Iuso_Soldati italiani dopo il settembre 43

SOLDATI ITALIANI DOPO IL SETTEMBRE 1943

QUADERNI

della

F.I.A.P.

n.51

di Pasquale Iuso

Soldati italiani dopo il settembre 1943

© I Quaderni della FIAP

È permessa la riproduzione integrale

a fini scientifici e divulgativi del presente articolo

con obbligo di citazione della fonte

Quaderni della FIAP, n.51, 1988

Soldati italiani dopo il settembre 1943

di Pasquale Iuso

Quaderno n.51

Presentazione di

ALDO ANIASI

Nota di

MARIO RIGONI STERN

[La versione integrale del testo è disponibile nel formato pdf]

Presentazione di

ALDO ANIASI

La collana «quaderni della FIAP» che esce dal 1964 continua la sua attività di promozione culturale e di informazione storica vincendo non poche difficoltà di ordine materiale. Questo quaderno, il n. 51 della serie, affronta il problema dei prigionieri di guerra e più precisamente degli italiani che all’indomani dell’8 settembre 1943 caddero nelle mani dei tedeschi nei vari teatri d’Europa (e così in Italia). Da alleati, gli eventi li trasformarono improvvisamente in nemici. Vicende a noi troppo note per esser riprese, quelle relative al triennio 1943-1945, dolorose e al tempo stesso esaltanti che quel lasso di tempo poi espresse: un mondo capace di resurrezione e di avvenire.

Una precisazione preliminare è opportuna. Non si tratta di sostituirci nel campo delle indagini alle iniziative meritorie come l’ANEI (Associazione Nazionale ex Internati) o l’ANED (Associazione ex Deportati Politici) hanno realizzato, ma piuttosto di riprendere e continuare una iniziativa dal titolo «Documenti per la storia d’Italia 1946-1947» uscito nel 1987. In un certo senso, a parte la curiosità di approfondire argomenti e problemi ancora non del tutto noti, questa pubblicazione non rappresenta solo la continuazione ideale del precedente «quaderno» ma anche un tener fede allo spirito della iniziativa della nostra Associazione.

Non abbiamo la pretesa di tracciare una storia sull’internamento militare italiano né ci sfuggono le difficoltà nel realizzarla. Sappiamo che sono ancora da indagare una gran copia di documenti e materiali soprattutto di fonte non italiana. Sappiamo del pari quale sia il motore necessario per un’impresa scientifica. Importante, per adesso, è fornire copioso materiale al giudizio del lettore. Riproporre o proporre questa documentazione ci è apparsa opera doverosa e civile. E per incremento di conoscenza abbiamo fornito tanti nomi.

Nella introduzione a questo tragico e angoscioso documentario, il giovane studioso Pasquale Iuso propone una chiave di lettura che può e deve essere fatta su più piani. Si tratta sempre di procedere con rigore e coraggio metodologico. E noi, con lui, non escludiamo, anzi auspichiamo, ulteriori approfondimenti e una migliore disamina degli avvenimenti non appena porremo mano su altri archivi.

A più di quarant’anni, attraverso un esame della memorialistica davvero ampia e della scarsa storiografia, resta evidente che il trattamento riservato all’internamento militare, e più in generale al problema dei prigionieri di guerra, non può dirsi davvero di forte rimembranza nel grande quadro della Resistenza italiana, anzi europea, e così dell’opinione pubblica. Non conosciamo le ragioni di tale scarsa evidenza ma possiamo intuirle. Neppure i discorsi commemorativi, a quanto ne sappiamo, hanno contribuito a portare nuove pietre all’edificio del mondo dei reticolati. A livello di opinione pubblica, superato il dolore e l’orrore del primo momento per un passato che non si amava e che si voleva seppellire nella memoria collettiva, presto si è giunti allo scolorimento del problema. Eppure da una scorsa, sia pur veloce, di questi materiali si evince una sensazione precisa: pochi avvenimenti rinchiusi nel panorama disumano e distruttivo del secondo conflitto mondiale come la «società dei lager», hanno rappresentato una tragedia collettiva ed inumana.

Nel dramma si inserisce anche una constatazione: il raccordo tra uomini finiti in terre lontane, straniere ed ostili, tra carnefici, «nuovi nemici», indifferenza, blandizie, uomini che fanno fatica ad avere pietà, una qualsiasi pietà.

Si dirà che la tragedia ha sempre un fondo esistenziale che non si attaglia a schematizzazioni: la guerra, la deportazione, gli avvenimenti militari di ogni tipo restano nella memoria con immagini, metafore, figure e retoriche di varia natura. Una riprova, se di riprova si può parlare, del recupero vitale di psicologia, di sentimento, di autoconservazione di cui l’uomo è capace durante e dopo ogni tragedia.

Eppure se questa storia, peraltro assai difficile a farsi, si farà, è augurabile che finalmente affiorino, al di là di tutte queste immagini e di altre che possono venire dai nuovi testi, precise responsabilità. Ogni rovescio militare ha sempre i suoi responsabili e mi rendo conto che non sarà facile enumerarli. Forse esistono ragioni più sottili e profonde nello specifico che, ad oggi, non hanno consentito di fare piena luce.

Auguriamoci che questo nostro contributo possa stimolare, lo si accennava, una migliore conoscenza della tragedia, così da essere anche monito e ricordo, perché si eviti, con le parole del nostro indimenticabile compagno Ferruccio Parri, «la ipocrisia retorica che celebrando pietrifica».

ALDO ANIASI

Nota di

MARIO RIGONI STERN

Leggere questi documenti raccolti dalla F.I.A.P. con paziente lavoro di ricerca è stato per me rinnovare memorie tristissime e dolorose, ma come è stato dovere partecipare ai lavori della «Commissione Leopoli» sento l’obbligo di questa breve nota, obbligo verso i compagni che non sono tornati a baita.

«Di certe cose non si può guarire» scrivevo molto tempo fa nel Sergente nella neve, dopo oltre quarantatre anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale queste cose in me sono sempre vive e presenti; non solo per le lettere che ricevo da chi ancora aspetta un parente dichiarato «disperso» con una breve comunicazione ministeriale, o perché ogni tanto la stampa o la televisione ce le richiama, ma anche perché passando per il mio paese mi viene sempre da dire: «Qui abitava Guido, fucilato a Cefalonia», «Su questa strada giocavo con Vittorino che è morto in Polonia», «Questa era la casa di Rocco, morto in Albania», «In questo prato andavo a sciare con Rino che non è più ritornato dalla Russia», «Questa è la contrada di Rinaldo caduto da partigiano»… avevano tutti vent’anni e non sono tornati a baita. Amici d’infanzia e di giovinezza che solo desideravano vivere, amare e lavorare.

E poi tanti altri, tanti altri di ogni paese e città d’Italia che ho conosciuto tra il 1940 e il 1945. Destino? Sfortuna? Fatalità? No, non solo questo ma sì errori, brutalità, violenza, bestialità e laidezza di questa guerra scatenata da Hitler e seguita da Mussolini.

Il 25 luglio 1943, dopo essere sopravvissuto alla ritirata di Russia, ero a casa in licenza; quella mattina mi ero alzato prima dell’alba per andare nel bosco comunale a raccogliere la legna per l’inverno, alla sera mio padre venne in camera a svegliarmi per dire: «È caduto il fascismo». Non ero politicizzato ma dal mio sonno trassi un profondo sospiro e mi parve di rinascere in un altro mondo.

Dopo l’8 settembre di quell’anno mi ritrovai in un Lager della Masuria. Masticavo rabbia ricordando come si erano svolte le vicende lassù al Brennero, mangiavo erba per la fame. Fu il sergente Ceco Baroni, compagno di tanta guerra, a farmi questo discorso: «Vedi quelle sentinelle dietro i reticolati? Sono loro i prigionieri di Hitler, non noi. Noi a Hitler e a Mussolini diciamo no. anche quando ci vogliono prendere per fame».

E aveva ragione, anche se venti mesi durò la nostra fame; anche se in una di quelle prime notti di Lager un nostro compagno morì sul tavolato della baracca. Fu il primo di tante migliaia (35.000? 45.000? Ancora non lo sappiamo).

Quando tornammo, magri, silenziosi, ammalati, smunti non avevamo avventure da raccontare; qualcuno, per liberarsi dagli incubi aveva desiderio di dire quello che aveva visto o provato ma quasi nessuno voleva ascoltare le sue storie: la primavera del l945 era gioiosa, allegra, la guerra era finita; i partigiani, giustamente, cantavano le loro canzoni di libertà, c’erano feste da ballo, bandiere che sventolavano. Ma a noi, la vita che ritornava. restava pur sempre offesa.

