto con le delegate al Congresso, la Commissione consultiva femminile della CGIL, il CIF e l’ARI (Associazione Ragazze d’Italia)[48]. Nella mozione unitaria si rivendicavano, per le donne contadine, il diritto al lavoro e alla parità di trattamento con gli uomini, l’abolizione di tutte quelle prestazioni e regalie che ancora gravavano in particolare sulla donna, la parità di trattamento previdenziale e assistenziale, un migliore funzionamento delle scuole rurali per i figli dei lavoratori dei campi e la costruzione e il risanamento delle abitazioni rurali, per garantire, «minime condizioni di vita civile» nelle campagne. Pur non essendo mancate fino a quel momento nei programmi dell’UDI rivendicazioni a favore delle lavoratrici dei campi, questa è la prima presa di posizione organica dell’organizzazione sui problemi delle donne contadine e, più in generale, sul problema della democratizzazione delle condizioni di vita e di lavoro nelle campagne e della secolare fame di terra dei braccianti e dei contadini poveri del Sud (Le contadine per la difesa dei loro diritti; Occupazioni delle terre al Sud, «Noi donne» 15/30-11-’46). Si tratta di un filone che l’UDI svilupperà con grande impegno e capacità di mobilitazione soprattutto nel ’47, in occasione del moltiplicarsi delle dimostrazioni, degli scioperi e delle occupazioni delle terre nelle campagne del Centro-Sud.

Nello stesso mese di ottobre, il partito comunista e il partito socialista rinnovavano il patto d’unità d’azione. L’avvenimento acuì quel dissenso tra le correnti del PSIUP sui rapporti col PCI che, nel gennaio, sarebbe culminato nella scissione socialista, da cui nacquero il Psli, che si richiamava alla tradizione socialdemocratica e riformista, e il PSI, erede di quanto era rimasto del filocomunista PSIUP[49].

Contemporaneamente alla scissione socialista, che indebolì notevolmente le sinistre in genere, De Gasperi compì un viaggio negli USA nel corso del quale si delinearono taluni condizionamenti americani all’evoluzione della politica interna italiana, nel quadro di una nuova strategia USA nel settore occidentale e mediterraneo in particolare. Tali condizionamenti erano il prezzo degli ulteriori e sostanziosi aiuti economici che gli Stati Uniti si impegnarono a fornire per la ricostruzione del nostro Paese.

In occasione del viaggio di De Gasperi e della quasi contemporanea crisi di governo, giustificata con la scissione socialista, l’UDI sottolinea con una polemica che tradisce giustificati timori soprattutto sul futuro spazio politico delle sinistre, l’inopportunità della crisi stessa. Accanto a tale critica viene espressa, tuttavia, soddisfazione per le promesse di aiuto USA ma si precisa pure che il governo, oltre a garantire una corretta utilizzazione di quelli, deve scuotersi dall’immobilismo in cui si trova e dare prova di «energia... e continuità». Nell’auspicare «… che l’accordo sia presto raggiunto tra i partiti che sono stati uniti fino ad ora anche nei momenti più difficili e gravi per il nostro paese» l’articolo, firmato dalla redazione di «Noi donne», esprime il timore che le sinistre possano venire emarginate dallo spazio politico governativo. Pur non facendosi alcun cenno ai verosimili condizionamenti degli USA in materia di politica interna italiana, tale preoccupazione doveva indubbiamente essere causata anche dal viaggio di De Gasperi. oltre che dalla crisi in sé.

Per il momento, tuttavia, il Presidente del Consiglio ritiene ancora prematura l’estromissione delle sinistre dal governo, implicita nel corso moderato da tempo delineatosi, sia perché il suo terzo ministero ha di fronte importanti scadenze (la firma del Trattato di pace e la definizione dei rapporti tra Stato e Chiesa da includere nella Costituzione) sia per timore delle reazioni popolari. Intanto l’aumento dell’inflazione e del costo della vita continua ad essere uno dei problemi più gravi. Tra la fine del ’46 e i primi mesi del ’47 quasi su ogni numero della rivista dell’UDI compaiono denunce di speculazione, di operazioni di mercato nero, di violazioni di norme che regolano la vendita di certi prodotti. Si leggono, inoltre, ripetuti appelli a sottoscrivere al «prestito della ricostruzione», provvedimento adottato per finanziare gli alti costi di quella e rimborsabile per estrazioni annuali col rendimento del 3,50%. «… 975 = 1000 ma solo per chi sottoscrive al Prestito della Ricostruzione; 1000 = 0 se non vinceremo la battaglia dell’inflazione» leggiamo su «Noi donne» del 15-12-’46 - 15-1-’47 e ancora «ricostruzione, stabilità, benessere, le 3 mete del prestito... sottoscrivere è dunque non solo un dovere ma anche un buon affare» («Noi donne» 1/15-12-’46).

Dagli inizi del ’47 la già rilevata esigenza dell’UDI di realizzare una maggiore presenza tra le donne di ogni ceto e orientamento politico si accentua. L’UDI cerca di rilanciare una politica associativa di ampie alleanze e di intese unitarie e di non accentuare troppo la propria fisionomia politica. Questa linea si manifesta in modo estremamente chiaro su «Noi donne», strumento fondamentale di tale penetrazione, con una nuova e precisa distribuzione dello spazio editoriale tra articoli di carattere politico-sindacale e notizie sulla «Vita del movimento» e argomenti di tono più leggero e di evasione. La rivista non intende essere più solo il portavoce di una battaglia politica per l’emancipazione della donna e per l’attuazione di forme di democrazia, come era prevalentemente stata nei suoi primi anni di vita, ma vuole trasformarsi in uno strumento che affronti anche i problemi pratici della vita femminile, che fornisca spunti di evasione e di interesse per un pubblico più vasto ed eterogeneo, che informi in modo sintetico ed essenziale anche su avvenimenti di cronaca[50]. Ne emerge una rivista adatta ad un maggior numero di donne, che ne asseconda i gusti, meno esclusiva nei contenuti e nel linguaggio, se si vuole anche un po’ civettuola e pettegola. Nella nuova impaginazione l’articolo di fondo di carattere politico ed economico, firmato a nome della redazione e non più da singole dirigenti del movimento, trova posto in seconda pagina e per lo più è molto sintetico. Nelle pagine successive compaiono i notiziari sindacali, quelli sulle iniziative centrali e periferiche dell’UDI e la rubrica «La donna nella nuova Costituzione» che aggiorna sui lavori della Costituente e in particolare sui vari articoli che riguardano più da vicino i diritti delle donne, delle lavoratrici, la tutela dell’infanzia e della famiglia in generale. Particolare risalto viene dato, ad esempio, all’approvazione dell’emendamento dell’on. Teresa Noce all’art. 33, «presentato insieme a tutte le deputate dell’UDI e approvato con grande maggioranza dall’Assemblea Costituente». Grazie a tale emendamento veniva assicurato «alle lavoratrici italiane e ai loro bambini... il loro diritto a un lavoro e a una vita sana. («Le condizioni di lavoro debbono consentire alla lavoratrice l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione...» - art. 33 passim)...» («Noi donne» 1/15-6-’47).

Questa trasformazione della politica dell’organizzazione e della rivista, se risponde indubbiamente al bisogno dell’UDI di coinvolgere nel suo impegno per l’emancipazione anche le donne non politicizzate, parlando loro il linguaggio più adatto ad essere ascoltato e recepito soprattutto da quante non sono in possesso di un’educazione politica e di una base culturale sufficienti, di fatto opera anche un maggiore accentramento dell’iniziativa politica nel gruppo dirigente giacché si riducono gli spunti di riflessione politico-civile, fino allora molto più abbondanti sulla rivista. L’UDI, pur proseguendo nel suo impegno di educazione politica delle masse femminili, opera una graduale revisione del metodo e degli strumenti attraverso cui perseguire l’obiettivo della partecipazione reale e attiva delle donne alla vita democratica. Più che alla sistematica azione di stimolo e di propaganda di «Noi donne» si affida sempre più alla promozione di grandi campagne che mobilitano l’organizzazione ai suoi vari livelli, dall’UDI nazionale ai più piccoli circoli. Dalla fine del ’47 si moltiplicheranno, in particolare, le raccolte di firme in calce ad appelli, le campagne di raccolta di viveri e vestiario soprattutto per l’infanzia e si promuoveranno a ritmo più intenso comizi, campagne di affissione di manifesti e di diffusione straordinaria di «Noi donne», giornate o settimane dedicate a manifestazioni su problemi specifici (giornata della pace, giornata della scuola, marce della fame, mese di amicizia con l’URSS ecc.). Accanto all’interesse per le campagne di tesseramento, l’UDI dimostra dunque di attribuire grande importanza alle iniziative specifiche capaci di ottenere una mobilitazione di massa. Non può, tuttavia, sfuggire il grave limite di questo tipo di azione: si tratta, infatti, di campagne e iniziative ideate e promosse per lo più dal vertice dell’UDI o dai partiti di sinistra ed «estese» alla base del movimento e con un margine decisionale relativamente limitato e scarse possibilità di influenzare in modo concreto la linea dell’organizzazione.

La creazione di un legame stabile con la base, come quello realizzato attraverso il tesseramento, procede di pari passo con queste altre forme di coinvolgimento delle masse femminili ed entrambi i metodi registrano, almeno fino al 1950-’51, un buon successo. Indipendentemente dal numero delle tesserate, le iniziative promosse dall’UDI, come testimoniano le cronache, raccolgono un numero ragguardevole di aderenti e simpatizzanti e a questo successo indubbiamente contribuisce in maniera notevole l’opera fiancheggiatrice di propaganda e di sostegno organizzativo svolta dai partiti di sinistra, dai sindacati, da altre associazioni democratiche. In molti casi si verifica anche il contrario, ovvero l’UDI aderisce a iniziative promosse da altre organizzazioni, spesso elaborando per proprio conto attività di sostegno alla politica dell’organismo promotore (ad esempio nel caso del Fronte del Mezzogiorno - dicembre ’47 - e della Costituente della terra - gennaio ’48).

CAPITOLO VI

DALLA FINE DEL TRIPARTITO AL 18 APRILE 1948

Non è certo casuale che il momento politico in cui si colloca il rinnovato appello dell’UDI a tutte le donne per un’azione unitaria sempre più ampia, sia quello in cui si preparano sul piano interno la «svolta moderata» del maggio ’47 e sul piano internazionale la definitiva spaccatura del mondo in due sfere di egemonia mondiale. Nel maggio ’47, dopo l’apertura di una nuova crisi, De Gasperi escludeva le sinistre dal governo[51]. La sostituzione operata dalla DC dei vecchi gruppi dirigenti liberali del prefascismo, facilitata dall’impegno di garantire una linea politica moderata e socialmente stabile, e la conseguente impossibilità del partito di De Gasperi di continuare a giustificare agli occhi dell’elettorato moderato un’intesa di governo con socialisti e comunisti, concorsero a determinate quella svolta che già dopo il 2 giugno era parsa alla DC necessaria e che solo qualche mese prima era stata rinviata per non turbare il clima in cui si stavano definendo le condizioni del Trattato di pace e la inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione. Alla svolta dell’estate ’47 indubbiamente, come ha opportunamente rilevato Pietro Scoppola, contribuì anche l’evoluzione della situazione internazionale e in particolare l’attaccamento del PCI al modello e al mito dell’URSS, ovvero «l’ideologia leninista del partito», ripetutamente confermata «per non perdere il contatto con le masse operaie». L’inserimento del PCI in una democrazia rappresentativa di tipo occidentale, «senza deludere quella specie di fede popolare che è stata per molti anni nel dopoguerra l’internazionalismo comunista», si poneva in contrasto con l’evoluzione moderato-progressista che De Gasperi e buona parte del suo partito volevano garantire alla nuova democrazia italiana[52].

Il terzo ministero De Gasperi aveva del resto rivelato fin dall’inizio il suo carattere di coabitazione forzata con le sinistre. Oltre che dalle differenze politico-ideologiche tra DC e sinistre, dai condizionamenti degli USA e del Vaticano sulla DC e dalla contrapposizione tra blocco sovietico e blocco occidentale controllato dagli Stati Uniti, l’espulsione delle sinistre dal governo fu determinata anche, come ha scritto Valerio Castronovo, «dal rinvio delle riforme di struttura, economiche e dal graduale mutamento dei rapporti di forza tra le parti sociali. La recrudescenza dell’inflazione... rese necessaria una severa politica di stabilizzazione economica, incompatibile di fatto con la presenza delle sinistre al governo... La stretta deflazionistica, a tacere dei condizionamenti internazionali, rese più difficile la possibilità per le sinistre di rimontare la situazione. L’obiettivo prioritario del salvataggio della lira accrebbe i consensi della piccola borghesia alla DC e ai partiti di centro, mentre la deflazione... ridusse il potere dei sindacati operai»[53]. La svolta del maggio ’47 fu pertanto un’operazione complessa, in parte preparata con gradualità dalle forze moderato-conservatrici e in parte facilitata dalla ridotta capacità d’iniziativa dei socialisti e dalla «linea empirica e temporeggiatrice», in tema di riforme, delle sinistre in genere. Come ha notato Ennio Di Nolfo, infatti, tale soluzione «andava assai oltre le esigenze del quadro internazionale. Gli americani avevano chiesto e chiedevano un governo stabile e capace di circoscrivere l’influenza del partito comunista. De Gasperi offrì loro un vero e proprio rovesciamento di alleanze»[54].

In conformità con il particolare rapporto che continuò comunque a sussistere tra il governo, socialisti e comunisti, almeno fino alla fine dei lavori della Costituente, rapporto che era frutto, come scrive Carocci, «di un compromesso tra questi tre partiti cementato dall’ideologia liberale tradizionale e, soprattutto, dall’antifascismo»[55], anche l’UDI, nelle sue pur dure critiche al nuovo impianto governativo, dimostra capacità di analisi politica e la convinzione che solo controllando le masse sia possibile alle sinistre non cedere alla provocazione costituita dalla crisi di governo e dalla sua soluzione. Il nuovo equilibrio politico, che trovava rispondenza del resto in un nuovo equilibrio socio-economico in corso di realizzazione nel Paese, minacciava di compromettere anche quella politica di espansione dell’influenza dell’UDI tra le donne non legate all’area del PCI e del PSI, a causa della preminente fisionomia socialcomunista dell’organizzazione. Anche a causa di questo limite obiettivo l’UDI accentuerà, dalla fine del ’47 circa, la propria azione per la creazione o il potenziamento di associazioni differenziate che raggruppano specifiche categorie di donne e che promuoveranno, soprattutto negli anni ’48-’50, una serie di iniziative saldamente legate a quelle dell’UDI, talvolta da questa ispirate e dirette.

L’UDI porterà, inoltre, il proprio contributo anche all’azione assistenziale e alle lotte politiche di quelle associazioni sorte indipendentemente dalla propria iniziativa, spesso elaborando precise rivendicazioni a favore di determinate categorie di donne, mobilitando il proprio apparato organizzativo ed implicitamente allargando la propria sfera d’influenza.