Ora, a distanza di tanti anni, quelle «cose», si ripresentano con forza attraverso i documenti di questa raccolta; ritornano con i «casi Leopoli e Deblin» per ammonirci perché, come insisteva Primo Levi, «Quello che è stato potrebbe ancora accadere». E noi non lo vogliamo anche se certuni tentano di far dimenticare o, peggio, ridimensionare questo amaro tempo di morte e per qualche ragione, girare questa pagina della nostra storia.

In Albania, nell’Egeo, nei Balcani, in Polonia, in Russia, in Germania, in Francia, in Italia molti nostri fratelli sono stati uccisi e «dispersi»; erano soldati che una cartolina aveva precettato. Dovere di una patria democratica, che così è diventata anche per loro, sarebbe da ricercarli per onorarne la memoria.

MARIO RIGONI STERN

INTRODUZIONE

La storia degli Internati Militari Italiani, sembra non ancora una storia di tutti. È diventata, negli ultimi tempi, un fatto di cronaca e di commissioni d’inchiesta, di poco anticipate da alcuni settori della storiografia contemporanea. Leopoli, Deblin-Irena, tanto per fare un esempio, sono tessere di un mosaico ancora in buona parte da ricostruire. Certo la memorialistica - anche di buon taglio - ha non poco contribuito alla conoscenza del problema, che spesso, però, è rimasta circoscritta ad un ristretto nucleo di interessati, oppure non è stata esaminata con il necessario distacco. Ultimamente, da alcune parti si è guardato con più attenzione a questo «tipo di storia», rivolgendosi non soltanto e non più alla testimonianza così come essa si presentava, bensì alla stessa «rivisitata» e da inserire più organicamente e in un più ampio contesto documentale.

Intendiamo qui proporre una raccolta di documenti - articolati per sezioni - tali da permettere una loro più facile connessione con argomenti simili già trattati anche nella memorialistica e fornire qualche indicazione utile per l’approfondimento di questo aspetto abbastanza poco noto del secondo conflitto mondiale.

Le fonti, come è immaginabile, sono molte; in particolare anche quelle italiane sono ricche di spunti. Nel nostro contributo abbiamo fatto riferimento proprio a queste ultime partendo dalla supposizione/ipotesi - poi rivelatasi fondata - che appunto negli archivi italiani doveva esserci molto più di quanto comunemente si poteva ritenere[1]. Poco spazio qui hanno invece trovato sia gli archivi privati sia le testimonianze; non perché meno importanti ma perché siamo stati mossi dall’idea di indagare su ciò che di ufficiale si sarebbe dovuto sapere per una definizione più precisa del problema, a quaranta anni e più di distanza.

Come fonti primarie abbiamo considerato: il Ministero degli Affari Esteri, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero della Assistenza post-bellica, l’Alto Commissariato Prigionieri di Guerra, la Croce Rossa Italiana, l’Archivio ordinario e segreto del Ministero della Marina, una parte del Ministero della Guerra e del Ministero della Difesa (laddove questa materiale è stato rintracciato presso altri archivi pubblici), gli archivi finora disponibili della RSI, presso l’Archivio Centrale dello Stato e l’Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri. Solo in via secondaria, abbiamo fatto riferimento a documenti esteri oppure a testimonianze raccolte direttamente allo scopo di fornire sostegno e notizie particolarmente interessanti per la comprensione dei singoli documenti.

La complessità del problema e la stessa massa documentale finora raccolta, ci ha consigliato poi di esaminare solo alcuni aspetti della intera vicenda degli IMI - non più o meno importanti di altri - , consapevoli che il problema è ben lungi da esser esaurito in questa sede. Di qui la decisione di dividere il lavoro in specifiche sezioni - ovviamente tra loro connesse in più i modi - che si occupano:

- di alcuni esempi di particolari situazioni locali; in genere relazioni delle Autorità italiane all’estero deputate all’assistenza, al rimpatrio, alle ricerche, che offrono un quadro della situazione generale per ogni singolo Stato interessato,

- di una piccola parte di interrogatori e di relazioni/testimonianze di reduci dai campi, presentate alle rispettive autorità superiori (particolarmente interessanti per il coinvolgimento nelle indagini post-belliche dei Servizi Informazioni, oltre che per la precisa scansione degli avvenimenti),

- di una serie di schede della «War Crimes Commission» delle Nazioni Unite, utilizzate a suo tempo per la individualizzazione dei reati e la ricerca dei responsabili di crimini di guerra,

- di stragi ed eccidi di Internati Militari Italiani finora rintracciati - veri e presunti - che ci pare rendano giustizia alle vittime di fatti così gravi, troppo spesso completamente ignorati o dimenticati anche nelle sfere «ufficiali» (buona parte di questi documenti sono degli anni 1944-48 e, per di più, di fonte italiana),

- di alcuni elenchi di caduti; ovviamente una piccola parte, che si riferiscono ai caduti italiani in Polonia (sulla base di un’indagine svolta dall’Ambasciata d’Italia a Varsavia agli inizi degli anni ’50) ed al campo-ospedale di Zeithain in Germania,

- della RSI in alcuni suoi aspetti ritenuti esemplificativi, di come gli IMI e la loro vicenda passino attraverso la repubblica di Salò.

All’interno di ogni sezione abbiamo ripreso, laddove l’economia generale del lavoro lo consentiva, il criterio cronologico[2]. I documenti, quindi, vanno visti nell’ottica di una rappresentatività di una realtà molto più complessa e variegata.

Occorrono, peraltro, alcuni altri dati e strumenti utili ad una lettura meno superficiale. Abbiamo, per semplicità, finalizzato questa «chiave di lettura» a solo tre elementi:

a) i dati numerici sugli italiani catturati e la dislocazione geografica dei lager militari e la diversa tipologia;

b) le principali tappe che hanno scandito la storia degli IMI dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto;

c) le componenti psicologiche che si sono mosse attorno all’internamento militare nel corso dello stesso.

A parte abbiamo poi considerato la «rimozione» del problema prigionieri al termine della guerra.

Solo di sfuggita abbiamo considerato alcuni altri elementi di carattere generale che aiutano a capire meglio la questione degli IMI, altrettanto importanti, ma che per merito della diaristica e di altri lavori hanno già un loro «corpus» cui senz’altro rimandiamo. È il caso, per fare un esempio, delle condizioni di vita, dei rimpatriati, eccetera; tutti elementi che, in una qualche misura, sono rintracciabili anche nelle nostre sezioni ma ai quali non è stato dedicato uno spazio particolare.

Un’ultima notazione meritano i documenti di fonte salodina. Non si tratta di apologia, eppure occorre valutarli storicamente e non più ideologicamente o in modo fuorviante; ciò che è realmente accaduto non è modificabile per nessuna ragione. Ci auguriamo sia possibile rintracciare altri materiali per allargare le nostre conoscenze nello specifico. In particolare gli IMI: sia che si esaminino come resistenti senz’armi o passivi di fronte al nazismo ed al fascismo, sia che li si osservi come componente di un più vasto quadro, sia anche che si faccia la storia degli ufficiali e/o dei soldati, si andrà inevitabilmente a far di conto con la RSI. Quindi ci pare occorra un recupero analitico che a quaranta anni di distanza è possibile, pur con le necessarie distinzioni, rendendo anzi un patrimonio storico e politico pm profondo e realmente accaduto, come si accennava, rispetto alla «strumentalizzazione» che spesso è stata operata.

La prima componente di quella che abbiamo definito una sorta di «chiave di lettura» sono i dati numerici degli italiani catturati nonché le dislocazioni dei campi militari di raccolta. In proposito, per avere un quadro immediato - ma probabilmente incompleto - rimandiamo alla cartina geografica qui pubblicata ed all’ultimo gruppo di documenti della RSI che trattano appunto questo aspetto.

Senza dilungarci in calcoli che altro non giungerebbero che ad ipotesi, preferiamo riproporre l’intervallo numerico all’interno del quale probabilmente si trova la cifra esatta dei militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’armistizio del settembre 1943. Dalla Relazione sull’attività svolta per il rimpatrio dei prigionieri di guerra ed internati[3], si ricava il primo estremo numerico dell’intervallo. Dalla Germania rimpatriarono 613.191 uomini (14.033 ufficiali e 599.158 sottufficiali e truppa); a tale cifra vanno aggiunti, a nostro vedere, anche coloro i quali rimpatriarono dai territori occupati dalle forze armate tedesche: 30.581 (1.061 ufficiali e 29.520 sottufficiali e truppa) dalla Francia; 21.197 (1.979 ufficiali e 19.218 sottufficiali e truppa) dalla Svizzera; 63.999 (838 ufficiali e 63.161 sottufficiali e truppa) dalla Balcania; 35.620 (802 ufficiali e 34.818 sottufficiali e truppa) dalla Grecia e dalle isole. Giungiamo così ad un totale di 764.588 di cui 18.713 ufficiali e 745.875 sottufficiali e truppa rimpatriati[4].

Il motivo per cui riteniamo che almeno una parte di queste cifre vada aggiunta al totale di chi rimpatrio dall’internamento in Germania, è presto detto. I tedeschi spesso (è il caso della Bulgaria, della Grecia, della Romania) affidavano i nuclei di IMI trattenuti in quelle zone, ai governi filo-nazisti locali. Questi militari al momento della liberazione o di un evento armistiziale nei confronti delle potenze vincitrici, risultarono in mano a quella specifica nazione e risultarono altresì rimpatriati in Italia da questa e non dalla Germania.

Nelle cifre più sopra elencate occorre peraltro considerare che un’aliquota di esse è senz’altro costituita da militari catturati prima dell’8 settembre 1943 e, quindi, senza alcun tipo di rapporto con gli Internati Militari (pur avendone seguito, in alcune parti, la stessa sorte); ma a queste cifre, vanno sempre aggiunti: i caduti, i dispersi e tutti coloro che, in mano tedesca, rientrarono in Italia nei modi più svariati o che non rientrarono affatto, preferendo rimanere nei paesi che li avevano avuti «ospiti» (per ragioni matrimoniali, ad esempio). Con le dovute cautele, quindi, crediamo che il totale dei militari italiani catturati all’indomani dell’armistizio dai tedeschi, sia nell’ambito delle 750.000 unità circa. Questa ipotesi è per di più concretamente desumibile da due documenti tedeschi che, coevi fra loro, ci riportano alcuni dati: 547.531 militari italiani dei quali 24.744 ufficiali[5], quasi certamente riferito ai territori del Reich e del Governatorato di Polonia; 725.000 secondo l’altro documento che considera, con ogni probabilità, anche i settori balcanici e greci ed è datato 15 dicembre 1943 ad operazioni di internamento concluse[6].

Dove vennero internati i militari italiani catturati? A parte le aliquote di coloro che rimasero nella penisola balcanica, in Grecia, o comunque fuori dai territori del Reich e dell’Europa centro-orientale[7], la stragrande maggioranza venne inviata nei campi di concentramento militari della Germania che. fino a poco prima, vi erano stati massacrati migliaia di soldati di altre nazionalità.

Rimandiamo senz’altro alla buona diaristica esistente sui viaggi di trasferimento, sulle immatricolazioni e, in genere sulla «vita quotidiana» nei lager preferendo fare cenno della diversa tipologia degli stessi e sulla loro struttura interna.

Nella Germania e nei territori limitrofi occupati dalle truppe tedesche, esistevano centinaia di campi di concentramento; quanti e dove fossero con precisione non è un quesito cui dare facilmente una risposta sicura. Non ci aiuta affatto l’elenco ufficiale pubblicato sulla Gazzetta della Repubblica Federale Tedesca[8], in quanto esplicitamente riferito a campi non militari e che solo casualmente riporta notizie di lager attraverso i quali transitarono militari italiani. Fatto, questo, che conferma la netta separazione fra deportazione civile e deportazione militare; anche se in alcuni casi si rintracciano documenti o testimonianze attestanti la presenza di IMI in campi «civili», riteniamo si tratti di una semplice sovrapposizione piuttosto che una fusione di due sistemi concentrazionari distinti[9].

Non è oltretutto facile individuare tutti quei lager posti nelle immediate vicinanze del fronte (specialmente orientale) che ebbero vita brevissima, o che mutarono denominazione, o che erano degli Arbeitskommando (dipendenze esterne) molto piccoli, legati per la loro esistenza. alla sola esigenza di un qualche tipo di manodopera[10].

Né in tal senso ci aiutano i documenti finora rintracciati o pubblicati anche se non si può escludere la possibilità che altre fonti possano essere raggiunte[11].

Più facile, al contrario, fornire un quadro esauriente dei diversi tipi di lager militari esistiti, del resto già noto nelle grandi linee.

Occorre partire dalla divisione della Germania e dai territori direttamente incorporati nel Reich, in distretti militari (Wehrkreis, abbreviato spesso in WK). Erano in tutto 17, numerati progressivamente da I a XIII, poi XVII e XVIII, poi ancora XX e XXI. Tale suddivisione in WK, non esiste invece nelle zone del Governatorato di Polonia, del Protettorato di Boemia e Moravia, né negli stati balcanici o nei territori della Bielorussia e dell’Ucraina, dove peraltro i campi erano assai meno numerosi, in alcuni casi solo di smistamento o di lavoro, e comunque provvisori rispetto alla zona centro-orientale del continente.

Laddove esistevano i distretti, tutti i campi aggiungevano al numero indicante il WK di appartenenza, una lettera maiuscola dell’alfabeto[12].

Come prima divisione fra i tipi di «lager» esistevano gli Stalag (Stammlagerr - più generici ma in particolare per sottufficiali e truppa) e gli Oflag (Offizierzlager - per ufficiali); in quest’ultimi si rintracciano piccoli nuclei di soldati addetti ai servizi. Come primo luogo di internamento, v’era il Dulag (Durchgangslager, - campo di transito e smistamento), la cui collocazione geografica più frequente era nei territori occupati del continente, dove sottufficiali, truppa ed ufficiali erano ancora uniti.

Vi erano poi i campi-ospedale (Lazarett), quelli di punizione (Straflager), quelli specifici per militari dell’aereonautica.

Dagli Stalag, gli IMI andavano a lavorare negli Arbeitskommando dove, in alcuni casi, si trasferivano stabilmente.

All’interno dei campi, fra i catturati, esisteva la figura dell’«anziano del campo», che svolgeva principalmente un’opera di fusione morale e di incoraggiamento verso gli altri internati che resistevano. In generale, era un uomo dotato di indubbie capacità personali; fra gli altri sono da ricordare il Colonnello Pietro Testa e il Tenente di Vascello Giuseppe Brignole.

A grandi linee, ci pare opportuno ricordare sia pure sinteticamente i principali avvenimenti. che riguardarono, nella loro generalità, tutti gli Internati Militari Italiani.

Al momento dell’armistizio, fuori dai confini italiani si trovavano 40 tra Divisioni e G.U. varie[13] e, nonostante vi furono frequenti casi di deportazioni militari anche dall’interno del territorio nazionale, la stragrande maggioranza di coloro che non furono né veri prigionieri di guerra né veri internati civili, provenivano da unità militari operanti, alla data dell’armistizio, fuori Italia.

Quando fu chiaro l’aumento delle truppe tedesche, all’indomani del 25 luglio, in Italia[14], di non uguale misura fu l’attenzione dei comandi italiani nel valutare l’evento.

Alle ore 20.00 della stessa giornata, dell’8 settembre 1943 infatti, la Wermacht dava inizio alle operazioni di sbandamento e di disarmo dei soldati italiani. Operazioni che di lì a quattro giorni si perfezionarono in precise direttive, stabilizzate, in modo definitivo, il 15 settembre[15]. La situazione determinatasi con la scelta armistiale non aveva affatto preso in contropiede i tedeschi che sul piano militare, in poco tempo misero completamente fuori gioco l’intero esercito ex alleato, trovatosi improvvisamente nemico.

In base agli ordini del 15 settembre, gli italiani vennero divisi in tre gruppi sulla base delle risposte fornite alle proposte fatte dai tedeschi: quelli che volevano continuare a combattere o ad aiutare lo sforzo bellico tedesco; quelli che non volevano collaborare; chi aveva opposto una qualche forma di resistenza o che si erano apertamente schierati con le forze partigiane e nemiche[16]. Per ciascuno dei gruppi così abbozzati, le conseguenze e le disposizioni relative furono diverse[17].

Da questo momento - siamo all’inizio della vicenda dell’internamento militare italiano - occorre tener presente due elementi: il primo, circa la divisione operata, fra soldati e sottufficiali da una parte, e ufficiali dall’altra[18]. Il secondo, relative all’importanza immediatamente assunta dai soldati italiani per l’economia bellica tedesca: una «forza lavoro» recuperato attraverso sconfitta e servitù[19].

A partire dal 24 settembre gli italiani catturati vengono definiti Internati Militari[20] eludendo in tal modo ogni possibile azione di tutela basata sulla Convenzione di Ginevra del 1929 sui prigionieri di guerra.

Il principale motivo di questa scelta, ci pare debba essere considerata di tipo economico: non era cosa da poco conto avere a disposizione una nuova massa lavorativa in un momento, particolarmente duro, del conflitto. Gli italiani vennero, quindi, trasferiti in Germania e in Polonia, svincolando in tal modo nuove classi tedesche richieste con sempre maggiore urgenza dalla Wehrmacht e per riempire il vuoto lasciato dagli altri prigionieri (specialmente russi) ormai annientati o comunque più protetti dalle convenzioni internazionali.