Tra le associazioni «differenziate» ricordiamo l’Associazione Donne della Campagna, sorta nel dicembre ’47 in occasione della prima «Costituente della Terra» e che ottenne adesioni non trascurabili soprattutto nel Mezzogiorno, in collegamento con le lotte per la riforma agraria (100.000 aderenti all’agosto ’49), l’Associazione Vedove e Capofamiglia, sorta a Milano nel dicembre ’47 durante il II Congresso dell’UDI (38.000 iscritte all’agosto ’49), l’Associazione Ragazze d’Italia, sorta nel ’45 e che fin dalla sua nascita sviluppò un tipo d’azione strettamente legata a quella dell’UDI e utile per bilanciare a sinistra il quasi monopolio dell’associazionismo giovanile da parte cattolica (80.000 aderenti all’agosto ’49), l’Unione Nazionale Soccorso Infanzia (sorta nel ’46) che dagli inizi del ’47 incrementò la propria azione, in stretta collaborazione con l’UDI e con altri enti democratici, per sottrarre il monopolio dell’assistenza all’infanzia agli «organismi clerico–governativi» ed evitare l’azione «di accaparramenti dei mezzi assistenziali» attuata «dai democristiani e dalle forze reazionarie», l’Associazione Mamme Napoletane, nata nel ’46 e che all’agosto ’49 contava 10.000 iscritte.

Altre associazioni minori sorte per diretta iniziativa dell’UDI furono la Fondazione degli Italiani all’Estero per l’Assistenza ai Bambini Mutilati (’47) e il Comitato per l’assistenza ai figli dei Martiri per la Libertà (’48)[56].

La natura prevalentemente assistenziale delle associazioni differenziate non escluse, tuttavia, da parte dell’UDI, un impegno più propriamente politico che coinvolgeva non soltanto gli interessi più diretti e immediati della categoria di donne rappresentate nelle singole associazioni ma l’intera struttura socio-economica e politica e la realtà culturale di cui tale categoria faceva parte. È il caso dell’Associazione Donne della Campagna in appoggio alla quale l’UDI svilupperà una ricca serie di iniziative, proposte e manifestazioni i cui obiettivi comuni, in conformità con quelli delle sinistre, dei sindacati e delle organizzazioni contadine sono la riforma agraria e la radicale trasformazione del tessuto socio-culturale del Mezzogiorno. In occasione della creazione, nel dicembre ’47, del Fronte del Mezzogiorno, «punto d’incontro di tutte le rivendicazioni meridionali», l’UDI è tra le forze promotrici del movimento ed elabora tre iniziative specifiche a favore delle donne e della infanzia, frutto di un’analisi attenta e documentata della realtà delle province meridionali: «riunioni di maestranze per risolvere il problema dell’analfabetismo e della istituzione di nuove scuole rurali; raduni di donne braccianti delle province, per lottare contro l’orribile sfruttamento al quale sono sottoposte (il salario medio della bracciante meridionale, che lavora circa 170 giorni l’anno, è ancora poco più che 100 lire giornaliere); la creazione dei Centri per la Difesa della Donna e del Bambino Meridionale». L’UDI partecipa anche ai Convegni, organizzati nell’ambito del movimento, per la lotta contro l’analfabetismo e, accanto a personalità come Francesco Saverio Nitti, ad autorità locali e ad esperti e studiosi di problemi del mondo contadino e di politica agraria come Manlio Rossi Doria, prende la parola anche una dirigente dell’UDI Anna Lorenzetto del Comitato Nazionale, che esprime la linea dell’organizzazione su tale problema. Il ruolo attivo svolto dall’UDI nel Fronte per il Mezzogiorno è comprovato anche dall’elezione di due dirigenti Luciana Viviani di Napoli e Anna De Martino di Bari, nell’esecutivo del Fronte[57].

Uno degli aspetti più significativi del movimento agli occhi dell’UDI fu senz’altro la mobilitazione massiccia di migliaia di contadine meridionali che per la prima volta uscivano dalla rassegnata accettazione della miseria e dello sfruttamento, in un momento in cui le lotte, gli scioperi, la spinta democratica proveniente dalle campagne meridionali si saldavano a tutta un’intensa attività sindacale e organizzativa che fin dall’estate aveva interessato vaste zone della Valle Padana e del bolognese giungendo a risultati di un certo rilievo. Nel Sud, inoltre, la specificità della questione contadina come secolare questione della terra, ovvero come problema del superamento del regime latifondistico e dei residui feudali ad esso connessi, poneva il movimento su punti di partenza molto più arretrati che nel Nord, dove la lotta di classe nelle campagne «aveva tradizioni e radici diverse» dove «il bracciante della Valle Padana ha sempre trovato nella tradizione di organizzazione e di lotta socialista il momento della propria emancipazione»[58].

All’UDI e alle sinistre, particolarmente al PCI, dopo la fine del tripartito non sfuggì la portata democratica delle lotte contadine del Mezzogiorno e, mentre l’elaborazione del partito sulla riforma agraria subiva in questa fase un processo di revisione di contenuti e di obiettivi[59] l’UDI si inserì in questa problematica accettando l’elaborazione globale del PCI e precisando quegli aspetti che riguardavano più da vicino le donne contadine e la loro difficile emancipazione.

Sui problemi del Mezzogiorno la convergenza tra azione dell’UDI e del PCI appare molto accentuata mentre, dopo la fine dei governi di unità democratica, l’organizzazione non si preoccupa più eccessivamente, né forse spera di riuscire ancora a coinvolgere le donne cattoliche legate alla D.C. e agli altri partiti moderati. Più opportuna appare, invece, la via della conquista di masse femminili affatto o scarsamente politicizzate sulla base di un preciso impegno politico e assistenziale a sostegno delle loro rivendicazioni e dei loro bisogni. Sempre molto ampia resta, intanto, l’influenza dell’UDI tra le donne comuniste e socialiste, influenza che si andrà accrescendo dal ’47 al ’50 in modo molto più dinamico che in precedenza[60].

Ci sembra di poter individuare, proprio alla fine del 1947, il precisarsi nell’UDI del ruolo fiancheggiatore del PCI. Pure se fino a quel momento i quadri periferici e centrali avevano registrato una netta prevalenza di donne comuniste e la linea politica dell’organizzazione si era rivelata omogenea a quella del PCI e del PSIUP (poi PSI), tuttavia l’UDI «si era sforzata di mantenere e allargare, tra le donne l’unità realizzatasi durante la Resistenza»[61]. Dalla fine del ’47, e in particolare in coincidenza del II Congresso, l’UDI prende atto che il deterioramento degli equilibri politico-ideologici, sociali ed economici non lascia più ragionevoli margini ad una politica unitaria, di vaste alleanze femminili.

La scelta di campo, pur non essendo mai stata equivoca, si fa più netta e abbandona quelle remore e quelle considerazioni di interesse generale del Paese che fino allora avevano consigliato di ricercare comunque un dialogo con le varie componenti femminili e avevano cementato diverse iniziative sia politiche che assistenziali. Da questo momento ci sembra che l’interesse primario non sia più quello di sviluppare una politica unitaria per l’emancipazione femminile, quanto piuttosto quello di acquisire un sempre maggior numero di donne all’area socialcomunista sulla base di programmi e contenuti pressoché identici ai precedenti, ma ai quali si dà un’accentuazione maggiormente politicizzata.

Il delinearsi del ruolo di «opposizione» dell’UDI al IV governo De Gasperi è abbastanza graduale e segue, come abbiamo già rilevato, l’evolversi dell’atteggiamento del PCI.

Ancora agli inizi di giugno su «Noi donne» si parlava della crisi in termini critici ma cauti: «Ancora una crisi di Governo! A pochi mesi di distanza l’una dall’altra si succedono le crisi, non sempre giustificate da serie e gravi ragioni, crisi che incidono profondamente nella vita del Paese, frustrandone ogni sforzo di ripresa». («Noi donne» 1/15-6-’47). Dopo il varo del nuovo governo, di cui entrano a far parte DC, PLI, qualunquisti e monarchici, il tono si fa più polemico, meno sfumato, ferma restando, tuttavia, la volontà che gli italiani non cedano «all’azione di sfiducia e di demoralizzazione che si sta conducendo». Leggiamo, infatti, sulla rivista dell’UDI che «Le crisi... sono state finora decise da De Gasperi, dagli industriali e dagli agrari che lo sostengono; e se essi manovrano per avere un governo al loro servizio è proprio perché temono la forza e la giustezza delle richieste delle masse lavoratrici.... Questi signori vorrebbero confondere le carte in tavola, gettando il discredito sul Parlamento e sui partiti, provocando crisi a ripetizione, per indurre gli italiani a desiderare un «governo forte» o «un uomo» che «sappiano tenere in mano la situazione». Ma noi sappiamo che questo sarebbe l’inizio... di un nuovo fascismo». («Noi donne» 16/30-6-’47).

Un primo, decisivo effetto indotto dalla formazione del nuovo governo era stato un rinnovato clima di fiducia degli ambienti economici, sia per l’estromissione delle sinistre dal governo che per il ruolo guida nella politica economica assegnato a Luigi Einaudi il quale varò tempestivamente un programma economico basato sulla deflazione, su una forte restrizione creditizia intesa a frenare le operazioni speculative, su una riduzione del deficit del bilancio da realizzarsi, tra l’altro, con l’abolizione del prezzo politico del pane e di altri servizi pubblici. La riduzione della spinta inflazionistica si accompagnò, però, a una contrazione della domanda e a un sensibile calo dell’attività industriale, colpita dalla riduzione dei finanziamenti bancari alla stessa stregua delle attività speculative, con conseguente flessione dell’occupazione, del potere d’acquisto e dei prezzi[62].

Le ripercussioni negative della «linea Einaudi» vengono avvertite soprattutto dalle classi lavoratrici del settore industriale del Centro-Nord (la disoccupazione nell’inverno ’47-’48 cresce molto rapidamente fino a raggiungere la cifra di 2 milioni 421 mila disoccupati nel maggio ’48), mentre gli altri ceti e gruppi sociali, al contrario, in qualche misura beneficiano della politica stabilizzatrice del governo. È il caso «dei piccoli e medi agricoltori, cioè di tutti coloro che, dipendendo da un reddito fisso, lo vedono progressivamente rivalutarsi»[63], oltre che dei grandi gruppi industriali non interessati dalla stretta creditizia, anche perché spesso sovvenzionati dallo Stato e dalle «grosse fortune parassitarie redditiere».

Come giustamente rileva Gambino, le scelte economiche del «governo De Gasperi–Einaudi» contribuiscono a formare intorno a questo un blocco sociale eterogeneo «ma compatto e in tutti i casi largamente maggioritario» che concorrerà in modo non trascurabile al successo elettorale del 18 aprile ’48.

L’UDI, contemporaneamente al prodursi degli effetti depressivi della politica economica governativa soprattutto tra la classe operaia e tra i contadini, ai quali l’attività stagionale garantisce redditi variabili e comunque lentissimi ad aumentare, mette in diretta relazione la nuova situazione economico-sociale con la mancata partecipazione al governo dei «partiti popolari» e prevede una definitiva battuta d’arresto dei programmi per le riforme di struttura e della spesa dello Stato nei settori dell’istruzione, della salute pubblica, dell’edilizia popolare. In prospettiva tali previsioni si riveleranno piuttosto esatte ma bisogna, tuttavia, rilevare che dalle colonne di «Noi donne» emerge una comprensione incompleta del blocco economico-sociale che sostiene o accetta la politica del governo. Si continua, cioè, a identificare l’azione di quest’ultimo con gli interessi dei ricchi agrari, dei grandi industriali e dei banchieri, rappresentati all’Assemblea Costituente «dai deputati liberali, monarchici e qualunquisti», mentre sfugge, o volutamente non viene rilevata, la funzione aggregatrice che la DC in particolare sta gradualmente potenziando nello spazio medio e piccolo borghese, anche attraverso gli effetti psicologici della politica stabilizzatrice. Ancora per tutta l’estate ’47 il tono degli articoli oscilla tra la critica violenta contro «coloro che hanno interesse di mantenere il popolo nella miseria, nell’ignoranza, nella schiavitù», e pertanto non possono essere «amici dei lavoratori», e la remota speranza che il governo De Gasperi attui quelle «serie misure» che aveva annunciato in difesa del potere d’acquisto dei salari e per frenare l’aumento del costo della vita.

«Dobbiamo... constatare che poco o nulla si è fatto in tal senso e che non si vuole porre in atto il tesseramento differenziato l’imposta patrimoniale progressiva e parecchie altre misure», leggiamo su «Noi donne» del 16/31-7-’47; e verso la fine dell’articolo, intitolato Chi è che chiede chi è che non dà, si sottolinea che le richieste di cui l’UDI, insieme ai partiti popolari e ai sindacati, si fa interprete non sono fatte a nome dei lavoratori «di questo o quel partito», né delle donne «di questa o quella organizzazione» ma a nome di tutto il popolo. Com’è evidente, a volte si pone in risalto la difesa di interessi di classe, specificatamente ispirata all’azione dei partiti comunista e socialista, altre volte si rivendica la difesa degli interessi del «popolo» senza operare alcun riferimento partitico. Ci sembra che tale duplicità di tono non sia espressione della volontà di recuperare un’intesa politica con la DC, ormai deteriorata sia nei contenuti che nei metodi d’azione politica, anche in seguito a scelte di politica internazionale ben precise, quanto piuttosto della speranza che, accentuando il carattere di generalità della crisi economico-sociale, il governo vari, nello stesso interesse «dei lavoratori che appartengono al partito di De Gasperi», misure economiche adeguate e rinunci agli «arresti di pacifici cittadini» e alle «disposizioni antidemocratiche» con cui venivano colpite le manifestazioni popolari, le lotte sociali, gli scioperi. L’obiettivo peggioramento della situazione esaspera però le condizioni delle classi popolari e in autunno si assiste a un forte incremento delle lotte sociali e delle manifestazioni di piazza contro il carovita e la disoccupazione, cui il governo reagisce con un’azione repressiva poliziesca di notevole violenza e con l’esasperazione della psicosi della «rivoluzione». L’UDI, che organizza e gestisce, al pari dei sindacati, diverse manifestazioni e iniziative di protesta, si sente coinvolta nella politica di repressione attuata dalla polizia di Scelba e polemizza duramente e ripetutamente con «l’apparato guerresco» da questi predisposto in tali occasioni. Particolarmente violento e sarcastico è un articolo dal titolo Cannoni inutili («Noi donne» 1/15-10-’47) in cui vengono messi a confronto, non senza un pizzico di demagogia, lo spiegamento «penosamente stridulo... di tutta la... polizia (e) tutte le sue armi sulle piazze d’Italia» e il grande autocontrollo e senso di responsabilità dei manifestanti, della «folla armata solo dei suoi cartelli e della sua voce!...» in occasione di una serie di manifestazioni svoltesi il 20 settembre in molte città italiane.