Il periodo che va dal settembre ’43 al gennaio-febbraio ’44 ha - a nostro vedere - anche altri denominatori comuni, validi per tutti gli italiani catturati.

A parte i viaggi verso il centro e l’est europei e l’impatto col campo di concentramento, terribilmente simili nella vasta memorialistica - ma non per questo da sottovalutare - sono altri due gli elementi da porre in evidenza in questo primo periodo dell’internato seguito all’8 settembre: la propaganda[21] e le stragi, intendiamo la concreta possibilità che fatti del genere potevano accadere in seguito a qualunque tipo di resistenza o boicottaggio opposto dai militari italiani: in particolare subito dopo l’armistizio e con il crollo del fronte orientale la reazione tedesca scattò per i più svariati motivi.

Sin dalla cattura - come si è detto - esisteva la possibilità di scegliere; ma è con la RSI che l’elemento propaganda, per quello che qui maggiormente interessa, assume un peso sostanziale. Infatti, con la nascita della RSI, le centinaia di migliaia di militari italiani catturati assumono, innanzitutto per il rinato stato fascista una sicura valenza politica ancor prima che militare.

Gestire sul fronte interno un problema di tali dimensioni implicava scelte precise e non facili da attuare. Si decise, a nostro vedere, di operare in modo inevitabilmente contraddittorio teso in modo principale alla ricerca di un’adesione ideologica ben poco probabile; forse non poteva essere altrimenti. Fra l’altro, c’era da rispondere alle domande sulla sorte di migliaia di italiani ostaggi nelle mani dei tedeschi che provenivano dall’interno del paese; altro aspetto del problema da risolvere, come poter togliere cioè alla macchina dell’industria bellica tedesca, quella massa lavorativa rappresentata dagli IMI, di cui abbiamo appena accennato l’importanza. Oltretutto - e lo si coglie nei documenti della VI sezione - che peso politicopoteva assumere per Mussolini e la RSI il rimpatrio indiscriminato ed immediato di una tale massa di uomini, ammesso che tale obiettivo potesse o volesse essere raggiunto? Indubbiamente significava, per un’alta percentuale di questi - appena giunti nuovamente in Italia, - andare ad ingrossare (in modo ancora involontario per la maggior parte) le fila dell’opposizione e della resistenza armata, con ancor minori possibilità, da parte fascista, di riuscire a formare un nuovo esercito. Tale sfiducia era particolarmente sentita nei confronti dei soldati e dei sottufficiali, visto e noto alla RSI, l’immediato impatto che questi avevano subito con il lavoro coatto, con le violenze e i metodi di annientamento della personalità umananormalmente usate dai nazisti nei confronti dei prigionieri (in particolare russi prima ed italiani poi). In tale motivazione non ci sembra comunque assente, anche la certezza, che mai i tedeschi avrebbero rinunciato a circa settecentomila braccia da lavoro[22].

Ecco che anche nella propaganda della RSI, si ripete quella divisione operata dai tedeschi fra gli ufficiali da una parte ed i sottufficiali e la truppa dall’altra.

Riuscire positivamente a procurarsi le adesioni dei primi, - come si è già detto - era un risultato valido nella ricerca del consenso attorno alla RSI anche sul fronte interno[23] e sicuramente meno pericoloso del tentativo di riportare in Italia uomini che alla prima occasione, si supponeva, avrebbero fatto perdere le proprie tracce. A questo punto occorre, quindi, operare diversificazioni nella gerarchia militare.

Per gli ufficiali sono esistite tre fasi della propaganda per l’adesione alla Repubblica Sociale o al Reich[24]: al momento della cattura e dell’arrivo nei lager, dove si offriva la possibilità di schierarsi con le SS; nell’ottobre-novembre 1943 ad opera della RSI con varie formule[25] peraltro ancora «... esplicite nell’accettazione della guerra nazi-fascista e dell’egemonia tedesca...»[26]. Ed infine, a cavallo del 1943-1944, nei campi ormai stabilizzati ad opera delle commissioni di propaganda della RSI che visitarono i principali lager militari del Governatorato di Polonia e del XX e XXI WehrKreis[27].

Diverse, in queste tre fasi sono le percentuali di adesione: scarse nella prima, più alte nell’ultima dove, clima, fame ed «agenti psicologici» avevano avuto modo di penetrare maggiormente negli animi degli internati.

Tra l’altro, sulla scorta di materiale del SAI esaminato, possiamo affermare che in quest’ultimo periodo le forme propagandistiche messe in opera dagli esponenti della RSI, «migliorarono d’efficacia». Non più soltanto discorsi alla massa degli ufficiali raccolta nello spiazzo della «conta»[28], bensì anche colloqui più diretti, a piccoli gruppi di internati, premendo - ed in questo il prefetto Vaccari fu uno dei promotori e banditori - non solo del demagogico sentimento di riscatto verso i tedeschi dopo il tradimento badogliano, ma anche del più reale e concreto e anche umanitario scopo di riportare in Italia il maggior numero possibile di persone[29].

Di contro, i tedeschi non mostrarono difficoltà ad attuare sia un miglioramento nel vitto sia nelle condizioni generali di vita degli aderenti, come anche a trattenere gli stessi nei campi per qualche tempo, in baracche distinte e a condizioni migliori, a dimostrazione del mutamento avvenuto.

In termini quantitativi, seguiamo quanto dice Rochat[30]: rifiutando le valutazioni ufficiali sul numero degli optanti (1-2%) e valutando criticamente anche il 10% indicato da altri, poniamo la percentuale degli ufficiali aderenti in circa il 25%, tenendo presente, fra l’altro, che il dato originario (totale degli ufficiali catturati l’8 settembre) non è affatto detto che sia attendibile. La nostra convergenza su quanto afferma Rochat, è direttamente collegata al materiale che stiamo recuperando della RSI ed, in particolare, del SAI - oggetto di un prossimo studio - che, forse, riuscirà a fornire altri dati sostanziali nello specifico.

Per inciso - e nel quadro generale della vicenda dell’internamento - ricordiamo che tutti gli ufficiali furono deportati in Germania e Polonia[31] e che le maggiori percentuali di aderenti si ebbero a Benjaminowo, Przemysl e soprattutto a Biala Podlaska[32].

Diverso il destino dei sottufficiali e della truppa; per loro la propaganda non giunse più volte, ma solo nel primo periodo venne loro offerta la possibilità di aderire o all’esercito tedesco o alla RSI. Già si è detto del «pericolo» rappresentato dall’eventuale rimpatrio di queste migliaia di persone sui quali sentimenti si nutrivano molte perplessità[33] e le stesse parole delle commissioni di propaganda nazi-fasciste erano più rivolte ad esasperare gli elementi materiali della prigionia (fame, stenti, clima) piuttosto che a promuovere o a favorire scelte ideologiche.

D’altra parte, a ben vedere, si può pensare che una vera adesione al regime di Mussolini o al Reich (per uomini, quindi ideologicamente convinti) fosse attesa e vi sia stata solo nella primissima parte della vicenda degli IMI. Dopo, secondo noi, sono stati gli istinti della fame, della conservazione, i rigori del clima e gli stenti a determinare la scelta in questa direzione.

Eppure, nonostante il trattamento inumano subito cui furono sottoposti i soldati negli Stalag, le adesioni non furono molte se rapportate al totale dei catturati; non tanto poche quante ne affermano le fonti ufficiali (circa un 2% su 650.000) stante sia probabile errore nel dato originario dei catturati l’8 settembre, sia il fatto che le divisioni formate dalla RSI già raggiungono tale percentuale[34], sia ancora un ottuso «patriottismo» seguito alla fine della guerra che non voleva vedere ciò che realmente il conflitto aveva rappresentato.

Altro denominatore, abbastanza comune di questo periodo dell’internamento militare, come anche dell’ultimo, fu la possibilità per tutti gli internati di venire sommariamente eliminati in eccidi indiscriminati. Molti sono i casi noti databili in questi due lassi di tempo; molti altri, probabilmente aspettano di essere scoperti o, forse, non lo saranno mai.

Senza entrare in particolari e formulare ipotesi, trattate più specificamente nella IV sezione, restiamo fermi a quello che ci interessa per la nostra «chiave di lettura».

Abbiamo accennato[35] alla possibilità che esecuzioni in massa di prigionieri italiani possano essere avvenute più frequentemente di quanto si pensi in aggiunta a quelle più tristemente note (Cefalonia e l’Egeo per esempio). Ci interessa sviluppare questo aspetto per diversi motivi, fra cui - e non crediamo affatto secondario - quello secondo cui tutto ciò che avvenne in quel periodo sarebbe noto, almeno per alcuni settori dell’opinione pubblica e delle autorità[36].

Due ci paiono i concetti più importanti da evidenziare: facilmente e semplicemente deducibili o ipotizzabili sulla base delle direttive di comportamento emesse nel settembre 1943 dai più alti comandi tedeschi (e recepite fin troppo bene da tutte le truppe subordinate, collaborazioniste comprese) ed il concetto o la possibilità astratta del perché atti di questo genere non potessero o dovessero avvenire.

Dall’esame degli ordini tedeschi[37], emerge chiaramente l’ampia discrezionalità di comportamento e, quindi, anche di uccidere deliberatamente, lasciata nell’applicazione delle direttive, anche ai gradi più bassi della gerarchia militare. D’altronde leggendo la frase «... chi non è con noi è contro di noi...» contenuta negli ordini impartiti dall’OKW[38], si intuisce come chiunque non si fosse apertamente dimostrato fedele all’alleanza italo-tedesca, potesse essere considerato ostile; ed anche senza aver compiuto atti di resistenza poteva essere passato per le armi ed essere poi registrato con la formula «caduto in combattimento»[39], così come fu fatto per tutti coloro che si opposero militarmente alla cattura.

I tedeschi divisero - come si è detto - in tre gruppi gli italiani catturati; per ogni gruppo, esistevano differenze di comportamento da parte tedesca: la fucilazione sommaria era prevista solo per gli ufficiali del terzo gruppo, ma i fatti seguenti o le semplici impressioni[40] fanno ritenere che già nei confronti di coloro che ritennero di non collaborare in alcun modo (pur senza opporre resistenza) furono applicate rappresaglie[41].

Circa, invece, la responsabilità, in senso lato, che il commettere massacri (e non solo di soldati italiani ma di chiunque fosse avversario ideologico del nazismo) fosse tragicamente reale, ci pare cosa evidentissima. Era il sistema ideologico e di potere stesso che autorizzava tali comportamenti, e sotto questo profilo senza bisogno di ulteriori giustificazioni.

Negare questa constatazione dei fatti che non ha bisogno di supporto documentale o dimostrativo specifico, in quanto già istituzionalizzata nell’ideologia nazista, ci sembra non voler ragionare correttamente.

Con il termine della propaganda per l’arruolamento nell’esercito della RSI, ha fine comunque, quello che potremmo definire il primo periodo dell’internamento, forse il più tragico come trauma di natura umana per migliaia di persone[42].

Per gli Internati Militari Italiani, la situazione si stabilizzò almeno fino al luglio ’44, quando si vedranno forzatamente «civilizzati» dagli accordi fra Hitler e Mussolini. Anche qui i punti da evidenziare, sono due comuni in qualche misura a tutti gli internati: lo sviluppo di quella che viene definita da Rochat la «società dei lager»[43] e le prime richieste di adesione volontaria al lavoro avanzate agli ufficiali internati[44].

In cosa consisteva la «società dei lager»; ci pare illuminante la definizione data da Rochat: «... elemento determinante della resistenza fu... capace di sostenere le debolezze individuali e moltiplicare le forze morali…»[45]. La si individua facilmente nell’esame delle forme resistenziali attuate dagli IMI durante la prigionia: sia come fattore determinante l’impulso al rifiuto di collaborare del primo periodo, sia come veicolo trainante - secondo noi - delle forme di opposizione più mature e coscienti[46].

Non fu una crescita generalizzata, presente in tutti i campi di militari italiani; occorreva che, per il gioco degli eventi confluissero nello stesso luogo, uomini che per le loro esperienze potessero assumere e svolgere un ruolo aggregante e del semplice spirito di rifiuto e del più raro ed embrionale antifascismo di quei pochi internati che opponevano non solo gli istinti ma anche alcune forme di presa di coscienza.

Oflag come Oberlangeri, Sandbostel, Fallingbostel[47] videro all’avanguardia alcuni gruppi di internati così come la presenza di «comandati italiani» o di «anziani» di ottima statura morale, consentì il coagulo di istanze politiche consce del rifiuto e della lotta al nazifascismo[48].

Ma anche gli Stalag ed i piccoli Arbeitskommando conobbero questo solidarismo della «società dei lager», per quanto non si sviluppò in senso politico vero e proprio. Per soldati e sottufficiali non esisteva materialmente tempo; visti gli orari di lavoro, le «conte» e le marce di trasferimento per e da il luogo di lavoro allo Stalag, ciò che rimaneva era dedicato esclusivamente alla sopravvivenza[49]. In aggiunta: la loro polverizzazione in ogni luogo dove occorreva manodopera ed il diverso livello culturale, opponevano difficoltà ben maggiori che agli ufficiali, per un fondersi di idee ed intenti che andasse al di là del singolo o del piccolo gruppo o delle esigenze quotidiane.

In qualche caso - per tornare alla nostra periodizzazione che, ripetiamo, ha solo un valore indicativo e forse arbitrario - nell’aprile del ’44, cominciarono le prime pressioni sugli ufficiali tendenti ad ottenere l’adesione volontaria al fronte del lavoro. L’economia tedesca richiedeva altre braccia lavorative ma, almeno fino all’autunno e, quindi, anche dopo la «civilizzazione» forzata[50], la richiesta rimase come una possibilità offerta dai tedeschi.

Nel mese di luglio. gli accordi fra Hitler e Mussolini, stipulati il giorno 20, modificarono nuovamente lo «status» dei prigionieri italiani catturati l’8 settembre: da prigionieri di guerra erano divenuti Internati Militari (né veri prigionieri né veri internati; lontani così dalle convenzioni internazionali di tutela), per esser «trasformati» d’autorità in «liberi e civili lavoratori».

In sostanza per soldati e sottufficiali non mutò assolutamente nulla né per quanto riguardava il lavoro forzato, né per i maltrattamenti conosciuti sin dall’inizio della prigionia[51]. L’adesione formale venne data da questi in modo diffuso e pressoché indolore, con la tenue speranza che potesse servire ad ottenere un miglioramento delle proprie condizioni. Lo stesso, nella sostanza, accadde per gli ufficiali; l’unica differenza fu - lo abbiamo già accennato – che almeno fino all’autunno tale adesione volontaria non venne forzata più di tanto, dai tedeschi. Solo dopo tale data si cominciò ad agire coercitivamente e d’autorità anche nei loro confronti.

Nel complesso, appare evidente che in coloro che aderirono al lavoro, non si ripresentassero gli stessi drammatici momenti del rifiuto della RSI; la scelta in questo caso veniva posta dopo più di un anno di internamento su cui pesavano molto le condizioni fisiche e psichiche, (ben diverse dai primi mesi) ed in cui trovò spazio la constatazione ad opporsi in maniera risoluta ad un mutamento di fatto poco più che formale, avesse ben poco senso. La propaganda tedesca d’altra parte, abbandonati gli slogan ideologici del primo momento continuò a premere, ed in modo sempre più pesante, proprio sui bisogni materiali e quotidiani prospettando ed offrendo, in alcuni casi, miglioramenti all’alimentazione e nelle condizioni di vita.

Il secondo inverno nei lager sopraggiunge su uomini sfiniti, ai quali invece proprio adesso veniva imposto uno sforzo ancora maggiore dei già massacranti lavori forzati[52].

Dietro i reticolati il periodo che va dal febbraio ’44 al gennaio ’45 passa quasi uniforme, senza sostanziali sussulti interni, alla continua disperata ricerca della sopravvivenza. La stessa «società dei lager» ha preso il suo ritmo senza abbandonare i propri componenti; le stesse notizie sulla guerra - prima incerte e poco frequenti – giungono attraverso le radio clandestine in maniera abbastanza costante.

È così l’avvicinarsi del crollo nazista che si apre l’ultimo periodo dell’internamento vero e proprio. Per quanto la nostra suddivisione lo sposta al momento della liberazione, in questo piccolo arco temporale riappaiono alcune costanti precedenti: gli spostamenti, le violenze, e gli eccidi, tornano tragicamente frequenti[53].

Per quanto, secondo noi, è sin dall’inizio della ritirata dal fronte orientale che non si può assolutamente escludere che gruppi più o meno numerosi di IMI presenti a ridosso delle linee di combattimento, possano essere stati eliminati.

D’altronde i prigionieri rappresentavano una sorta di una «palla al piede» delle forze tedesche in ritirata: in alcuni casi si è ucciso[54] in altri sono stati abbandonati interi campi di internati militari[55].