In questo quadro di progressiva radicalizzazione della lotta politica e sociale, non mancano le ripercussioni di politica internazionale. Dalla fine del ’46, infatti, quasi contemporaneamente alla ratifica del Trattato di pace italiano, la frattura tra potenze occidentali e URSS si era vieppiù accentuata. Nel marzo ’47 il presidente degli Stati Uniti, Truman, aveva rivendicato agli USA un ruolo egemone a livello mondiale in precisa funzione anticomunista. Qualche mese più tardi, il varo del piano di aiuti economici statunitensi per la ricostruzione dell’Europa (piano Marshall) si era dimostrato non solo il mezzo per favorire la ripresa economica occidentale, in modo da integrarla e funzionalizzarla alla linea di sviluppo capitalistico degli USA, ma anche un modo per contenere l’influenza sovietica sul continente e per indebolire l’egemonia dell’URSS negli stati socialisti satelliti dell’Est europeo. Si trattava, evidentemente, di contrasti di fondo di natura ideologica, economica, politica e militare che, insieme ad alcune questioni lasciate aperte dalla conclusione della guerra, come la questione tedesca e la divisione di fatto della città di Berlino, avevano segnato l’inizio della «guerra fredda». La contrapposizione tra i due grandi provocò intorno a questi un processo di polarizzazione degli altri Stati e la definitiva nascita della politica dei blocchi. Naturalmente anche i regimi interni dei singoli paesi avevano dovuto adeguarsi alla scelta di campo operata, e per l’Italia non c’era stato alcun dubbio che il far parte della sfera d’influenza degli USA comportasse un progressivo contenimento delle forze comuniste[64].

L’evidente parallelismo tra scelte internazionali e sviluppi della situazione politica interna, con la fine del tripartito e l’accentuarsi di una ricostruzione economica in cui i programmi delle sinistre vengono del tutto accantonati, spinge l’UDI non solo a potenziare la propria attività assistenziale e le rivendicazioni politiche e sindacali ma anche a svolgere un’intensa opera di sensibilizzazione sul problema della pace e del disarmo. Si sostengono così le lotte delle operaie, delle mondine, delle donne della campagna, si intensificano le campagne di raccolta di viveri, vestiario e altri generi a favore dell’infanzia e delle famiglie dei disoccupati, avvalendosi di una buona rete di Comitati di assistenza, centri di raccolta e di distribuzione, refettori e asili, e contemporaneamente si moltiplicano le manifestazioni, gli appelli, le campagne di propaganda a favore della distensione internazionale e per il disarmo generale, particolarmente nel settore atomico. Questo della pace diverrà uno dei capisaldi dell’azione politica dell’UDI, un motivo dominante dei congressi, dei convegni e dell’impegno parlamentare e politico generale di deputate e senatrici, dirigenti dell’organizzazione.

Nell’ottobre ’47 si svolge a Milano il II Congresso nazionale, e significativo appare l’appello-slogan lanciato dai manifesti dell’UDI: «Per una famiglia felice pace e lavoro». L’esigenza di giustizia sociale, di quelle minime condizioni del vivere democratico costituite dal posto di lavoro e da dignitose condizioni di vita per ciascuna famiglia, viene collegata ad una condizione molto più generale eppure irrinunciabile: quella della pace. Senza che sia allontanato «lo spettro della guerra», le cui conseguenze materiali e morali sono ancora drammaticamente visibili, si ritiene inutile o limitata ogni forma di progresso e di conquista democratica. Per tutto il corso dei lavori l’esigenza di una più decisa lotta per le riforme di struttura e per un inserimento organico, non marginale o strumentale, delle donne nella vita politica, economica e culturale del paese, viene posta in relazione al quadro internazionale e ai condizionamenti che esso esercita sulla disponibilità democratica delle forze politiche al potere. L’intervento di apertura del Congresso fu tenuto dal Presidente della Costituente Terracini, di fronte a 1063 delegate provenienti da 90 province italiane.

Molto varia era la rappresentanza delle categorie socio-economiche e professionali femminili: casalinghe (242), impiegate (160), «diplomate e professoresse» (106), maestre (74), operaie (91), contadine (29), artigiane (48), assistenti sanitarie (15), studentesse (25), artiste (4) e cooperatrici della Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue (30). Il contenuto delle relazioni e degli interventi risultò politicamente più maturo e definito rispetto al I Congresso. Frequenti furono i richiami allo spirito unitario della Resistenza e il collegamento delle future lotte per la democrazia, la pace, la giustizia sociale a quelle sostenute contro «l’oppressione e la guerra fascista». In una fase di evidente declino della solidarietà nazionale del periodo resistenziale e di sempre più accentuate spaccature ideologiche e politiche tra i partiti di centro-destra e le sinistre, l’appello del Congresso suonava più come espressione di disponibilità ad una politica femminile unitaria che non come realistica valutazione del momento politico e degli spazi reali da questo offerti a un simile tipo d’azione. Del resto l’appello ad un’ampia collaborazione si spiega anche col fatto che l’UDI non aveva rinunciato, come in parte farà in occasione delle elezioni del 18 aprile, a coinvolgere nella sua politica di sostegno ai partiti di sinistra categorie di donne non stabilmente acquisite all’area d’influenza della DC e degli altri partiti moderati. Il preciso spazio politico in cui, tuttavia, i lavori del Congresso si collocano è quello dei partiti di sinistra e dei sindacati. Il tipo di rivendicazioni, il linguaggio e il tono con cui esse vengono avanzate esprimono un forte spirito polemico verso il quadro politico interno e internazionale del momento, mentre non si sottovalutano le conquiste e le esperienze maturate, sia da parte dell’UDI e delle sue aderenti che, più in generale, di tutte le donne italiane, dal 1945 in poi, ovvero nel periodo di collaborazione delle sinistre al governo. Come ricorda una pubblicazione dell’UDI edita in occasione del III Congresso nazionale (’49) «Il Congresso (del ’47) fu circondato... dal più largo interesse dell’opinione pubblica nazionale. Tutta la stampa, anche quella avversaria fu costretta ad occuparsene ampiamente: era la prima volta che donne italiane si presentavano a discutere pubblicamente i grandi problemi politici ed economici della vita italiana prendendo una ferma e decisa posizione di lotta...»[65].

Le quattro commissioni, cui vennero affidati i lavori congressuali («Per la scuola e la famiglia», «La donna nel lavoro», «La donna e la casa», «L’avvenire dell’infanzia»), elaborarono analisi e proposte interessanti, che in parte ricalcavano richieste già avanzate dall’UDI, dalle sinistre e dai sindacati ma che fino a quel momento non erano state accolte o lo erano state solo parzialmente. Molte di tali rivendicazioni trovarono però nel Congresso una precisazione di contenuto e del metodo politico attraverso il quale sollecitarne l’accoglimento da parte del governo e del Parlamento. La commissione «Per la scuola e la famiglia» elaborò una serie di rivendicazioni relative alla lotta contro l’analfabetismo, all’obbligo scolastico e alla democratizzazione della scuola, temi su cui da tempo l’UDI si era impegnata ma che ora venivano affrontati con maggiore intransigenza e rigore. Infatti a breve distanza dal Congresso, l’UDI promosse uno specifico Convegno sulla scuola (Firenze 26-27 dicembre 1947) per sensibilizzare ai problemi dell’istruzione, dell’edilizia scolastica, dei metodi e dei contenuti educativi sia le autorità politiche e scolastiche che il personale docente e le personalità del mondo della cultura[66].

Dei problemi del lavoro femminile, della disparità di trattamento tra uomini e donne, della possibilità di accesso della donna «ai più alti gradi professionali», si occupò la commissione «La donna nel lavoro», alla quale parteciparono 70 delegate. Il tema era infatti tra i più qualificanti del Congresso, in quanto investiva aspetti sostanziali dell’emancipazione femminile e della giustizia sociale. Le proposte di riforme legislative confermarono il progetto, già a suo tempo presentato dalla CGIL all’Istituto di previdenza sociale, per l’equiparazione del trattamento previdenziale e assicurativo delle lavoratrici rispetto ai lavoratori e per una maggiore tutela delle lavoratrici madri. Lo stesso progetto prevedeva anche l’istituzione di una legislazione previdenziale a favore delle casalinghe, i cui problemi furono affrontati più diffusamente dalla commissione «La donna e la casa». Interessate in modo più diretto al carovita e al problema dell’approvvigionamento dei generi di prima necessità, da rendere compatibile con i salari, che non seguivano il ritmo di crescita del costo della vita, le casalinghe rivendicarono non soltanto un rigoroso controllo delle autorità sui prezzi e sulla distribuzione ma la possibilità di svolgere, esse stesse, un ruolo attivo in tal senso, in pratica di gestire e concretizzare la lotta contro il carovita attraverso l’organizzazione di «Comitati per il controllo dei prezzi», già operanti con buoni risultati in diverse province. Altra forma di tutela a sostegno dell’economia familiare fu la campagna a favore della creazione di cooperative di produzione e di consumo «allo scopo di migliorare le condizioni di vita delle dorme artigiane e lavoratrici a domicilio soggette allo sfruttamento degli imprenditori». Si trattava di una forma di difesa delle donne lavoratrici contro la grande diffusione del lavoro nero, favorito, in quella precaria situazione economica, dallo stato di necessità di molte famiglie. Nel corso dei lavori fu promossa la costituzione dell’Associazione Nazionale delle Donne Casalinghe. Notevole fu anche l’impegno per iniziative assistenziali a favore dell’infanzia, per una sua più adeguata alimentazione e per garantirle una serie di servizi e di generi essenziali come il vestiario, cure mediche, colonie, asili.

L’attività assistenziale, che è sempre stata una delle più qualificanti tra quelle promosse dall’UDI fin dalla sua costituzione, incontrò in quella fase non poche difficoltà così sintetizzate in una pubblicazione dell’organizzazione: (nell’inverno ’47-’48) «il Governo, dal quale sono stati estromessi i partiti popolari, sopprime di colpo il Ministero dell’Assistenza Postbellica, denuncia tutte le convenzioni ministeriali relative al finanziamento delle organizzazioni assistenziali, taglia i fondi e sospende le erogazioni alla maggioranza delle iniziative assistenziali democratiche... Solo le organizzazioni parrocchiali e vaticane hanno il diritto di assistere i bisognosi...»[67]. Tali ostacoli stimolarono una viva polemica verso la Chiesa e le sue istituzioni (assistenziali, scolastiche, economiche) che avrebbe raggiunto il suo culmine nel corso della campagna per le elezioni del 18 aprile ’48 e, subito dopo queste ultime, sotto l’effetto della cocente delusione per l’esito della consultazione in cui le strutture clericali, come vedremo, si impegnarono con autentico spirito di crociata a sostegno della DC e in funzione anticomunista.

L’impegno per l’emancipazione socio-economica e culturale della donna e quello per una politica di tipo assistenziale che supplisse alle carenze del governo e della classe politica, si integravano ancora una volta efficacemente, conferendo alle iniziative e ai programmi dell’UDI una necessaria concretezza che non perdeva di vista, però, le questioni di principio, gli obiettivi e le lotte di più lungo periodo che richiedevano la modifica di apparati legislativi e burocratici, della mentalità dei rapporti sociali e di produzione, dell’istituto familiare.

Come già rilevato, l’impegno politico che emerse dal II Congresso si estese ai problemi di carattere internazionale che vennero correlati ai problemi interni e alla non consolidata democrazia nata dalla fine della guerra e del fascismo. La constatazione di fondo fu che il pericolo di una nuova guerra, non più soltanto «fredda», minacciava di rendere vani gli sforzi e i sacrifici, in gran parte sostenuti dalle classi lavoratrici, per ricostruire il tessuto politico, economico, sociale e civile del paese e di rinnovare alla maggioranza delle famiglie italiane lutti e miserie non ancora dimenticati e superati.

A conclusione del Congresso, nel tracciare un bilancio dell’attività dell’UDI dal ’45 in poi, Rita Montagnana Togliatti sottolineò «Noi abbiamo percorso molta strada... abbiamo cominciato a studiare le leggi, esaminato i contratti di lavoro, siamo entrate nelle officine, negli uffici, nei laboratori nelle scuole. Abbiamo avvicinato tutte le donne; siamo andate a cercare quelle che non venivano a noi e le abbiamo chiamate a partecipare alla nostra lotta... Oggi noi chiediamo che i principi della Costituzione divengano realtà concreta ed operante»[68].

Per difendere le conquiste acquisite e lo spirito della Costituzione, ormai quasi del tutto elaborata e prossima all’entrata in vigore, Rita Montagnana sostenne la necessità di lottare contro il piano Marshall, giudicato un «tradimento» verso il Paese, una grave menomazione della sua indipendenza che sarebbe stata, pertanto, «un altro passo compiuto verso una nuova guerra». Il linguaggio, («politica di asservimento... agli interessi degli imperialisti») non meno dei giudizi, testimoniava una profonda opposizione al governo che aveva accettato il piano di aiuti e di collaborazione economica degli USA, mentre soltanto pochi mesi prima l’UDI si era limitata a richiedere una corretta utilizzazione degli aiuti americani. Ora, invece, il significato e l’ipoteca politica del piano Marshall venivano valutati alla luce dell’esclusione delle sinistre dal governo e della situazione internazionale che si era creata con l’aggravarsi della «guerra fredda». Tra i due blocchi contrapposti l’UDI non fece altro che confermare, in modo più o meno velato, la propria scelta a favore dell’area comunista, traendone le ovvie conclusioni sul piano interno.

Ai rischi di una nuova guerra e all’impegno politico unitario di tutte le componenti democratiche nazionali e mondiali per scongiurarli, fu dedicata la relazione di Maria Maddalena Rossi. Sul tema della pace si soffermò a lungo anche l’on. Rosetta Longo, segretaria generale dell’UDI, la quale invitò «tutte le donne d’Italia» a impegnarsi in iniziative, manifestazioni, attività di popolarizzazione della «campagna per la pace» e sottolineò che «nella difesa della pace non vi possono essere divisioni». La chiusura stessa dei lavori ribadì la priorità di questo obiettivo con un Comizio per la Pace, nel corso del quale Camilla Ravera tracciò un primo bilancio del Congresso e delle esperienze che in esso si erano confrontate, invitando le delegate a diffondere «in tutte le province, con analoghe riunioni» le conclusioni del Congresso. Il manifesto lanciato dall’UDI per l’occasione fu diffuso in tutta Italia e in diverse città a prevalente fisionomia social-comunista si svolsero manifestazioni di massa per popolarizzare ed estendere l’impegno politico emerso dal Congresso.

Dal punto di vista organizzativo, questo introdusse importanti innovazioni tra cui l’istituzione della carica di Presidente dell’associazione che dal dicembre 1947 al 1956 (V Congresso) fu ricoperta dalla comunista Maria Maddalena Rossi. Gli organi collegiali dell’UDI, dopo le elezioni congressuali risultarono così composti. Comitato d’onore: Rita Montagnana, Lina Merlin, Ada Gobetti; Comitato direttivo: Ada Alessandrini, Giovanna Barcellona, on. Adele Bei, Maria Calogero, Elena Caporaso, Bruna Conti, Dina Ermini, on. Gisella Floreanini, Dina Forti, Maria Gasca Diaz, Egle Gualdi, Maria Guazzugli, Anna Lorenzetto, Anna Matera, on. Giuseppina Palumbo, Marisa Passigli, Rina Picolato, on. Camilla Ravera, Maria Romita, Giulia Schiavetti, Minnie Tatò, Jone Cortini, Baldina Berti, on. Marisa Rodano, on. Giuliana Nenni, Tullia Carrettoni; Consiglio Nazionale: 150 membri, fra cui le deputate dell’Assemblea Regionale Siciliana, 2 assessori e consigliere comunali, 4 ex-partigiane, 43 responsabili sindacali e «numerose personalità»[69].

Subito dopo la conclusione dei lavori la lotta per la pace assunse forme varie e articolate e fu oggetto di una vasta mobilitazione di energie da parte dell’UDI nazionale e dei circoli provinciali. Dal 23 al 30 novembre «la settimana per la pace» riuscì a raccogliere intorno a tutta una serie di manifestazioni di protesta, cortei e comizi un considerevole numero di donne e ad impegnarle in un’azione in cui confluivano innanzitutto motivi di ordine politico, economico e sociale interni piuttosto che considerazioni politiche più ampie, a livello internazionale. Se nel linguaggio delle dirigenti dell’UDI che denunciavano «gli intrighi dell’imperialismo americano che già si delineano chiaramente anche nel nostro paese» si manifestava anche una valutazione globale della critica situazione internazionale, tra le motivazioni che spingevano migliaia di donne italiane, casalinghe, impiegate, contadine, operaie, a manifestare per la pace, c’era prevalentemente lo spettro della guerra passata, delle privazioni, dei lutti subiti, dell’economia e del tessuto familiari sconvolti dall’esperienza bellica e dalle sue perduranti conseguenze. La gravità del momento politico a livello mondiale, cioè non era avvertita a tutti i livelli delle masse femminili con lo stesso grado di coscienza e di impegno politico ma ciò non escludeva che il terreno di mobilitazione fosse il più adatto a coinvolgere in iniziative di massa le donne italiane e quindi ad allargare l’influenza dell’UDI. A tale scopo l’UDI promosse una raccolta di firme e organizzò gruppi di «Amiche della Pace» che diffondevano tesserine appositamente stampate a cura dei vari circoli provinciali. Nelle province in cui più forte era la presenza dei partiti di sinistra vennero distribuite decine di migliaia di tali tessere, nonostante l’accesa opposizione delle organizzazioni cattoliche e della propaganda svolta attraverso i bollettini diocesani che in molte province boicottarono le iniziative della «settimana della pace» e ne denunciarono la presunta «anti-italianità». All’azione dei «Comitati di difesa della pace» aderirono varie organizzazioni democratiche associazioni ed enti tra cui l’Associazione Nazionale Partigiani, l’Associazione Reduci e Combattenti, la Lega dei Comuni democratici, le Camere del Lavoro, l’Associazione sinistrati di guerra, l’Associazione vedove e orfani di guerra, le cooperative[70].

La mobilitazione per la difesa della pace impegnerà l’UDI per un periodo relativamente lungo. Anche negli anni ’50-’60 in presenza di un mutato contesto politico internazionale e dei termini più complessi con cui si porrà il problema dei rapporti tra grandi potenze e rispettivi blocchi ideologico–economici, l’associazione dedicherà ampio spazio all’analisi della situazione internazionale dei trattati per la limitazione degli armamenti in genere e delle armi nucleari in particolare.

Il tema della pace, inoltre, costituì uno dei temi di maggiore mobilitazione dell’organizzazione nel corso della propaganda di sostegno al Fronte Democratico Popolare, in occasione delle elezioni del 18 aprile 1948.

Il II Congresso dell’UDI si era concluso contemporaneamente ad un avvenimento di grande rilievo politico-ideologico e sociale: l’approvazione del testo definitivo della Costituzione (22 dicembre 1947) che fu promulgato il 27 dicembre dal Capo provvisorio dello Stato De Nicola. La carta costituzionale, oltre ad essere il risultato di un compromesso tra le forze cattoliche e quelle marxiste e, in certa misura le forze liberal-moderate, rispondeva, e in questo risiede la sua forza innovatrice, alla duplice esigenza di garantire contro ogni ritorno a regimi reazionari e di predisporre contenuti, organi e strumenti che tutelassero contro tale rischio e che garantissero alle trasformazioni sociali già delineatesi ulteriori sviluppi «in forma progressiva e legalitaria». Senza soffermarci sugli aspetti giuridici della Costituzione e delle ideologie che ne hanno improntato le varie parti, o titoli, come quelle dei rapporti economici e di lavoro, della famiglia dell’educazione e dell’istruzione, dei rapporti tra Stato e Chiesa ecc., e rinviando a studi più approfonditi sull’argomento, ricordiamo soltanto la stretta influenza che le vicende della coalizione di governo esercitarono sui lavori della Costituente e sull’elaborazione del testo costituzionale. I caratteri di quest’ultimo vanno, pertanto, esaminati e valutati anche alla luce delle circostanze in cui vennero definiti e dei contrasti tra le maggiori forze politiche, che prelusero a soluzioni di compromesso e ad un rinvio delle riforme più urgenti atte a modificare le strutture economico-sociali esistenti.

Sul numero di «Noi donne» dell’1-15 gennaio ’48 stranamente non troviamo alcun accenno all’entrata in vigore della Costituzione, di cui non poteva sfuggire la portata storica, sebbene nel breve termine l’attuazione dei principi in essa fissati già apparisse ipotecata dagli sviluppi della situazione politica interna. Grande risalto viene invece dato, sullo stesso numero della rivista, al Congresso con cui, nel dicembre, si è costituito a Napoli il «Fronte del Mezzogiorno» e, in particolare, all’ampia rappresentanza femminile non solo di donne contadine ma anche di «operaie e coltivatrici di tabacco».

Il movimento per il rinnovamento del Mezzogiorno, «contro lo sfruttamento agrario, contro il medioevo nelle campagne, la miseria e l’arretratezza economica e culturale nelle città»[71] riuscì a coinvolgere numerose componenti democratiche della vita economica e sociale del Paese (sindacati, C.d.L., organizzazioni di categoria, associazioni di varia natura) e in tale occasione la Presidente dell’UDI, Maria Maddalena Rossi, portò al Fronte l’adesione dell’associazione. Alle donne meridionali si affiancarono le rappresentanti delle operaie torinesi e milanesi, delle braccianti e, delle contadine emiliane, delle donne toscane e tutte sfilarono in nome e in ricordo di Giuditta Levato, una bracciante calabrese che alla fine del ’46 aveva preso parte attiva alla occupazione delle terre incolte ed era stata uccisa durante gli scontri tra occupanti e forze dell’ordine. Il movimento per la democratizzazione delle campagne vide l’UDI impegnarsi in prima linea anche in occasione della costituzione della «Costituente della terra» (Bologna 21-12-1947) che per la prima volta coinvolse tutti gli strati contadini sulla base di un vasto e articolato programma i cui punti qualificanti erano: riforma agraria per la divisione del latifondo e la distribuzione delle terre incolte, rinnovo dei patti colonici, nuova ripartizione dei prodotti a mezzadria a favore dei contadini lavoratori, «abolizione delle regalie» e istituzione dei Consigli di cascina. Nell’ambito del movimento della Costituente della terra «in seguito ad una proposta fatta dalla delegata UDI di Siena»[72], nacque l’Associazione delle donne contadine che l’UDI affiancò sempre con grande impegno nelle fondamentali battaglie con cui l’Associazione affrontò, oltre ai problemi della riforma agraria e del rinnovamento delle strutture economiche e sociali nelle campagne, anche quelli dell’emancipazione della donna contadina e della difesa dei suoi interessi di lavoratrice e di madre. Del Comitato d’iniziativa faceva parte Adele Bei, dirigente dell’UDI, che presto sarebbe stata eletta anche Presidente dell’Associazione delle donne contadine.

Sul secondo numero di «Noi donne» del 1948 un trafiletto annunciava, sotto il titolo «Per volontà di Popolo», l’avvenuta costituzione del «Fronte Democratico Popolare per la Libertà, il lavoro e la Pace» (Roma, 27 dicembre 1947). Nato come schieramento unitario delle sinistre in vista delle elezioni del 18 aprile, il Fronte avrebbe svolto un ruolo politico di primo piano, ponendosi come polo d’aggregazione di un movimento democratico molto più vasto e comprendente svariate componenti della società italiana. Come sottolineato dalla rivista dell’UDI, ad esso aderirono, infatti, enti, associazioni di varia natura, leghe, cooperative e «organismi nuovi» quali i Consigli di gestione, la Costituente della terra, le Assise del Mezzogiorno.

L’esigenza unitaria era da tempo presente sia nel PCI che nel PSI (e prima ancora nel PSIUP) sebbene in diversa misura, e se l’alleanza elettorale tra i due partiti può essere vista come il frutto di un’evoluzione, sia pur discontinua, della politica d’unità d’azione inaugurata fin dal 1934, non bisogna dimenticare che numerose e ancora profondamente diverse erano tra PCI e PSI le valutazioni politiche della situazione italiana e delle possibili strategie d’intervento nella stessa[73]. Fattore aggregante dello schieramento unitario in funzione antidemocristiana fu senz’altro l’esigenza, avvertita da entrambi i partiti, di incanalare le spinte della base verso una sorta di rivincita sull’impostazione moderata dei governi De Gasperi. Inoltre dopo la costituzione del Cominform (settembre ’47) e le sue pesanti critiche al PCI, accusato di debolezza nei confronti delle forze borghesi e capitalistiche, al partito di Togliatti riuscì sempre più difficile mantenersi fedele ai principi della «via nazionale al socialismo» e della «democrazia progressiva». Gli ambienti più radicali del PCI con l’avallo delle direttive del Cominform, come scrive Setta «si sentivano legittimate a liberarsi, la base operaia e partigiana si sfogava nelle manifestazioni di piazza della pesante moderazione imposta alle sue velleità rivoluzionarie»[74].

Tra la fine del ’47 e i primi mesi del ’48 gli sforzi per salvaguardare l’immagine, faticosamente costruita, del PCI come partito democratico e rispettoso dei valori piccolo-borghesi, furono completamente vanificati dalla ripresa del massimalismo della base, dal contemporaneo sopravvento dell’antisocialismo viscerale di certi ambienti della società italiana e dal conseguente ritorno del partito ad uno schematismo propagandistico e di azione di lotta precedentemente smussato. La credibilità del PCI come partito rispettoso del gioco democratico ed essenziale alla ricostruzione del Paese declino rapidamente, mentre il moltiplicarsi delle manifestazioni di piazza e il concorso di gravi avvenimenti internazionali, quale il colpo di stato comunista in Cecoslovacchia (febbraio 1948), vennero interpretati come conferma di una certa immagine del comunismo, sinonimo di dittatura e violenza. In un clima di crescente radicalizzazione della lotta politica e della propaganda elettorale, la scadenza del 18 aprile fu interpretata dalla DC e dalle forze moderate, di cui questa si era fatta portavoce, come l’ultima occasione per scegliere tra libertà e barbarie (comunista), tra valori cristiani e volgare materialismo marxista. Il clima di crociata che caratterizzò la propaganda DC coinvolse ed impegnò non solo gli ambienti politici e la base del partito ma anche altri settori chiave, adatti ad influenzare l’elettorato e ad orientarlo in funzione anticomunista attraverso il richiamo alla difesa di valori tradizionali come la famiglia, la religione, la proprietà privata, cui notoriamente il popolo italiano, confessionalmente cattolico, e la piccola e media borghesia erano molto sensibili. Accanto alla DC si mobilitò, infatti, la Chiesa nelle sue molteplici articolazioni e strutture che si rivelarono di grande efficacia nell’influenzare l’opinione pubblica e nel rafforzare agli occhi di questa l’identità: comunismo uguale barbarie anticristiana. Attraverso il consolidato monopolio dell’istruzione e delle forme associative para-religiose giovanili, femminili, ecc., attraverso un massiccio impiego di bollettini, pubblicazioni, manifesti cui era garantita una capillare distribuzione attraverso le parrocchie e tutti finalizzati al sostegno della DC, la Chiesa svolse un ruolo di primo piano in quella sorta di «guerra santa» proclamata in vista delle elezioni.

Nel clima arroventato della competizione elettorale si inserirono aspetti e tecniche propagandistiche, slogans ed episodi di costume e di mentalità che dimostrarono come per lo schieramento anticomunista, e in certa misura anche per quello delle sinistre, il 18 aprile fosse veramente un momento di scelta tra un certo ordine morale e culturale, oltre che politico, economico e sociale, tra un genere di vita e una civiltà e un altro ordine e genere di vita nettamente contrapposti. L’importanza del momento trascendeva agli occhi delle parti il risultato politico tout court della consultazione. Il clima di incertezza e di «salto nel buio» già diffuso alla vigilia del 2 giugno ’46 ad opera della DC e delle forze moderato-conservatrici risultò stavolta potenziato e caricato di componenti di ordine religioso e morale che le elezioni del ’46 non avevano conosciuto.

Non mancò, a sostegno della DC, l’aiuto degli Alleati che con alcune dichiarazioni palesemente demagogiche, sebbene in linea con la logica del blocco internazionale in cui l’Italia era economicamente e politicamente ormai inserita, contribuirono ad influenzare in senso moderato l’elettorato (promessa di restituire Trieste all’Italia, paventata sospensione degli aiuti economici in caso di vittoria delle sinistre, ecc.). Nella propaganda anticomunista svolsero un ruolo non trascurabile anche i Comitati Civici e la Spes, i quali fecero abbondante uso di infiammati ed apocalittici richiami al dovere di ogni buon italiano di difendere la religione, la fede, la libertà, la patria e di operare scelte responsabili per la famiglia e soprattutto per i figli.

Molto meno sottile, la propaganda del Fronte si basò principalmente su temi di ordine politico e sociale aventi come denominatore comune una domanda di maggiore partecipazione delle classi lavoratrici al processo di ricostruzione del paese e di maggiore tutela da parte del governo di settori ed interessi prioritari quali il lavoro, i salari, da rendere compatibili col costo della vita, la difesa contro il carovita e contro le speculazioni in tale settore, la riforma agraria, industriale e tributaria, una più efficace e organica politica assistenziale verso i disoccupati e tutti gli altri gruppi sociali «deboli» (infanzia, anziani, ecc.). Anche nella propaganda del Fronte non mancarono slogans e accenti denigratori sulla DC, considerata troppo semplicisticamente, e con grave sottovalutazione della sua rappresentatività di ceti popolari, come il partito dei padroni, dei preti e dell’imperialismo americano. Alcune soluzioni grafiche rappresentavano, infatti, la DC come un tronfio e grasso capitalista in frack e cilindro, con sacchi pieni di lire e dollari, che calpesta gli interessi dei lavoratori, condensati in parole come salario, libertà sindacale, giustizia sociale ecc., o come un terzetto formato dal solito capitalista, da un prete e da un uomo politico, pronti a plasmare l’Italia secondo gli interessi degli USA e del Vaticano. Altrettanto gustosi e fedeli ad un preciso cliché, i manifesti della DC rappresentavano il PCI come un gigantesco e crudele cosacco che calpesta la Basilica di S. Pietro, oppure come un crudele agente di Mosca che riduce l’Italia in catene, si macchia del sangue di innocenti, porta al popolo italiano la fame e la miseria e si appropria di tutti i suoi beni. Al di là di tali rappresentazioni grafiche, più o meno spiritose ed efficaci, questi manifesti sono autentiche testimonianze di un modo di vedere e di interpretare il comunismo e di sentire e vivere l’anticomunismo da parte della piccola e media borghesia italiana, degli ambienti religiosi, dell’opinione pubblica cattolica e moderata[75].