Comincia il periodo delle liberazioni e con la fine del conflitto il flusso dei rimpatriati dalla Germania, divenne incalzante. Da maggio a dicembre rimpatriarono la maggior parte degli IMI dai territori tedeschi[56]. Per quanto occorrerebbe seguire in modo più particolareggiato e più al rallentatore tali movimenti, tenendo conto anche di coloro che rientrarono in Italia prima del crollo tedesco, perché abbandonati dagli eserciti nazisti in ritirata, possiamo dire che l’internamento militare ha termine, ma solo come permanenza fisica in Germania. Si apre un’altra fase, meno tragica ma più penosa, che si svolge nei confini italiani. Ne accenneremo più avanti, parlando dei reduci nell’immediato dopoguerra.

Seguendo schematicamente la nostra «chiave di lettura» dei materiali prodotti cerchiamo di cogliere, sia pure all’ingrosso, le principali componenti psicologiche attorno alle vicende degli Internati Militari Italiani. Nelle pagine precedenti, ne abbiamo già volte fatto cenno. Da parte tedesca, ad esempio, sulla base della stessa ideologia nazista, si innestarono alcuni elementi che aggravarono la già precaria posizione dei soldati italiani; con quel sentimento di odio verso questi ultimi - riassumibile spesse volte nell’aggettivo di «Badogliani» - colpevoli di tradimento e di appartenere a una casta inferiore che scatenò le indiscriminate rappresaglie del settembre-ottobre 1943, giustificate poi attraverso le direttive dell’OKW. Odio che, non diminuì con i mesi e con il precipitare degli eventi e si nutrì del bisogno di annientamento, e di annullamento della persona umana insiti nel sistema e già applicati o sperimentati verso altri «nemici» del Reich[57].

Un’ulteriore aggravante per gli italiani - lo si è già detto – fu il fatto di essere stati catturati in un momento in cui la manodopera rappresentata dai prigionieri di guerra sovietici era pressoché scomparsa, e l’economia di guerra tedesca richiedeva sempre maggiori sforzi in termini di produzione. Questo ed altri motivi, fra i quali la scarsa fiducia del Reich nei confronti della RSI e dei suoi dirigenti, impedirono la formazione di un vero e proprio esercito «repubblichino», anche se composto di soli volontari. Ben chiari sono in proposito alcuni documenti prodotti[58] che riguardano sia la tenue considerazione tedesca nel soldato italiano sia - e cosa più evidente - la ancor minore fiducia degli stessi organismi italiani in Germania verso gli IMI che aderivano[59].

Proprio sui rapporti fra la RSI e la Germania, si innestarono altre componenti che andarono a colpire, anche senza volerlo, gli internati militari. Improntati in modo verticistico e di sottomissione al nazismo, videro i salodini in una posizione totalmente subordinata alla volontà tedesca: nonostante gli sforzi, gli IMI non conobbero molti aiuti sostanziali anche se, ed è innegabile, una parte delle merci e posta familiare spedite ai campi dei militari italiani, giunse a destinazione.

È fra gli IMI, invece, che tutte queste componenti psicologiche assunsero diverse sfaccettature; pressoché abbondanti dovettero combattere una guerra anche con loro stessi. La semplice divisione operabile fra aderenti e resistenti non è netta né tantomeno conclusiva dell’argomento. Sono, con ogni probabilità, esistite tante reazioni e scelte più diverse fra loro nelle motivazioni, per quanti furono i soldati italiani catturati e detenuti nei campi: non potendo analizzarle, tutte perché impossibile, occorrerebbe tentare di ricondurle a limiti ben precisi. anche se sarebbe augurabile, per quanto ancora in tempo, dare una voce a tutti e a ciascuno di quei superstiti.

Accanto ai traumi facilmente rinvenibili sulla ipotetica linea di confine fra aderenti e no, emergono, seppure non sempre in forma esplicita, motivazioni umane e quotidiane tragicamente simili ma altrettanto chiaramente naturali. Specialmente per i soldati, questi motivi trainanti per la loro sopravvivenza: fame, famiglie, lettere, fatica, lavoro forzato, maltrattamenti, morte, tutti fattori di per sé decisivi e che rappresentano quelle costanti che emergono assai spesso leggendo o ascoltando le memorie ed i ricordi di questi uomini[60].

Non abbiamo la pretesa di analizzare tutte queste componenti di cui abbiamo fatto in precedenza rapido cenno. Quella intensa e drammatica realtà quotidiana, di chi ha vissuto tra i reticolati, merita prima che attenzione o analisi o impostazioni rigide e basate su termini quantitativi, rispetto.

Non crediamo - anche per il caso degli ufficiali - ad una diffusa e generalizzata scelta politica di rifiuto del fascismo, concretamente motivata sin dall’inizio dell’internamento, come da alcune parti è stata avallata nella quasi totalità dell’analisi. Per quanto questa scelta è esistita, propendiamo per la quotidianità sostenuta e sorretta da sentimenti umani per prima cosa e poi, ma solo in momenti individualmente e cronologicamente diversi, anche, politici.

Legati dopo un primo e breve periodo di vita e di esperienze comuni, a diverse sollecitazioni, i due gruppi non si comportarono in modo omogeneo né fra loro né all’interno del loro gruppo. Mentre per gli ufficiali, la propaganda li impegnò subito in forme di resistenza parallele alle esigenze quotidiane[61], per i soldati ed i sottufficiali - avviati subito al lavoro forzato senza possibilità di «pentimento»[62] dopo la prima offerta di adesione del settembre-ottobre ’43 - fu la tragedia dell’isolamento nei numerosissimi Arbeitskommando e delle percosse quotidiane, a frenarne gli slanci reattivi, favorendo oggettivamente l’individualismo dei piccoli nuclei, o dei singoli l’esasperazione di certi moventi e, comunque. a gravare ulteriormente sulla sfera interiore del singolo.

Anche per questo, fra i soldati non giunse a compimento quella «coscienza collettiva» se così si può dire della «società dei lager»; polverizzati come gruppo si distinguono dagli ufficiali per quelle costanti anzidette. Queste diversità di esperienze e di atteggiamenti, parte inscindibile del mondo concentrazionario (definendo con questo termine la deportazione politica, civile e militare) emergono, è noto, dalla memoria e dal ricordo esternati in tanti volumi oppure comunicati per le vie brevi dopo poco il ritorno. Ampliando la memorialistica, per quanto questo sarà possibile, potremo forse avere un quadro non solo dell’operare dei più colti ma, dal punto di vista storico, un panorama ricco di percorsi e di sentimenti ancora poco noti o addirittura sconosciuti.

Cosa accadde ai prigionieri italiani una volta rientrati in patria alla fine della guerra e negli anni immediatamente successivi? Riconosciamo che il discorso si presenta complesso ed esula in parte da quello fin qui affrontato. Ben altri strumenti di valutazione e documentali occorrerebbero e adesso occorre concludere, facendo però qui qualche accenno.

Essi divennero, nella loro maggioranza numerica, protagonisti passivi di un fenomeno di rimozione psicologica che voleva cancellare la memoria della catastrofe militare. La società italiana cercava di risollevarsi guardando al futuro. La memoria del recente passato poteva comportare rischi di genericità e di contraddizione. E poi chi rimpatriava poneva quesiti e sollevava problemi cui non era facile dare risposte. A parte le strutture assistenziali organizzate sul territorio nazionale[63] che assolvevano alle necessità più o meno immediate di questi uomini, il Paese sembrava non voler affrontare il problema dei prigionieri anche per le ragioni che sono state appena accennate[64]. Ma siamo ormai all’oggi.

Alcuni settori nazionali considerano questi uomini, degli sconfitti e non gloriosi perché non morti in guerra e come tali «riaccettati» nella società; altri non colsero neppure la sostanza del problema: erano persone provenienti da esperienze completamente diverse tra loro; occorreva però reinserirli nel tessuto nazionale, non solo per mezzo di statiche categorie pensionistiche valide indistintamente per tutti, ma anche attraverso una graduale assistenza da protrarsi negli anni. Quindi, se per la società italiana tale immagine di rimozione continua a fluttuare il fenomeno sembrava incontrollato ed incontrollabile e senza porre fiducia in alcuni errori anche di natura psicologica commessi dalla strutture pubblica.

Evidenti, per fare due esempi, sia quelli per le concessioni delle pensioni di guerra[65] sia quello, già notato, di trattare tutti allo stesso modo[66], generando in alcuni casi una nuova e sostanziale differenza e diversificazione tra ceti sociali diversi.

Certo, impossibile organizzare un’assistenza, per così dire individualizzata, per quanto ogni prigioniero sembrava (ed era) un caso a sé stante. Con quel carico di umiliazioni e violazioni della natura umana che la guerra sempre comporta. Tante soluzioni e tentativi assistenziali o di natura psicologica, lo si accennava, dell’ora sembrarono goffi e inadeguati. Non sarebbe male che gli storici rivisitassero il quadro se disponibili documenti nuovi, anche stranieri, e testimonianze nuove e riscontrassero quelle vecchie.

Per il problema che ci interessa e non solo su questo, si scelse di stendere prevalentemente un velo sul passato; questo recente passato aveva due facce, motivazioni e soprattutto responsabilità diverse mentre restiamo convinti che anche di questi argomenti occorre essere lettore (perché no ricercatore?) severo e attento e anche aperto. Al di là di tanti e anonimi rapporti freddi e burocratici e richiesta di informazioni collegati al rientro in patria del reduce o prigioniero, tali «deposizioni» se lette con una migliore attenzione anche dal punto di vista linguistico, potrebbero dare «discorsi» fatti a caldo, preziosi in termini di essenzialità e profondità umana, spoglia di gesti e parole inutili. Anche da questo punto di vista potremmo disporre di risultati nuovi e di un certo interesse. È vero, si dirà, che anche oggi esistono remore e resistenze a testimoniare, senza per questo generalizzare, ma è un tentativo che non deve conoscere soste.

Un motivo di più per affrontare con compiutezza un argomento fino ad oggi piuttosto trascurato; alla luce delle notizie su Leopoli e Deblin, tornate di attualità: questo dà il segno e la misura di quanto ancora rimane da fare nel campo.

PASQUALE IUSO

[1] Fonti italiane arricchite, fra l’altro, in modo particolare per gli IMI, dalla RSI che era, in fondo l’unico «organismo» che avesse un qualche rapporto col Reich nello specifico.

[2] Specialmente nella quarta e sesta sezione, abbiamo fatto ricorso ad una ulteriore suddivisione dei documenti in sottogruppi; all’interno di ognuno tutto il materiale e ordinato cronologicamente ed è in questo senso che va visto.

[3] Min.-Guerra-Ufficio Autonomo Reduci da Prigionia di Guerra e Rimpatriati, Relazione sull’attività svolta per il rimpatrio dei prigionieri di guerra ed internati, 1944/47, Poligrafico dello Stato, Roma, 1947.

[4] Ovviamente occorre tener presente come questi dati si compongano di elementi fra loro diversi e non solo di IMI: soldati catturati prima dell’armistizio ma rilasciati con gli IMI, unità postesi al fianco dei partigiani e quindi non legate all’internamento, unità combattenti con i tedeschi catturate dagli eserciti nazionali nel ’44 e nel ’45 eccetera. Min.Guerra-Ufficio..., Relazione sull’attività..., cit., Roma 1947.

[5] G. Rochat, Memorialistica e storiografia dell’internamento, in AA.VV., I militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre ’43, Atti del convegno a cura. di N. Della Santa, tenutosi a Firenze il 14/15 novembre 1985, Giunti, Firenze, 1986, pag. 53.

[6] Ministero Difesa - C.C.O.C.G., I militari italiani caduti nei lager nazisti di prigionia e sterminio, Roma, 1975.

[7] Sulla base dei due documenti tedeschi più sopra detti, i militari italiani rimasti in queste zone assommavano ad oltre 150.000 uomini; cifra solo in parte confermata da quanto pubblichiamo nella sezione RSI, così come nella 1° e 2° sezione di questo lavoro si individuano gruppi di militari italiani, sulla scorta di altre fonti si hanno notizie da: Bor, Bannjica, Sabac, Zemun, Jasenovac, Borovo, Perecin tutti in Jugoslavia; Atene, Salonicco, Lero in Grecia; altri erano in Francia, altri ancora nei poco noti campi dell’Ucraina ed in Bielorussia a diretto contatto con il fronte orientale (P. Piasenti, Il lungo inverno nei lager, La Nuova Italia, Firenze, 1978; C. Lops, Dati sulla dislocazione e la composizione numerica dei campi degli internati militari, in ANEI, Quaderni, 1, Roma 1964)

[8] Riproposto integralmente da M. Martini, La deportazione nazista, Istituto Storico della Resistenza Bresciana, Quaderni, 2, maggio 1980. Il catalogo ufficiale dei lager e dei loro distaccamenti esterni fu pubblicato il 24.9.1977 sul n. 64, parte 1ª, della Gazzetta Ufficiale Federale pagg. 1787 – 1952

[9] Può essere, ad esempio, il caso di campi esterni di lavoro (Arbeitskommando), posti nelle immediate vicinanze di lager civili; pur non facendo parte di quest’ultimi, possono essere stati individuati e quindi tramandati con le notizie riguardanti il campo civile.

[10] Tutti dati ed indicazioni desumibili attraverso una ricerca specifica «in loco» e l’esame di documenti originali del periodo bellico. È, per esempio, il caso di Deblin-Irena, dove i campi individuati oltre alla fortezza di Ivangorod, potrebbero essere stati più dei tre o quattro di cui si è parlato stanti anche le difformità fra le testimonianze italiane e quelle polacche (L. Cajani su L’Espresso del 17.4.1987).

[11] Per inciso, va annotato un documento rintracciato presso l’ASMAE, che in questa sede non si pubblica per ragioni di spazio. Si tratta di un riassunto del materiale esistente, a suo tempo, presso l’International Tracing Service (ITS) sezione dell’IRO, di Arolsen riguardante gli italiani transitati o internati presso i principali lager civili. Sono anche in questa sede - come per la Gazzetta della RFT – «... esclusi per principio i documenti che si riferiscono [quindi c’erano] ai... prigionieri di guerra (...) e ai campi di lavoratori stranieri in Germania...» (ASMAE, AP 50/57, DGAP uff.I, Germania Ovest, 1952, p. 93 bis), ma che a noi può servire per una qualche opera di connessione. Per esempio, si parla di documenti sul campo «Dora» in cui è certa la presenza di militari italiani; oppure esiste una, non meglio specificata, indicazione di una «lista di trasporto da Buchenwald a...» che copre il periodo dal 15.9.1942 al 12.2.1945 e fra i vari luoghi di arrivo è citata Lemberg (Leopoli), città in cui erano campi militari di italiani.

[12] In alcuni casi il tutto era sostituito da un numero composto di tre cifre (di rado due); tale denominazione era seguita in tutti i territori non soggetti alla divisione in WK, facendo precedere al numero la denominazione abbreviata del tipo di campo.

[13] Ministero Difesa - USSME, Le operazioni delle unità italiane nel settembre-ottobre 1943, Roma, 1975

[14] La cosiddetta «operazione Alarico»

[15] Di notevole precisione è il lavoro di L. Cajani, Appunti per una storia degli internati militari italiani in mano tedesca (1943-1945) attraverso le fonti d’archivio, in AA.VV., I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, cit., pag. 81-119.

[16] L. Cajani, cit., pag. 84.

[17] L. Cajani, cit., pag. 84-85.

[18] Divisione voluta per diversi motivi, non ultimo il prestigio di casta - per la mentalità tedesca - insito nell’essere un ufficiale; anche se per moltissimi aspetti proprio questa ripartizione non avrà alcun effetto pratico sul trattamento e sulle condizioni generali, essa verrà mantenuta, almeno nei suoi aspetti formali fino al luglio del ’44, inizio della civilizzazione forzata.

[19] L. Cajani, cit., pag. 93-96.

[20] L. Cajani, Cit., pag. 83, in nota

[21] Più noto nel suo aspetto resistenziale, perché è certo più comodo comunicare all’opinione pubblica una tale scelta che non le precise responsabilità dell’8 settembre o le adesioni alle SS, all’esercito tedesco, alla RSI

[22] Gli ufficiali non vennero, almeno in linea generale, inviati al lavoro prima della civilizzazione forzata dell’estate ’44, e, quindi, su di loro i tedeschi non contavano, per quanto furono sempre poco convinti di aderire alle richieste fasciste per una loro liberazione, anche dopo la firma delle formule di opzione per la guerra nazi-fascista. Non è raro trovare nuclei di aderenti trattenuti per futili motivi nei campi militari.

[23] Per esempio, risultano notevoli pressioni fatte su Brignole - già Medaglia d’Oro al V.M. prima dell’armistizio - dalle commissioni della RSI inviate nei campi dei militari italiani

[24] Trarre rarissimi casi, si può dire che la richiesta di adesione militare alla guerra nazi-fascista venne prospettata agli IMI, non oltre l’inverno 1943/’44

[25] In proposito si veda B. Betta, Gli I.M.I., la vicenda degli internati militari italiani in Germania, ANEI, Trento, 1955, pag. 114-120 che riporta alcune delle formule proposte

[26] G. Rochat, Memorialistica e storiografia sull’internamento in I Militari Italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre ’48, cit., pag. 34.