Il Fronte Democratico Popolare si avvalse, dal canto suo, del sostegno dei sindacati, di organizzazioni economico-sociali e associazioni tradizionalmente legati al PCI e al RSI (Camere del Lavoro, Alleanza nazionale dei contadini, associazioni femminili di varia natura, tra cui in primo piano l’UDI, Consigli di gestione, associazioni partigiane ecc.). Uno dei temi di grande attualità per tutta la durata della propaganda elettorale fu quello dell’ordine pubblico. Le frequenti manifestazioni di piazza che caratterizzarono la ripresa del massimalismo dei partiti di sinistra in funzione antigovernativa avevano provocato e continuavano a provocare pesanti interventi della forza pubblica.

Oltre alla stampa di sinistra anche l’UDI, nei primi mesi del ’48, denunciò ripetutamente e con linguaggio violentemente polemico le «selvagge aggressioni della Celere di Scelba» e le «bestiali aggressioni della polizia contro disoccupati e manifestanti» che prendevano parte a cortei, comizi, scioperi. L’UDI si mobilitò, in senso più ampio, a favore del Fronte, svolgendo attraverso le colonne di «Noi donne» una capillare azione di sostegno al PCI e al PSI e di popolarizzazione dei loro obiettivi.

Si fecero pertanto sempre più abbondanti e particolareggiate sulla rivista le cronache del lavoro e delle lotte sindacali, per mettere in luce le difficoltà della classe lavoratrice, e delle donne lavoratrici in particolare, di difendersi contro i licenziamenti, le disparità di trattamento salariale, le discriminazioni di varia natura e l’inefficienza delle strutture previdenziali e assistenziali. La particolare accentuazione data al binomio pace-lavoro, pace-giustizia sociale mirava a evidenziare le gravi implicazioni interne del teso clima internazionale, a sottolineare le insufficienze e le colpe del governo e ad affermare l’improrogabile necessità di inaugurare un nuovo corso politico interno e internazionale in cui gli interessi della classe lavoratrice fossero realmente tutelati dall’offensiva moderato-restauratrice della classe padronale e dagli interessi del capitalismo internazionale. Oltre al notiziari sulle lotte del lavoro e sulle iniziative sindacali e delle associazioni di categoria, venne dedicato maggiore spazio alle notizie di politica estera, dato l’evidente riferimento delle parti contrapposte nella competizione elettorale a due ben distinti blocchi internazionali. Tra le notizie estere veniva, ad esempio, dato un certo risalto, in positivo, all’avanzata dell’esercito popolare cinese in Manciuria e allo sciopero della fame di Ghandi, mentre veniva pesantemente giudicato l’incontro di Crea tra De Gasperi e Bidault in cui sarebbe stata decisa «l’adesione italiana al Blocco Occidentale di guerra» («Noi donne» 25-4-’48).

I temi della disoccupazione, del caro-viveri, della difesa dei salari vennero pubblicizzati dall’UDI anche in forma indiretta con la pubblicazione di novelle o vignette in cui si riproducevano situazioni-tipo ambientate nel mondo del lavoro che miravano, attraverso una piana ed efficace formula narrativa, a rendere i termini dei problemi affrontati più facilmente comprensibili a tutte le lettrici, e ad orientare con immediatezza verso le conclusioni politiche auspicate dal blocco delle sinistre. Non mancavano, poi, sulla rivista dell’UDI, divenuta dal marzo ’48 settimanale, riferimenti e confronti con provvedimenti a favore delle donne lavoratrici, adottati nella zona sovietica della Germania, o con la condizione della donna nell’URSS dove la forza lavoro femminile sarebbe stata perfettamente integrata ed equiparata a quella maschile. Questi spunti e confronti di sapore piuttosto demagogico e molto poco riferibili alla situazione politico-sociale italiana erano, del resto, perfettamente funzionali all’immagine del comunismo sovietico fornita dal PCI in quegli anni e in quel momento politico in particolare. Questo tipo di propaganda sulla giustizia sociale e sul ruolo della donna nei paesi comunisti conferma che l’allineamento dell’UDI alle posizioni del Fronte, e particolarmente del PCI, era in quella fase ormai definitivo e acritico.

Intanto l’1 febbraio si costituiva a Roma «l’Alleanza femminile», movimento unitario di cui entrarono a far parte le organizzazioni e associazioni femminili di varia natura, vicine ai partiti di sinistra, le rappresentanti femminili dei sindacati e di altri organismi democratici, casalinghe, intellettuali, studentesse. L’Alleanza femminile si dichiarò subito impegnata a sostenere il programma di rivendicazioni del Fronte e promosse una serie di manifestazioni e convegni in varie province italiane. Il programma-manifesto lanciato al momento della costituzione poneva l’accento su temi ormai «classici» quali la difesa della pace, la tutela dei diritti della donna in quanto lavoratrice e madre, il diritto di questa a una più ampia e qualificata partecipazione alla vita politica e sociale del Paese, ecc.[76]. L’UDI svolse un ruolo di primo piano all’interno dell’Alleanza e di fatto ne coordinò l’attività delle varie componenti con grande impegno e capacità di mobilitazione in quanto forte, ormai, di una lunga esperienza nell’impostare politicamente i problemi femminili e nel collegarli alla più ampia problematica politica, economica e sociale. I circoli, le dirigenti, le delegate dell’UDI si mossero con disinvoltura e capacità nell’attività di propaganda a favore del Fronte, facilitate dalla grande esperienza di dialogo e di contatto con i più svariati settori delle masse femminili: operaie, contadine, casalinghe, ex-partigiane, addette al pubblico impiego, ecc..

Nei primi mesi del ’48, anche sotto l’impulso dell’UDI, si moltiplicarono Congressi di donne lavoratrici (contadine, casalinghe, insegnanti, operaie) a livello provinciale (Parma, Napoli, Milano, Reggio, Mantova, Cremona, Brescia, ecc.)[77]. Nello spirito del Fronte si svolse anche la celebrazione della giornata internazionale della donna, l’8 marzo, tradizionalmente festeggiata dall’UDI con tutta una capillare serie di iniziative, manifestazioni e attività di propaganda che, nel marzo ’48, furono ulteriormente potenziate e finalizzate al sostegno elettorale del blocco delle sinistre. Alla rivendicazione di misure legislative che fossero fedeli allo spirito della Costituzione, che fissassero e garantissero i diritti della donna, l’UDI affiancò il tema della pace e della lotta contro il piano Marshall e le sue «disastrose conseguenze» e contro gli altrettanto «disastrosi sviluppi che la politica economica del governo, che apriva le porte allo strapotere americano avrebbe avuto sull’indipendenza nazionale»[78]. Preceduto da numerosi Convegni e riunioni, l’8 marzo ’48 fu celebrato dall’UDI con particolare solennità e con un notevole sforzo per il reclutamento di nuove iscritte e simpatizzanti e per una maggiore diffusione di «Noi donne». Per l’occasione la tiratura della rivista raggiunse le 150 mila copie, assestandosi subito dopo su uno standard settimanale di circa 95 mila copie[79].

Il tema della pace fu ulteriormente sottolineato, pochi giorni dopo, dall’imponente manifestazione delle «Assise della Pace» che vide riunite a Roma circa 50 mila donne provenienti da ogni parte d’Italia. All’iniziativa dettero la loro adesione la Federterra, l’ANPI, il Comitato dei Consigli di gestione, la Lega dei comuni democratici, il Comitato nazionale della Costituente della terra, la Lega nazionale delle cooperative, la CGIL e numerose altre organizzazioni e associazioni democratiche. All’inaugurazione delle Assise presiedettero l’on. Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente, l’on. Lizzadri, Segretario della CGIL, la Presidente dell’UDI, Maria Maddalena Rossi, con molte altre dirigenti dell’organizzazione, e la Segreteria generale della FDIF (Federazione Democratica Internazionale Femminile), M. C. Vaillant Couturier. In uno scenario movimentato e variopinto per le ampie rappresentanze femminili in costume regionale e per i numerosi emblemi, gonfaloni, stemmi delle città di provenienza e delle varie associazioni rappresentate, le manifestanti fornirono una testimonianza indubbiamente imponente della volontà di pace delle donne italiane. Tra le altre iniziative ci fu la consegna nelle mani del Capo dello Stato, on. De Nicola, di tremila firme di donne, raccolte in lunghi mesi di attività ad opera dei partiti di sinistra e di varie associazioni e gruppi, loro fiancheggiatori, nelle fabbriche, nelle campagne, nelle scuole, negli uffici, per le case[80].

L’attivismo dell’UDI e delle organizzazioni ad essa collegate si esplicò, inoltre, sotto forme più direttamente collegate alla scadenza elettorale, ossia con un’intensa propaganda a favore delle candidature femminili delle liste del Blocco del Popolo. All’insegna dello slogan «Donne votate per le donne», l’UDI promosse una sistematica campagna d’informazione e pubblicizzazione dei nomi delle candidate, dei collegi in cui esse si erano presentate, della loro militanza politica, delle cariche ricoperte all’interno dei partiti e di associazioni femminili, delle eventuali iniziative a favore delle donne cui esse avessero legato il proprio nome e perfino della loro vita familiare. Tutte queste notizie, raccolte in ampie schede corredate, per lo più, delle foto delle candidate, vennero pubblicate su «Noi donne» senza risparmio di spazio editoriale. Un risalto particolare fu dato alle dirigenti dell’UDI e alle esponenti più in vista dei partiti di sinistra (Marisa Cinciari Rodano, della Segreteria dell’UDI, Ada Alessandrini, fondatrice della Corrente cristiana per la pace, aderente al Fronte, Maria Maddalena Rossi, Presidente dell’UDI, Rosetta Fazio Longo, Segretaria generale dell’UDI, Tullia Romagnoli Carrettoni e Gisella Floreanini del Comitato direttivo, Teresa Noce Longo, Segretaria della Federazione italiana operai tessili, Giuliana Nenni della Segreteria dell’UDI, Rita Montagnana Togliatti, Nadia Gallico Spano, Luciana Viviani, Nilde Jotti, tutte militanti che non hanno bisogno di presentazione e molte delle quali già deputate alla Costituente).

All’UDI, certo, non sfuggiva che la propaganda clerico-moderata sulla componente atea del comunismo aveva facile presa proprio tra le masse femminili, in particolare in quei settori in cui per un eccessivo attaccamento al ruolo tradizionale della donna e per la perdurante estraneità di questa al progresso politico e sociale, i valori tradizionali, primo tra tutti la religione, erano vissuti in modo per lo più acritico, al tempo stesso quasi fanatico, e comunque in linea con le direttive dei parroci e delle gerarchie religiose. L’esigenza di controbattere a questo tipo di propaganda e di ridurre i rischi di un’affluenza massiccia dei voti femminili verso la DC, spinse l’UDI a denunciare su «Noi donne», nei comizi e nelle altre varie forme di propaganda numerosi episodi di intimidazione, di «terrorismo religioso», e tentativi di influenzare la pubblica opinione paventando punizioni divine, scomuniche e altre analoghe conseguenze del voto alle sinistre. Con un linguaggio molto chiaro e fornendo prove che era difficile smentire, l’UDI dimostrò la pesantezza dell’influenza clericale nella campagna elettorale e, per mettere in guardia le donne da tali sistemi di persuasione, ricorse ancora una volta all’esemplificazione delle lettere di Caterina e Grazia, i due personaggi creati per personalizzare le posizioni pro e contro l’emancipazione femminile.

Stavolta Grazia, legata alla visione tradizionale del ruolo della donna, e Caterina, tipica rappresentante dell’impostazione e dei programmi dell’UDI, assunsero rispettivamente posizioni contrarie e favorevoli al FDP e all’emancipazione femminile. Negli articoli di fondo di carattere politico si moltiplicarono, intanto, gli attacchi al «malgoverno De Gasperi», governo «di industriali e agrari che assassinano uomini e donne solo perché sono democratici» (Costi quel che costi, signor De Gasperi?, «Noi donne» 11-4-’48). Quest’ultimo riferimento era alle repressioni delle manifestazioni di piazza e al pesante bilancio della gestione del Ministero degli Interni del democristiano Scelba che subito dopo le elezioni verrà definito su «Noi donne» «bieco protagonista della competizione elettorale», in quanto «tutti i crimini (violenze, assassini, brogli, aggressioni) sono stati commessi in suo nome» («Noi donne» 25-4-’-48). La violenta polemica contro il governo De Gasperi fu motivata non soltanto con l’inefficienza di questo sul piano delle riforme economiche e sociali a favore delle classi lavoratrici ma anche con il sacrificio degli interessi nazionali «ai padron americani», «ai signori d’oltre Oceano». La DC veniva definita praticamente come una delle forze che «credono di vendere il nostro Paese e le nostre aspirazioni per un piatto di lenticchie» (Costi quel che costi..., cit.).

Alla propaganda svolta attraverso le colonne di «Noi donne» l’UDI affiancò un notevole impegno sul piano organizzativo mobilitando i suoi quadri centrali e periferici nell’opera di diffusione di opuscoli, manifestini, ecc. e in comizi, incontri e altre forme di propaganda diretta tra le donne negli ambienti di lavoro, nelle sedi delle associazioni fiancheggiatrici, nelle case. Obiettivamente non era facile per la sinistra in genere e per l’UDI, competere con l’imponente dispiego di mezzi e con la capillare rete di diffusione della propaganda DC; tuttavia l’attivismo dell’Unione donne italiane risultò piuttosto scomodo alla propaganda avversaria, tanto che non mancarono sulle donne dell’UDI prese di posizione denigratorie e improntate a facile ironia. Tra le altre circolava una battuta lanciata da Giorgio Tupini, Presidente della SPES, con la quale si consigliavano tutti i «compagni» di rifornirsi di certi baffi posticci alla Stalin che circolavano in numerosi esemplari in quel momento ad opera della propaganda anticomunista, mentre si esoneravano dal compito le donne dell’UDI, «già provviste in proprio».

I risultati delle elezioni videro assegnati al blocco moderato-conservatore il 57,1% dei voti e in pratica si risolsero con un bilancio fortemente deludente per le sinistre. La DC aveva eroso notevolmente le posizioni dei repubblicani, della sinistra democratica e soprattutto delle destre e si era affermata come partito egemone[81]. La cocente delusione delle sinistre e la soddisfatta presa d’atto del successo da parte della DC rinnovarono le polemiche e svilupparono nuovi motivi di reciproche accuse. I partiti di sinistra denunciarono i numerosi episodi di intimidazione messi in atto da religiosi, da esponenti della DC e perfino dalle «squadracce del MSI», come si legge su «Noi donne» del 25 aprile, brogli e sottrazioni di certificati elettorali verificatisi ad opera di «vari Enti religiosi». Tra gli altri episodi riferiti sulla rivista dell’UDI veniva dato particolare risalto alle interpretazioni indotte da religiosi in piccoli allievi di scuola elementare, nei temi dei quali si leggevano osservazioni di questo tipo: (Cosa ti dice Gesù Crocifisso?) Svolgimento: «... Voglio pregare tanto per le elezioni, ma ad un patto, che Tu faccia vincere il Papa e la sua Chiesa. Se vinceranno i comunisti le chiese saranno distrutte e le Suore saranno fatte tutte prigioniere...» (Istituto delle Suore d’Ivrea - Roma) (in Come hanno vinto, «Noi donne» 2-5 48). Si riferivano, inoltre, episodi di illegittima influenza verso analfabeti, malati, persone anziane, di «ciechi accompagnati da donne dell’Azione Cattolica», addirittura del caso di Udine dove, come in altre località, la percentuale dei votanti era stata del 104% (!). In un’aggressiva quanto amarissima valutazione dei risultati, «Noi donne» precisava che «neppure uno di questi 8 milioni di voti (al FDP, n.d.r.) è stato strappato con la violenza e la paura, la menzogna e il terrorismo. Quanti voti ha invece strappato la DC attraverso le più spudorate menzogne, con i dollari americani buttati nella scandalistica battaglia contro i partiti democratici e attraverso il vergognoso appoggio del clero e del Vaticano che non ha esitato a mutare le Chiese in sale da comizi?...». (Esse hanno le loro rappresentanti in Parlamento, «Noi donne» 2-5-’48). Non si trascurava neppure il ruolo svolto dalle donne nel costruire la vittoria del blocco moderato e non a torto si osservava che la DC aveva individuato in quelle «il lato più debole e facilmente spostabile del corpo elettorale» e aveva fatto leva «sulla coscienza e sul timore religioso delle donne». La valutazione del significato della vittoria elettorale della DC non poteva, tuttavia, prescindere da altre più severe considerazioni critiche sull’elettorato femminile, rivelatosi meno sensibile di quanto previsto e sperato al tema della partecipazione della donna al rinnovamento del Paese prospettato dalle sinistre. Le resistenze al nuovo ruolo della donna, per cui l’UDI da anni si batteva, si erano rivelate tra le donne stesse superiori al previsto e ciò indicava che quell’obiettivo avrebbe potuto essere raggiunto solo nel lungo periodo. La battaglia più impegnativa sarebbe comunque stata quella per il graduale rinnovamento del costume e della mentalità delle donne e sulle donne. All’UDI, inoltre, risultò subito chiaro che i voti ottenuti dalle candidate nelle liste del Fronte erano solo un primo risultato da valorizzare attraverso una serrata politica di opposizione all’egemonia moderata nata dal 18 aprile e una serie di iniziative parlamentari, politiche, economiche da incanalare nello spazio dei partiti di sinistra. Nel limbo in cui vennero confinati il PCI e il PSI, anche per l’UDI non fu facile, comunque, portare avanti il proprio impegno.

In fondamentali momenti di lotta politica, sindacale, parlamentare sia su problemi interni che internazionali (situazione dell’ordine pubblico dopo l’attentato a Togliatti, accesso dell’Italia al Patto Atlantico, legge truffa ecc.) l’UDI affiancherà le sinistre e manterrà per molti anni legate le proprie vicende, il proprio funzionamento, le proprie strutture organizzative e le proprie iniziative a quelle del PCI in particolare, avallando spesso un’immagine d’identità con le cellule femminili del partito. Forza, e al tempo stesso limite, dell’UDI, almeno fino alla metà degli anni Cinquanta, tale identificazione cederà il posto ad un recuperato margine di autonomia e ad un tentativo di elaborazione originale della «questione femminile» solo nel ’55-’56 quando, in concomitanza di significativi avvenimenti internazionali e della loro eco sul piano interno e nel mondo comunista in particolare, l’UDI avvertirà l’esigenza di non essere più identificata col PCI. Conseguentemente l’organizzazione riuscirà a recuperare una maggiore intesa con le donne socialiste e con le indipendenti, intesa che si era gravemente logorata.

Si avvertirà allora anche l’esigenza di riaprire con le donne cattoliche quel dialogo da tempo interrotto che aveva limitato le possibilità di espansione del movimento. Che la rinuncia al rapporto con le cattoliche fosse stata, nel ’47 -’48, una necessità indotta dalla contrapposizione frontale DC-PCI ma al tempo stesso un fatto che aveva prodotto una grave limitazione del raggio d’influenza dell’UDI, era risultato subito chiaro se già sul numero di «Noi donne» del 9 maggio si leggeva un appello unitario del seguente tono: «Che tutte le donne, abbiano esse votato per la DC o per qualche altro partito, si uniscano alla lotta che condurranno le organizzazioni democratiche, prima tra queste l’UDI e l’Alleanza femminile...» (Unirsi per difendere la pace, «Noi donne» 9-5-’48) e se in agosto la rivista pubblicava un invito alla collaborazione alle ragazze dell’Azione Cattolica da parte di una dirigente dell’Associazione Ragazze d’Italia (ARI), notoriamente organizzazione fiancheggiatrice dell’UDI (A voi ragazze di Azione Cattolica che siete venute a Roma, «Noi donne» 22-8-’48).

L’allargamento dell’influenza dell’UDI tra le masse femminili e i rapporti tra le dirigenti e la base risulteranno in questo periodo (’49-’55) non sempre facili. Riducendosi notevolmente l’attivismo dei Circoli e concentrandosi l’attività politica nell’UDI nazionale, molte iniziative presenteranno un carattere verticistico, imposto dall’alto, che l’alto numero di adesioni a mezzo cartolina a certe campagne non basta a smentire, data la sporadicità di tali risultati.

Negli anni ’50-’60 l’impegno dell’UDI si concentrerà sull’obiettivo dell’applicazione della Costituzione e del concreto riconoscimento della parità tra uomo e donna sia sul piano giuridico che nel campo economico-sindacale. La battaglia per il lavoro impegnerà in modo quasi esclusivo il movimento delle donne e contemporaneamente i termini del dibattito sul significato dell’emancipazione e i suoi contenuti si amplieranno, mostrando spesso non irrilevanti divergenze tra la componente comunista e quella socialista del movimento. L’esigenza di un’elaborazione autonoma da quella dei partiti, enunciata organicamente nel Congresso del ’56 ma non nuova all’interno dell’UDI, spingerà il movimento ad ampliare i contenuti e i temi di lotta (controllo delle nascite, aborto ecc.) e a cercare di estendere la propria influenza ben oltre l’area social-comunista[82]. Questi ultimi obiettivi conosceranno una realizzazione parziale che non impedirà, tuttavia, di considerare l’UDI un’importante organizzazione di massa e una componente politicamente qualificata della crescita democratica del Paese.

[1] Mancano del tutto studi sulla condizione della donna durante il fascismo. Nel quadro delle manifestazioni celebrative del trentesimo, è stato organizzato a Bologna, dalle tre associazioni partigiane e dalla Regione Emilia-Romagna un Convegno di studio sulla condizione femminile nel periodo fascista (gli atti non sono ancora stati pubblicati). Alcuni aspetti del consenso femminile al regime sono analizzati in M. A. Maciocchi, La donna nera, Feltrinelli, Milano 1975. Lo studio di P. Meldini, Sposa e madre esemplare. Ideologia a politica della donna e della famiglia durante il fascismo, Guaraldi, Firenze 1976 è prevalentemente una raccolta di scritti del ventennio sul ruolo che il fascismo voleva assegnare alla donna e sulle varie e aberranti argomentazioni addotte a giustificazione della politica demografica, della campagna contro il lavoro femminile, ecc. Sulla «liquidazione» della questione femminile da parte del fascismo si veda pure il recente saggio di S. Santarelli, Il fascismo e le ideologie antifemminili, in «Problemi del socialismo», 1976, n. 4, pp. 75-108.

[2] Tra le antifasciste militanti del periodo della clandestinità che vissero l’esperienza del carcere e del confino ricordiamo Adele Bei, Margherita Blaho, Gisella Floreanini, Nella Marcellino, Rita Montagnana, Lina Merlin, Teresa Noce, Rina Picolato, Maddalena Secco, Marina Sereni, Nadia Spano, Camilla Ravera; Iside Viana, nella maggioranza militanti comuniste.

[3] Sulla partecipazione delle donne alla Resistenza, oltre alle memorie di molte protagoniste, si vedano: AA. VV. Mille volte no. Contributo delle donne alla Resistenza (a cura dell’UDI), Editori Riuniti, Roma; G. Beltrami, La donna e laResistenza, in La donna in cinquant’anni di lotte socialiste, 1924-1974 Partito Socialista Italiano, 1974 (ciclostilato); A. M. Bruzzone, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, La Pietra, Milano 1976; Le donne nellaResistenza (a cura di F. Etnasi), Milano 1966; G. Floreanini, Le donne nella Resistenza, in Italia 1945-1975. Fascismo antifascismo Resistenza rinnovamento, pp. 271-277; A. Galante Garrone, La donna italiana nella Resistenza, in L’emancipazione femminile in Italia. Un secolo di discussioni 1861-1961. Atti del Convegno organizzato dal Comitato di Associazioni femminili per la parità di retribuzione. Torino 27-28-29 ottobre 1961, La Nuova Italia, Firenze 1963, pp. 61-80; M. A. Macciocchi, cit. p. 134 e sgg.; A. Marchesini Gobetti, Perché erano tante nella Resistenza, in La donna in Italia, «Rinascita», n. 3, marzo 1961, pp. 245-251; A. Tiso, I comunisti e la questione femminile, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 60 e sgg.; C. Ravera, La donna italiana dal primo al secondo Risorgimento, Roma 1951. Un importante lavoro è il recente saggio di B. Guidetti Serra, Compagne, 2 voll. Einaudi, Torino 1977 che raccoglie numerose testimonianze di donne di un rione popolare torinese sulla Resistenza sugli anni della ricostruzione, del boom economico, ecc. fino ai nostri giorni. Ne emerge non solo un interessante spaccato della condizione femminile in una città industriale tipo come Torino ma anche il tipo di coscienza e il maggiore o minore grado di consapevolezza con cui le donne intervistate hanno vissuto determinate esperienze politiche (nel partito, nelle organizzazioni femminili, in fabbrica, ecc.). Il lavoro della Guidetti Serra ha destato vivaci polemiche, ancora in corso, soprattutto sul ruolo delle donne nella Resistenza.

[4] G. Floreanini, cit., pp. 273-274.

[5] Sulle richieste dei «Gruppi di difesa della donna» si vedano M. Mafai-L. Viviani, I comunisti e la famiglia: 25 armi di lotte, in «Donne e politica» n. 3, maggio 1970; A. Marchesini Gobetti, in Unità ed emancipazione delle donne per il progresso della società, VII Congresso nazionale dell’UDI, Roma 1964, p. 439 e sgg.; A. Tiso, cit., pp. 60-62; G. Ascoli, L’UDI tra emancipazione e liberazione (1943-1964) in «Problemi del socialismo», 1976, n. 4, p. 111 e sgg.

[6] Gli unici studi specifici sulla nascita dell’UDI e la vita dell’organizzazione dal ’44 agli anni ’60, di cui siamo a conoscenza, sono L’Unione donne italiane, in A. Manoukian (a cura di), La presenza sociale del PCI e della DC, Ricerche sulla partecipazione politica a cura dell’Istituto di studi e ricerche «Carlo Cattaneo», vol. IV, Il Mulino, Bologna 1969, pp. 213-237 e lo studio di G. Ascoli, cit. Il primo saggio dedica ampio spazio alla struttura organizzativa dell’UDI mentre molto più sintetica e meno problematica risulta l’analisi della politica seguita dall’organizzazione, meglio delineata nel più recente studio di G. Ascoli. Si vedano inoltre, G. Dal Pozzo, Le donne nella storia d’Italia, edizioni del Calendario; N. Spano - F. Camarlinghi, La questione femminile nella politica del PCI, ed. Donne e Politica, Roma 1972; diversi articoli sulla nascita dell’UDI e sul significato della sua azione nel quadro del processo di emancipazione femminile si trovano sulla stampa di partito. Si vedano tra l’altro, «Rinascita» n. 3, marzo 1961 e «Donne e politica» n. 17, marzo ’73 (articoli di L. Gruppi, M. Rodano ecc.).

[7] A. Tiso, cit., pp. 63-64.

[8] Dal discorso pronunciato da Togliatti alla I Conferenza femminile del PCI, Roma 2-5 giugno 1945 in P. Togliatti, L’emancipazione femminile, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 53.

[9] Per un quadro sintetico dell’adesione delle donne al PCI dopo la Liberazione si veda L’organizzazione delle donne nel PCI dal 1944 al 1963, in La presenza sociale... cit., pp. 355-368. Per una valutazione «dall’interno» del PCI a proposito della politica del partito verso le organizzazioni femminili si veda C. Ravaioli, La questione femminile. Intervista col P.C.I., Bompiani, Milano 1976. Alla fine del ’45 le donne iscritte al PCI sarebbero state circa 250.000 (da L’organizzazione delle donne... cit.).

[10] L’appello è pubblicato in Linee di sviluppo dei 20 anni di vita dell’UDI, 1944-1964 in «La posta della settimana», a. II, n. 13-14-15, novembre 1963, pp. 6-8

[11] Sul «Comitato pro-voto» si veda R. Longo, cit., pp. 9-10.

[12] ) L. Mercuri, 1943-1945, Gli Alleati e l’Italia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1975, p. 261.

[13] ) La citazione tratta dall’articolo di Michele Cifarelli e pubblicato su «Problemi sociali» è in L. Mercuri, cit., pp. 115-116.

[14] ) Cfr. L. Mercuri, cit., p. 116.

[15] Per le direttive organizzative provvisorie approvate dal Comitato d’iniziativa dell’UDI si veda Linee di sviluppo dei 20 anni... cit., pp. 9-10.

[16] F. Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia 1919-1948, Feltrinelli, Milano 1975, vol. 2, p. 137.

[17] M. Legnani, L’Italia dal ’43 al ’48. Lotte politiche e sociali, Loescher, Torino 1974, p. 53.

[18] F. Catalano, ibidem, p. 137.

[19] Per la valutazione di alcune impostazioni storiografiche del problema si veda N. Gallerano, Il contesto internazionale in Il dopoguerra italiano 1945- 1948. Guida bibliografica, Feltrinelli, Milano 1975. Si vedano inoltre A. Gambino, Storia del dopoguerra dalla Liberazione al potere D.C., Laterza, Bari, 1975, p. 41 e sgg.; L. MERCURI, cit p. 371.

[20] M. Legnani, cit., p. 54. Per un’analisi pin completa dell’atteggiamento degli Alleati verso le sinistre si veda il già citato saggio di L. Mercuri.