[27] La cosiddetta «missione Vaccari» di cui non si sa molto - responsabile del Servizio Assistenza Internati della RSI dalla sua formazione al 27 luglio 1944, anch’egli ex-internato nel Oflag 367 di Czestokowa - dal 18 dicembre 1943 al 10 gennaio 1944 operò nei principali Oflag polacchi di militari italiani (Leopoli, Deblin-Irena, Chelm, Czestokowa, Przmysl, Biala-Podlaska, Siedlce, Beniaminowo), annotando la presenza di 12.000 ufficiali dei quali circa 7.000 aderenti, dato probabilmente inattendibile). La missione era composta dallo stesso Vaccari, dal Ten. Col. Sommariva, dal Gen. Ferroni, dal centurione Minigutti e due soldati.

[28] La «conta» era una dei momenti più massacranti dell’intera giornata dell’internato; era l’appello ripetuto due o tre volte al giorno, con ogni tempo, spesso di notte o di giorno, che durava ore, artificiosamente prolungato per sfinire il fisico, con temperature talvolta di molto sotto lo zero

[29] Sulla propaganda della RSI, si veda il gruppo di documenti in argomento, nella VI sezione di questo lavoro.

[30] G. Rochat, Memorialistica e storiografia sull’internamento, in AA.VV., I militari italiani..., cit., pag. 34-36

[31] Sugli ufficiali giunti in Polonia nell’autunno del 1948, si può vedere, fra gli altri, il dcc.n. nella IV sezione (Eccidi), che ci riporta un dato sostanzialmente simile a quello di Vaccari: 13.000 ufficiali italiani a Chelm, smistati poco dopo (e in parte) a Czestokowa, Deblin-Irena, Mielec e, in altri campi della zona. Dei 2.300 rimasti a Chelm si sa che 300 circa, in tempi successivi, aderirono alla RSI

[32] Abbastanza noto è ciò che avvenne a Biala Podlaska, dove solo 144 ufficiali su 2.400 non scelsero di tornare a combattere con Mussolini. N. Mariottini, Da Frana: da Corinto a Biala Podlaska, Nuova Editrice Romana, Roma, 1947

[33] Non si può parlare di coscienza resistenziale degli internati militari italiani, già in questo periodo; come anche il rifiuto del fascismo, della guerra, del nazismo erano, forse, ancora in parte motivati da una serie di fattori non facilmente identificabili e da esigenze materiali. Con ogni probalità, se giunti in Italia, difficilmente questi uomini si sarebbero sottomessi in modo tranquillo ad un nuovo fascismo o, meglio, a continuare a combattere accanto a chi li aveva Internati

[34] Si dovrebbe infatti poter sommare anche coloro che optarono per le SS e per la Werhmacht (e i dati sono assai scarsi e incerti) e quelli che accettarono più o meno volontariamente di essere incorporati nelle formazioni tedesche, specialmente nei Balcani

[35] Cfr. (-) pag. 11

[36] Aggiungiamo che tale aspetto particolare, andrebbe letto con quello altrettanto sconcertante della rimozione mentale operata anche a livello ufficiale sul problema dei «prigionieri e reduci» - in modo probabilmente anche involontario - all’indomani della fine del conflitto.

[37] Riproposte analiticamente da L. Cajani, cit., pag. 82-87 e riportate anche da J. Wilczur, Le tombe dell’Armir. Sugarco Como, 1987 (I° ed. italiana, 1962), pag. 24-30

[38] J. Wilczur, cit., pag. 27

[39] Circa questa particolare formula adottata dai tedeschi, si veda l’introduzione alla sezione «Eccidi» di questo lavoro

[40] Sempre Cefalonia e le isole egee sono gli esempi più noti

[41] Si veda in proposito la IV sezione di questo lavoro.

[42] Se ne possono indicare - a nostro vedere e secondo una delle molteplici periodizzazioni possibili - quattro: il primo appena detto nelle sue linee generali, il secondo che va dal gennaio-febbraio ’44 agli accordi Hitler-Mussolini del luglio; il terzo che copre i mesi dall'agosto ’44 al termine del conflitto ed il quarto che è quello dei rimpatri.

[43] G. Rochat, cit., pag. 38

[44] Come abbiamo accennato, i soldati ed i sottufficiali furono subito avviati al lavoro coatto, quindi per questa parte occorre fare riferimento ai soli ufficiali.

[45] G. Rochat, cit., pag. 38.

[46] Le radio clandestine, i giornali parlati, i sabotaggi sui luoghi di lavoro su cui esiste una vasta diaristica, cui rinviamo.

[47] In questi campi operò il gruppo «Radio C.P.» (Radio Capolozza-Pisani dai nomi dei due ufficiali autori di questa sorta di giornale parlato, letto nelle baracche) divenuto poi «Caterina» la prima radio clandestina ricevente costruita nei campi di militari italiani dall’intelligenza di alcuni internati

[48] Per citarne solo alcuni: Testa a Wietzendorf, Brignole e Guzzinati a Fallingbostel.

[49] Per inciso va detto che esistevano delle differenze non trascurabili fra coloro inviati a lavorare in campagna (e spesso vi risiedevano stabilmente) dove il cibo era meno scarso e coloro che, invece, furono inseriti nell’industria bellica propriamente detta e quindi nelle fabbriche (Tragica la situazione dei militari italiani a «Dora» nelle fabbriche delle V 1 e V 2; in proposito si vedano fra gli altri: ANEI, Quaderni, 3, Roma 1966 Testimonianze sul campo di Dora; ANEI, Quaderni, 10, Roma 1978/82, Documentazioni matricolari relative ai militari italiani deportati nel KL Dora Mittelbau e sue dipendenze esterne.

[50] Civilizzazione che agli ufficiali venne presentata come un atto da sottoscrivere almeno nel primo periodo: da luglio ad ottobre 1944

[51] Non fu così per gli ufficiali che conobbero meno di frequente le percosse quotidiane e le bastonature.

[52] Lo sgombero delle macerie provocate dai sempre più frequenti bombardamenti alleati e lo scavo di trincee, erano le incombenze più frequenti per gli IMI.

[53] Ad esempio, il più noto è Kassel di cui parliamo nella IV sezione.

[54] È il caso dei generali italiani uccisi dai tedeschi in ritirata a Zelichov, durante una sosta della colonna in marcia verso il centro della Germania proveniente dal campo 64/Z di Shokken. Cifr. II e IV sezione,

[55] Per esempio il campo di Opole in Polonia venne trovato dalle truppe sovietiche completamente in organico; ma lo stesso accadde in altre zone della Polonia settentrionale.

[56] Min. Guerra - Ufficio Autonomo Reduci da Prigionia di Guerra e Rimpatriati, Relazione sull’attività..., cit., pag. 11-18; secondo queste cifre ufficiali nel periodo da maggio a settembre 1945, rimpatriarono 404.500 uomini, da ottobre a dicembre, 204.600. I rimpatri, almeno ufficialmente, ebbero termine nel febbraio 1947 con il rientro di altre 1.732 unità. Al solito occorre tener conto dell’attendibilità delle cifre originarie sui catturati e della variegata composizione di contingenti di rimpatriati che provenivano da altre zone europee che erano composti anche da aliquote di IMI.

[57] Un trattamento così duro venne riservato - per quel che riguarda i militari - solo ai prigionieri sovietici che, come gli italiani, non erano protetti dalla Convenzione di Ginevra del 1929, anche se per altri motivi (l’URSS infatti non aveva aderito alla stessa).

[58] Alcuni sono anche pubblicati nella sezione dedicata alla RSI di questo lavoro

[59] In modo più evidente è proprio l’Ambasciatore Anfuso da Berlino, ad esprimere i più seri dubbi e perplessità in proposito.

[60] Per i soldati non esiste - almeno negli stessi termini degli ufficiali - la dicotomia fra collaboratori e no, essendo stati subito avviati al lavoro forzato

[61] Secondo noi a tal punto collegate dal fondersi in impulsi comuni

[62] Lo stesso passaggio a «civili lavoratori» avvenne senza alcun tipo di reazione, quasi fosse una semplice esigenza burocratica

[63] Si veda in proposito la «Relazione sull’attività ...» del Ministero della Guerra del 1947, più volte citato

[64] La questione è, infatti, generalizzabile all’intero panorama dei reduci dalla prigionia e dall’internamento e non solo agli ex IMI.

[65] Fra questi uno ma non isolato ci è apparso macroscopico: la richiesta ai reduci di documentazione attestante che le menomazioni subite fossero state effettivamente contratte durante la prigionia

[66] Si pensi alle evidenti differenze fra chi rimpatriava dalla Germania, dall’URSS, dagli USA, dall’Africa, dall’India e così via

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