[21] Sulla situazione economica italiana di questo periodo si vedano C. Daneo, La politica economica della ricostruzione 1945-1949, Einaudi, Torino 1975; M. De Cecco, La politica economica durante la ricostruzione 1945-1951, in S. J. Woolf (a cura di), Italia 1943-1950..., cit. pp. 283-318; A. Gambino, cit., p. 57 e sgg.; A. Graziani (a cura di), L’economia italiana: 1945-1970, Il Mulino, Bologna 1972; G. Podbielski, Storia dell’economia italiana 1945- 1974, Laterza, Bari 1975. Sulle lotte sociali si vedano G. Bertolo-R. Curti-L. Guerrini, Il dibattito sulla questione agraria e le lotte contadine, in Il dopoguerra italiano 1945-1948, cit., pp. 153-182; C. Della Valle, Lotte sociali nell’Italia settentrionale, ibidem. pp. 125-138; V. Foa, Sindacati e lotte operaie, 1943-1973, Loescher, Torino 1975; S. TURONE, Storia del sindacato in Italia, 1943-1969, Laterza, Bari 1973.

[22] Sul governo Parri si vedano F. Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia 1919-1948, Feltrinelli, Milano 1970, vol. II; Idem. La «nuova» democrazia italiana in S. J. Woolf (a cura di), Italia 1943-1950 cit., p. 102 e sgg.: A. Gambino, Storia del dopoguerra... cit., p. 54 e sgg., E. Piscitelli, Da Parri a De Gasperi. Storia del dopoguerra 1945-1948, Feltrinelli, Milano 1975.

[23] Il testo della Conferenza è in P. Togliatti, L’emancipazione... cit., pp. 21-48. Nel corso della Conferenza veniva chiarita anche la strategia organizzativa del PCI tra le donne, già delineatesi nel partito prima della Liberazione.

[24] P. Togliatti, cit., pp. 31 e 37.

[25] A tutto l’agosto ’45 esistevano a Roma 41 Circoli UDI. Oltre ai dati parziali forniti con una certa continuità da «Noi donne», non siamo riusciti a trovare un elenco completo dei circoli e dei Comitati provinciali per l’anno ’45. I primi dati esaurienti rinvenuti tra il materiale consultato riguardano i Comitati provinciali esistenti all’estate ’46. Secondo tale elenco esisteva un Comitato in ogni provincia italiana. I dati sono riportati in L’Unione donne italiane per le mogli deiprigionieri e le vedove di guerra, UDI di Roma, 1946, pp. 2 e 15.

[26] Sull’impegno dell’UDI in occasione delle elezioni amministrative e per una valutazione dei risultati ottenuti dalle liste femminili si veda R. Longo, cit., pp. 12-18. Molto utile, naturalmente, la consultazione di «Noi donne» per comprendere il clima di novità. e di entusiasmo che caratterizzò l’impegno dell’organizzazione ai vari livelli.

[27] Sul previsto cambio della moneta e sulle altre misure di finanza straordinaria si vedano C. Daneo, La politica economica. ...cit., p. 127 e sgg.; A. Gambino, Storia del dopoguerra... cit., p. 109 e sgg.; E. Piscitelli, Del cambio o meglio del mancato cambio della moneta nel secondo dopoguerra, in «Quaderni dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza», 1969, n. 1, pp. 9-88 ora in Idem, Da Parri a De Gasperi... cit.

(8) Sulle linee di politica economica della ricostruzione si vedano L. Barca, Il condizionamento internazionale, in Italia 1945-1975, cit., pp. 346-360; P. Barucci, Il dibattito sulla politica economica della ricostruzione 1943-’47, relazione presentata al Convegno su «L’Italia dalla liberazione alla repubblica. Questione internazionale, situazione interna», Firenze 26-28 marzo 1976 ora in AA. VV., L’Italia dalla liberazione alla repubblica, Feltrinelli, Milano 1977. Cfr. pure C. Daneo, cit., passim; M. DE CECCO, cit., passim; V. Foa, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra, in «Rivista di storia contemporanea», 1973, n. 4, pp. 433-455; Idem, Movimento operaio e ricostruzione in Italia 1945-1975... cit. pp. 335-345; Idem, Sindacati e classe operaia, in L’Italia contemporanea 1945-1975, Einaudi, Torino 1976, pp. 253-276; S. Lombardini, Riflessioni sulla «Ricostruzione», in Italia 1945-1975... cit., pp. 303-334; R. Luperini, Gli intellettuali di sinistra e l’ideologia della ricostruzione nel dopoguerra, «Ideologie», Roma 1971; B. Manzocchi, Lineamenti di politica economica in Italia 1945-1959, Editori Riuniti, Roma 1960; R. Morandi, Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica 1945-1948, Einaudi, Torino 1960; M. Salvati, Ricostruzione e disegno capitalistico, in Il dopoguerra italiano... cit., pp. 89-110; G. Santomassimo, Un dibattito sulle linee della ricostruzione, ibidem, pp. 69-88; P. Saraceno, Intervista sulla ricostruzione (a cura di L. Villari), Laterza, Bari 1977

[28] Sulle linee di politica economica della ricostruzione si vedano L. Barca, Il condizionamento internazionale, in Italia 1945-1975, cit., pp. 346-360; P. Barucci, Il dibattito sulla politica economica della ricostruzione 1943-’47, relazione presentata al Convegno su «L’Italia dalla liberazione alla repubblica. Questione internazionale, situazione interna», Firenze 26-28 marzo 1976 ora in AA. VV., L’Italia dalla liberazione alla repubblica, Feltrinelli, Milano 1977. Cfr. pure C. Daneo, cit., passim; M. DE CECCO, cit., passim; V. Foa, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra, in «Rivista di storia contemporanea», 1973, n. 4, pp. 433-455; Idem, Movimento operaio e ricostruzione in Italia 1945-1975... cit. pp. 335-345; Idem, Sindacati e classe operaia, in L’Italia contemporanea 1945-1975, Einaudi, Torino 1976, pp. 253-276; S. Lombardini, Riflessioni sulla «Ricostruzione» in Italia 1945-1975... cit., pp. 303-334; R. Luperini, Gli intellettuali di sinistra e l’ideologia della ricostruzione nel dopoguerra, «Ideologie», Roma 1971; B. Manzocchi, Lineamenti di politica economica in Italia 1945-1959, Editori Riuniti, Roma 1960; R. Morandi, Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica 1945-1948, Einaudi, Torino 1960; M. Salvati, Ricostruzione e disegno capitalistico, in Il dopoguerra italiano... cit., pp. 89-110; G. Santomassimo, Un dibattito sulle linee della ricostruzione, ibidem, pp. 69-88; P. Saraceno, Intervista sulla ricostruzione (a cura di L. Villari), Laterza, Bari 1977

[29] Lo studio più completo e documentato su questo tipico fenomeno del secondo dopoguerra è quello di S. Setta, L’Uomo qualunque, Laterza, Bari 1975. Di taglio più giornalistico G. Pallotta, Il qualunquismo e l’avventura di Guglielmo Giannini, Bompiani, Milano 1972.

(9bis) Cfr. A. M. Kamarck (introduzione di L. Mercuri), Politica finanziaria degli Alleati in Italia (1943-1947), Caracas, Roma 1977.

[30] Per un’analisi delle posizioni dei liberisti e dei fautori dell’intervento pianificatore dello Stato in materia economica e per gli orientamenti e le richieste degli industriali italiani in proposito si vedano G. Amato (a cura di), Il governodell’industria in Italia, Il Mulino, Bologna 1972; P. Barucci, relaz. cit.; C. Daneo, cit., p. 100 e sgg.; Ministero per la costituente, Rapporto della Commissione economica presentato all’Assemblea Costituente, Poligrafico dello Stato, Roma 1946 e sgg.; L. Villari, (a cura di), Il capitalismo italiano del ’900, vol. II, pp. 459-480 (in cui sono riportate le interviste svolte nel quadro dell’inchiesta del Ministero per la Costituente sull’economia italiana a Costa, Marzotto, Falck, Valletta e Serpieri).

[31] In mancanza degli atti del Congresso ci siamo avvalsi dei resoconti e degli stralci di relazioni e interventi riportati su «Noi donne» dell’ottobre-novembre 1945 e dei documenti pubblicati in Linee di sviluppo dei 20 anni di vita dell’UDI, cit.

[32] Si veda Linee di sviluppo... cit., p. 58 e sgg.

[33] Sulla crisi del governo Parri e il suo significato si vedano A. Gambino, cit., p. 81 e sgg.; E. Piscitelli, cit., p. 88 e sgg.

[34] Secondo alcuni dati forniti da «Noi donne», all’aprile ’45 le iscritte all’UDI sarebbero state 50.000, mentre circa un anno più tardi, alla vigilia del referendum istituzionale, esse sarebbero state 700.000 (cfr. Perché queste menzogne?, «Noi donne» foglio speciale, 7-4-’46). Riteniamo però che le due cifre non siano comparabili tra loro perché non omogenee: la cifra che si riferisce al marzo-aprile ’46, infatti, comprende certamente anche le aderenti ad associazioni fiancheggiatrici dell’UDI (ad esempio l’Associazione Ragazze d’Italia). Nel citato saggio L’Unione donne italiane (p. 220) per l’anno 1946 sono riportate 401.391 iscritte e quasi certamente si tratta di dati forniti dall’UDI o dalla redazione di «Noi donne» (la fonte non è indicata).

[35] Nel corso del I Congresso i due centri dirigenti di Milano e Roma erano stati unificati in un unico organismo con sede nella capitale.

[36] F. Catalano, L’Italia ... cit., p. 257. Sulla crisi del Partito d’Azione si veda L. Mercuri, La crisi del Partito d’Azione in «Storia contemporanea», n. 3, settembre 1976, pp. 547-565; Idem (a cura di) La crisi del Partito d’Azione: febbraio 1946, Quaderno FIAP, nuova serie, n. 26, ottobre 1977.

[37] Sui partiti politici nel secondo dopoguerra (ideologia, struttura, azione politica, dialettica interna, rapporto con le forze sociali e con le istituzioni) si vedano, oltre al saggio bibliografico e metodologico di L. Ganapini, I partiti politici, in Il dopoguerra italiano... cit., pp. 27-48, i seguenti studi di carattere generale: F. Catalano, L’Italia dalla dittatura... cit.; R. Colapietra, La lotta politica in Italia dalla Liberazione alla Costituente, Patron, Bologna 1969; G. De Rosa, I partiti politici dopo la Resistenza, in Dieci anni dopo (1945-1955). Saggi sulla vita democratica italiana, Laterza, Bari 1975, pp. 113-208; G. Galli (a cura di) I partiti politici, UTET, Torino 1974; A. Gambino, cit.; N. Kogan, L’Italia del dopoguerra. Storia politica dal 1945 al 1966, Laterza, Bari 1966; G. Mammarella, L’Italia dopo il fascismo: 1943-1968; Il Mulino, Bologna 1970; G. Sivini (a cura di), Partiti e partecipazione politica in Italia. Studi e ricerche di sociologia politica, Giuffré, Milano 1972.

In particolare sulla DC si vedano G. Andreotti, De Gasperi e il suo tempo, Milano 1964; Idem, Intervista su De Gasperi (a cura di A. Gambino), Laterza, Bari, 1977; G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere. La DC di De Gasperi e di Dossetti 1945-1954, 2 voll., Vallecchi, Firenze 1974; M. R. Catti De Gasperi, De Gasperi uomo solo, Mondadori, Milano 1964; A. De Gasperi, Discorsi politici 1945-1953, Cinque Lune, Roma 1976; Idem, I cattolici dall’opposizione al governo,Laterza, Bari 1955; G. Galli-P. Facchi, La sinistra democristiana, Feltrinelli. Milano 1962; G. Galli, Storia della Democrazia Cristiana, Laterza, Bari 1978; L. Menapace, La Democrazia Cristiana, Milano 1974; P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, Bologna 1977; G. Spataro, I democratici cristiani dalla dittatura alla Repubblica, Mondadori, Milano 1968; S. Tupini, I democratici cristiani. Cronaca di dieci anni, Garzanti, Milano 1954; L. Valiani, L’avvento di DeGasperi, Silva, Torino 1949; F. Vianello, La DC e lo sviluppo capitalistico in Italia dal dopoguerra ad oggi, in Tutto il potere della DC, Coines, Roma 1975, pp. II- 50.

Sul PCI si vedano G. Amendola, Lotta di classe e sviluppo economico dopo la liberazione in Idem, Classe operaia e programmazione democratica, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 201 - 286; G. Bocca, Palmiro Togliatti, cit.; L. Maitan, PCI 1945-1965. Stalinismo e opportunismo, Samonà e Savelli, Roma 1969, R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Staria delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, vol. II, Ed. Oriente, Milano 1966; G. Galli, Storia del PartitoComunista Italiano, Schwarz, Milano 1958; Problemi di storia del Partito comunista italiano, Editori Riuniti, Roma 1971; P. Togliatti, Opere scelte, a cura di G. Santomassimo, Editori Riuniti, Roma 1974; P. Spriano, Storia del Partitocomunista, vol. V, Einaudi, Torino, 1975; Trent’anni di vita e di lotte del PCI, in «Quaderni di Rinascita», n. 2, Roma 1951; G. Vacca, Saggio su Togliatti e la tradizione comunista, De Donato, Bari 1975.

Sul Partito Socialista si vedano A. Agosti, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica, Laterza, Bari 1971; A. Benzoni-V. Tedesco, Il movimento socialista nel dopoguerra, Marsilio, Padova 1968; L. Basso, Il Partito Socialista Italiano, Nuova Accademia, Milano 1958; L. Faenza, La crisi del socialismo in Italia 1946-1966, Alfa, Bologna 1967; A. Landolfi, Il socialismo italiano. Strutture, comportamenti, valori, Lerici, Roma 1968; P. Nenni, Una battaglia vinta, ed. Leonardo, Roma 1946; L. Guerci, Il partito socialista italiano dal 1919 al 1946, Cappelli, Firenze 1969; M. Punzo, Dalla Liberazione a palazzo Barberini, CELUC 1973; (Il) Partito Socialista Italiano nei suoi Congressi. Vol. V: 1942-1955, a cura di F. Pedone, edizioni del Gallo, Milano 1968.

Sul Partito liberale si veda A. Ciani, Il Partito liberale italiano, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1968.

Sulle destre monarchiche (dal ’43 al 2 giugno ’46) si veda S. Setta, Il partito democratico italiano; Quaderno FIAP, nuova serie, n. 2, 1976.

Sul Partito d’Azione si veda E. Lussu, Sul Partito d’Azione e gli altri, Mursia, Torino 1968; Elena A. Rossi, Il Movimento Repubblicano - Giustizia e Libertà e il Partito d’Azione, Cappelli, Firenze, 1969; L. Mercuri (a cura di), La crisi del Partito d’Azione, febbraio 1946 - Testimonianze e documenti. Quaderni FIAP, n. 26, 1977; A. Alosco, Il Partito d’Azione a Napoli, Guida, 1975.

[38] Il PCI presentò nelle sue liste 68 donne, la DC 29, il PSIUP 16, il Partito d’Azione 14, l’Unione democratica nazionale 8, la Concentrazione democratica nazionale 8, il Fronte dell’Uomo qualunque 7. Aggiunte a quelle presentate dai gruppi minori il totale delle candidate fu di 226. I dati sono quelli riportati in R. Longo, cit., p. 20.

[39] La percentuale nazionale dei voti fu la seguente: DC 35%, PSIUP 20,7%, PCI 19%, Concentrazione democratica repubblicana 4,4%, Unione democratica nazionale 6,8%, Fronte dell’Uomo qualunque 5,3/%, Partito d’Azione 1,5% (da M. Legnani, cit.; p. 92).

[40] ) Sull’Assemblea Costituente si vedano E. Cheli, Il problema storico della Costituente, in S. J. Woolf (a cura di), cit., pp. 193 254 ; Ministero per la costituente, Atti, Poligrafico dello Stato, Roma 1946 e sgg.; P. Permoli, La Costituente e i partiti politici italiani, Il Mulino, Bologna 1966; G. Sartori, Il Parlamento italiano. 1946-1963, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1963.

10bis Cfr. P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, Bologna 1977, pp. 294-295.

[41] R. Longo, cit., p. 21.

[42] Sulle lotte nelle campagne del Centro-Sud nei primi anni del dopoguerra si vedano G. Amendola, Lo sviluppo democratico del mezzogiorno dal 1944 al 1954, in «Cronache meridionali», novembre-dicembre 1954, nn. 11-12, pp. 746-788; G Bertolo, R. Curti, L. Guerrini, Il dibattito sulla questione agraria... cit.; A. Caracciolo, L’occupazione delle terre in Italia, Edizioni di Cultura sociale, Roma s. d.; R. GRIECO, I contadini meridionali all’attacco del latifondo, Roma 1949; La situazione nelle campagne, serie «Quaderni della CGIL», Roma 1956; P. PEZZINO, Riforma agraria e lotte contadine nel periodo della ricostruzione, in «Italia contemporanea», a. XXVIII, n. 122, gennaio-marzo 1976, pp. 59-88; E. Sereni, Il Mezzogiorno all’opposizione, Einaudi, Torino 1947; IDEM, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Einaudi, Torino 1946; S. Tarrow, Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, Einaudi, Torino 1973; «Critica marxista», a. VIII, n. 1-2, gennaio-febbraio 1970 (l’intero fascicolo è dedicato ai problemi dell’agricoltura e alle lotte dei lavoratori della terra).

Si vedano anche alcuni studi sulle lotte contadine in determinate zone (Calabria, Sicilia, Lazio, ecc.). Tra questi S. Casmirri-A. Parisella (a cura di), Il movimento contadino nella storia del Lazio - 1945-1975, (Atti del Convegno indetto dall’Alleanza contadini del Lazio-Roma 30 ottobre 1975), Roma, 1978; F. Renda, Il movimento contadino in Sicilia, De Donato, Bari 1976; M. Alcaro- A Paparazzo, Le lotte contadine in Calabria 1943-1950, Lerici, Cosenza 1976; P. Cinanni, Lotte per la terra e comunisti in Calabria. 1943-1953, Feltrinelli, Milano 1977; N. Calice, Partiti e ricostruzione nel Mezzogiorno. La Basilicata nel dopoguerra, De Donato, Bari 1976.

[43] Sui Consigli di gestione e, più in generale, sulla politica sindacale del periodo considerato si vedano B. BECCALLI, La ricostruzione del sindacalismo italiano 1943-1950, in Italia 1943-1950... cit., pp. 319-388; C. Daneo, cit., p. 87 e sgg.; V. Foa Movimento operaio e ricostruzione, cit., p. 344 e sgg.; L. Lanzardo, Classe operaia e partito comunista alla FIAT. La strategia della collaborazione. 1945-1949, Einaudi, Torino 1971; R. Morandi, Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica 1945-1948, Einaudi, Tonno 1960; (Il) movimento sindacale in Italia. Rassegna di studi 1945-1969, Fondazione Einaudi, Torino 1970 passim.; A. Pepe, La CGIL dalla ricostruzione alla scissione, 1944-1948, in «Storia contemporanea» n. 4, dicembre ’74, pp. 137-290; E. Sereni, I Consigli di gestione, in «Rinascita», n. 9-10, settembre-ottobre 1945; S. Turone, cit., passim.

[44] Nelle elezioni amministrative del novembre ’46 a Roma il Fronte dell’Uomo qualunque riportò 106.780 voti (20,7%) contro i 104.627 voti (20,3%) della DC e i 190.038 (36,9%) del blocco delle sinistre. Circa un anno più tardi, in occasione delle elezioni amministrative del 12 ottobre ’47, la DC avrebbe recuperato sul Fronte dell’Uomo qualunque ottenendo il 32,8% dei voti contro il 10,2% dei qualunquisti e il 33,5% del Blocco del Popolo. I dati sono riportati in S. Setta, cit. p. 184.

[45] Sul «nuovo corso» di politica economica del PCI si vedano L. Barca-F. Botta-A. Zevi, I comunisti e l’economia italiana 1944-1974, passim; C. Daneo, cit., p. 117 e sgg.

[46] Dal discorso di Nadia Gallico Spano pronunciato all’Assemblea Costituente il 25-7-’46, in L’Unione donne italiane per le mogli dei prigionieri... cit., p. 7.

[47] Il testo del discorso di Togliatti è in P. Togliatti, L’emancipazione... cit., pp. 49-71.

[48] Nel corso del Convegno nasce la Confederterra, aderente alla CGIL e articolata in quattro settori: Federazione salariati e braccianti, Federazione coloni e mezzadri, Sindacato impiegati e tecnici agricoli, Associazione coltivatori diretti.

[49] Sulla vicenda e il dibattito politico che portarono alla scissione socialista si veda M. Punzo, Dalla Liberazione... cit., passim. Sui rapporti tra socialisti e comunisti, nodo decisivo della crisi, si veda G. Giusti, Comunisti e socialisti 1934-1948, Quaderni FIAP, nuova serie, n. 5 1977.

[50] I dati sulla diffusione di «Noi donne» pubblicati in L’Unione donne italiane, cit. p. 234 (tab. 2. III), sono i seguenti: 1946, 5000 copie; 1947, 50.000-70.000 copie; 1948, 90.000 copie; 1949, 160.000 copie. Tali dati sarebbero stati forniti dalla redazione di «Noi donne».

Le cifre fornite dalla stessa rivista non corrispondono però a quelle riportate sopra. Questa seconda serie di dati si riferisce, inoltre, alla tiratura e non alla diffusione: dal 1946, in coincidenza con l’uscita di un nuovo formato della rivista, la tiratura sarebbe stata di 5.000 copie; dagli inizi del 1947, in corrispondenza della trasformazione di «Noi donne» in rotocalco, la tiratura avrebbe raggiunto le 15.000 copie mentre alla fine dell’anno, dopo il II Congresso, queste sarebbero diventate 40.000; nel 1948 si sarebbero raggiunte le 90.000 copie (dall’aprile la rivista assume periodicità settimanale) e alla fine dello stesso anno, dopo un ulteriore miglioramento de1la veste tipografica, il numero delle copie sarebbe stato di 110.000.

Fino al 1949 «Noi donne» fu diretta da Dina Rinaldi, comunista, alla quale subentrerà Maria Antonietta Macciocchi, pure comunista. La redazione era interpartitica. Alla diffusione della rivista provvedeva una rete di diffonditrici alla quale contribuiva in modo notevole il PCI.

[51] Sul significato della svolta del maggio ’47 i giudizi e le interpretazioni degli storici sono ancora controversi. Per alcune di tali valutazioni si vedano G. Carocci, cit., pp. 339-341; A. Gambino, Storia del dopoguerra... cit., p. 290 e sgg.; R. Moscati, Nota sulla «svolta» del giugno 1947, in «Storia contemporanea», anno V, n. 4, dicembre 1974, p. 569 e sgg.; P. Scoppola, La proposta politica... cit., p. 253 e sgg.

[52] P. Scoppola, cit., pp. 307-308.

[53] V. Castronovo, Senza potere i sindacati, in «La Repubblica», 9 maggio 1977.

[54] E. Di Nolfo, Truman chiede governo anticomunista, ibidem.

[55] G. Carocci cit., p. 341.

[56] I dati forniti si riferiscono al ’49 in quanto pubblicati in un fascicolo edito in occasione del III Congresso nazionale dell’UDI che si svolse, appunto, nell’ottobre di quell’anno: Sotto la bandiera della Pace. Due anni di attività dell’Unione Donne Italiane dal secondo al terzo Congresso, ed. Noi donne, 1949, pp. 89-94.

[57] L’UDI e il Fronte del Mezzogiorno, in Sotto la bandiera... cit., pp. 13-15.

[58] B. Bertolo, R. Curti, L. Guerrini, cit., p. 174.

[59] Si veda Idem, cit., pp. 177 e sgg.

[60] Secondo la tabella riportata in L’Unione donne italiane, cit., p. 220, le iscritte all’UDI dal ’47 al ’50 sarebbero aumentate nel modo seguente: 1947 425.875 iscritte; 1948, 569.192 iscritte; 1949, 1.009.548 iscritte; 1950, 1.037.655 iscritte. I dati nel loro complesso sono probabilmente falsati, come già rilevato, in quanto comprensivi delle appartenenti ad alcune associazioni differenziate. In particolare per gli anni 1949 e 1950 nel saggio si rileva «... i dati relativi al 1949 e 1950 sembrano confermare l’impressione che le cifre siano molto approssimative e probabilmente gonfiate» (p. 220).

[61] Ibidem, p. 229.

[62] Sulla «linea Einaudi» si vedano P. Ciocca, La politica economica del governatore Einaudi: attualità e prospettiva storica; in «Rivista del personale della Banca d’Italia», 1974, n. 3, pp. 4-11; M. De Cecco Sulla politica di stabilizzazione del 1947, in Saggi di politica monetaria, Giuffré, Milano 1968, pp. 109-141; A. Gambino, cit., p. 362 e sgg.; U. La Malfa, La politica economica in Italia. 1946-1962 (a cura di L. Magagnato), ed. Comunità, Milano 1962; E. Piscitelli, Da Parri… cit., p. 364 e sgg.; U. F. Ruffolo, La linea Einaudi, in «Storia contemporanea», dicembre 1974, n. 4, pp. 637-670.

[63] A. Gambino, cit. p. 371.

[64] Sui condizionamenti esercitati dalla guerra fredda sulla politica interna e sulla politica estera dell’Italia si vedano AA. VV., Europa e Stati Uniti durante l’amministrazione Truman, Franco Angeli, Milano 1976; L. Barca, Il condizionamento internazionale, cit., p. 354 e sgg.; F. Catalano, Europa e Stati Uniti negli anni della guerra fredda. Economia e politica 1944-1956, Istituto librario internazionale, Milano 1973; A. Gambino, Le conseguenze della seconda guerra mondiale - L’Europa da Yalta a Praga, Laterza, Bari 1972, cit., passim; Idem Storia del dopoguerra... cit., p. 404 e sgg.; L. Graziano, La politica estera italiana nel dopoguerra, Marsilio, Padova 1968; A. Tarchiani Dieci anni tra Roma e Washington, Milano 1955.

[65] Sotto la bandiera... cit., p. 6.

[66] Ibidem, p. 18. Il Convegno fu organizzato in collaborazione con l’Assemblea per la Difesa della Scuola Nazionale e ad esso parteciparono nomi illustri della cultura italiana tra cui Codignola, Calamandrei, Jovine, Russo, Devoto, Santoli. Tra le principali organizzatrici era Tullia Romagnoli Carrettoni che nel suo intervento tracciò un realistico quadro della situazione scolastica italiana. Nella mozione finale venne duramente criticata la prassi, ormai invalsa, delle «parificazioni» di istituti privati, molti dei quali tenuti da religiosi, alle scuole pubbliche.

[67] In lotta contra l’assenza e il sabotaggio del governo, in Sotto la bandiera... cit., p. 23.

[68] Dal discorso di apertura di Rita Montagnana Togliatti, ibidem, p. 8.

[69] Un ampio resoconto sui lavori del Congresso è in Sotto la bandiera … cit., pp. 5-10.

[70] Sui Comitati della pace si veda Per il disarmo generale contro le armi atomiche, ibidem, pp. 11-12.

[71] In L’UDI e il Fronte del Mezzogiorno, ibidem, p. 13. Si veda pure il resoconto su «Noi donne», 1-15 gennaio 1948.

[72] Costituente della terra in Sotto la bandiera... cit., p. 17.

[73] Sul FDP si vedano A. Gambino, cit. p. 416 e sgg.; G. Giusti, cit., p. 38 e sgg.; E. Piscitelli, cit., p. 40 e sgg.; e tutte le opere specifiche sui partiti comunista e socialista citate alla nota 7 del capitolo IV.

[74] S. Setta, cit., p. 271.

[75] Su questi aspetti della campagna elettorale, con la riproduzione di numerosi manifesti di parte clericale si veda, C’era una volta la D.C. Breve storia del periodo degasperiano attraverso i manifesti elettorali della democrazia cristiana, a cura di L. Romano e P. Scabello (Introduzione di N. Gallerano), Savelli, Roma 1975. In particolare sui modelli femminili proposti dai manifesti politici dal periodo considerate fino agli anni ’70 e sul mutamento del «linguaggio grafico» sulla donna si veda A. Sartogo, Le donne al muro. L’immagine femminile nel manifesto politico italiano, Savelli, Roma 1977 - Le riproduzioni dei manifesti più significativi sono preceduti da saggi introduttivi della stessa Sartogo, di Umberto Eco e Luciana Castellina.

[76] L’Alleanza femminile in Sotto la bandiera... cit., p. 16.

[77] Contro il Piano Marshall 50 Congressi di lavoratrici, ibidem, pp. 20-21.

[78] 8 marzo. Le donne chiedono il rispetto della Costituzione e la difesa della pace in Sotto la bandiera... cit., p. 26.

[79] I dati sono quelli riportati in L’Unione donne italiane, cit., p. 220 e presumibilmente forniti dalla stessa redazione di «Noi donne»

[80] Cfr. 50 mila donne chiedono la pace in Sotto la bandiera... cit., pp. 27-29.

[81] I risultati elettorali furono i seguenti: DC 12.741.299 voti (40,5%), FDP 8.151.529 voti (31%), Unità socialista 1.858.529 (7,1%), Blocco nazionale 1.004.889 voti (3,8%), Partito nazionale monarchico 729.174 voti (2,8%), MSI 526.670 voti (2%), Partito popolare sudtirolese 124.385 voti (0,5%), altri 157.944 voti (0,6%), altri 321.199 voti (1,2%) (Fonte: ISTAT, Le elezioni politiche del 1948, s. l. 1951).

[82] Sulla politica dell’organizzazione negli anni ’50-’60 e sul significato del Congresso del ’56 si vedano L’Unione donne italiane, cit., p. 39 e sgg., e G. Ascoli, cit., p. 42 e sgg.