Codignola problemi della scuola 1964
I PROBLEMI DELLA SCUOLA
QUADERNI
della
F.I.A.P.
n.1
Tristano Codignola
I problemi della scuola
© I Quaderni della FIAP
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Quaderni della FIAP, n.1, 1964
I problemi della scuola
di Tristano Codignola
Il presente opuscolo riproduce la relazione
letta da Tristano Codignola in occasione
del Convegno Nazionale della FIAP tenuto
a Firenze il 19.11.64 in Palazzo Vecchio
Chiunque abbia seguito e segua l’andamento della politica scolastica ha viva la sensazione, guardandosi indietro per questi quindici anni, della stretta corrispondenza intercorrente fra lo sviluppo democratico del Paese e lo sviluppo democratico della scuola, e quindi della corrispondenza fra i momenti di involuzione del Paese e i momenti di involuzione della scuola; è perciò appena il caso di sottolineare che il giudizio sulla situazione evolutiva nella quale ci stiamo avviando in sede di politica generale è nello stesso tempo il giudizio sulla tendenza evolutiva o involutiva della politica scolastica.
Se volessimo dare un primo giudizio, ci sarebbe assai facile rilevare subito che il problema di fondo che resta tuttora insoluto, il problema che condiziona tutti gli altri, è quello del rapporto scuola-Costituzione, tuttora aperto anche rispetto alla stessa prescrizione formale della nostra Costituzione. Dei quattro articoli: il 33, il 34, il 3 e il 4 che se ne occupano, è veramente impressionante constatare come il numero dei commi di essi che si possono dire avviati ad effettiva applicazione sia estremamente modesta rispetto al numero dei commi che aspettano di essere applicati. L’art. 33 pone almeno cinque grandi problemi, tuttora aperti: la libertà di insegnamento che esige una serie di interventi ai quali mi riferirò fra poco; la iniziativa dello Stato nella istituzione di scuole di ogni ordine e grado; la posizione della scuola privata e quindi la interpretazione del «senza oneri per lo Stato»; la parità; l’ordinamento dell’autonomia universitaria: come vedete sono problemi tutti che devono essere in parte o interamente affrontati.
L’obbligatorietà e la gratuità degli otto anni sancita dall’art. 34 è appena ai suoi inizi; altrettanto può dirsi del precetto che garantisce ai capaci e meritevoli, indipendentemente dalla loro condizione economica, di raggiungere i gradi più elevati degli studi, con l’impegno della Repubblica di rendere effettivo questo diritto attraverso una serie di provvidenze.
L’art. 3 pone il problema dell’eguaglianza dei cittadini al di fuori di ogni discriminazione e della rimozione degli ostacoli che possano rendere vana questa affermazione costituzionale.
L’art. 4 pone il problema del diritto al lavoro e della libertà di scelta della propria attività e funzione nella società nazionale.
Ho voluto solo ricordare in modo schematico queste affermazioni della Costituzione per richiamare la vostra attenzione sul fatto che troppo facilmente talora si è portati a richiedere soluzioni di rinnovamento e di riforma quasi che si trattasse di andare al di là della Costituzione. Certamente, io sarò l’ultimo ad affermare che la Costituzione risolva per se stessa tutti i problemi della società italiana; sarò l’ultimo a dimenticare che essa è nata da un compromesso di forze politiche, compromesso non sempre soddisfacente; ma bisogna pur ricordare che per attestarci su quel limite, la Costituzione, che rappresenta tuttora il punto più avanzato di ondata democratica nella nostra società, abbiamo da fare pressoché tutto; abbiamo da fare pressoché tutto proprio perché abbiamo perso quindici anni nel fare nulla. Abbiamo impiegato il lungo periodo centrista per ribadire le strutture della vecchia scuola italiana e per ostacolare l’adeguamento della istituzione scolastica alla Costituzione.
Il problema veramente drammatico che sta al fondo della battaglia scolastica in Italia è che noi abbiamo una Costituzione democratica (sia pure nei limiti del compromesso ricordato or ora) alla quale la strutturazione e l’organizzazione della nostra scuola non corrisponde se non in parte minima. Si è cioè determinato un vero e proprio iato fra la volontà costituzionale e la effettiva organizzazione scolastica, la quale continua a permanere come espressione di una società nazionale di tipo oligarchico, che aveva trovato nella Riforma Gentile una sua coerente organizzazione.
La Riforma Gentile fu effettivamente una soluzione di riforma per adeguare la nostra scuola al tipo di Stato che si andava formando o che - meglio - si andava enucleando da ancor più antiche radici prefasciste, sempre presenti nella nostra società nazionale. Vi è un filo rosso che lega la legge Casati alla legge Gentile: è il filo rosso dello Stato autoritario, dello Stato di classe, dello Stato concepito come piramide di poteri e come subordinazione della volontà di base alla volontà dei vertici burocratici-politici. Dobbiamo riconoscere oggi con grande schiettezza che Gentile seppe interpretare con molta precisione e coerenza filosofica e politica questa realtà del Paese; seppe creare una scuola fondata sul principio dei vertici e della discriminazione di classe, sul principio della scelta di classe predisposta già dai primi gradini della scuola. La Riforma Gentile rese organico ciò che era già «in nuce» fin dalla legge Casati e poi successivamente in tutta la nostra legislazione scolastica, il principio che la scuola serve a portare avanti una piccola classe politica, quella che dovrà dirigere il Paese. La scuola è lo strumento per mantenere in vita un’organizzazione sociale di tipo oligarchico, la cui sopravvivenza bisogna appunto assicurare attraverso lo strumento scolastico.
Se c’è una riprova evidente di questa natura della Riforma Gentile, essa sta nella organizzazione di una serie di «chiuse» progressive, che impediscono alla classe popolare di salire; la selezione culturale nella impostazione gentiliana si identifica con la selezione sociale, una selezione sociale la quale, predisposta dal primo anno della scuola elementare, evita accuratamente attraverso una serie di sbarramenti progressivi che si forzi la realtà classista della società italiana. Naturalmente la si può forzare (e questo è caratteristico di una società oligarchica) attraverso il riconoscimento della eccezionalità di singoli temperamenti: l’eroe esiste anche nella vita quotidiana, ma appunto l’eroe non è il prodotto ordinario della società, l’eroe è un’eccezione che legislativamente non ci interessa; invece nella società scolastica e culturale espressa dalla Riforma Gentile, tutto è predisposto solo per l’eroe, per il quale si può prevedere il passaggio dalla classe inferiore alla classe superiore, mentre la selezione rovesciata resta la normalità, per la quale chi nasce in basso ha da restare in basso. Questo tipo di organizzazione, che poi il fascismo non seppe neanche mantenere perché travolto a sua volta dalla propria demagogia interna, più forte della serietà conservatrice di Gentile, questo tipo di scuola che Bottai portò fino al limite estremo di dissoluzione attraverso la cosiddetta scuola media, questa scuola era appunto la scuola del fascismo, predisposta a creare la classe dirigente fascista, predisposta a mantenerla in modo stabile.
L’aspetto drammatico della nostra situazione scolastica, e di cui non sembra che la classe politica italiana si sia resa sufficientemente conto, è - ripeto - che questa scuola continui a sussistere, e che ad essa abbiamo potuto dare finora solo dei colpi marginali. Il primo colpo decisivo è stata la scuola media, sempreché in essa si realizzi effettivamente una volontà democratica, ed essa stessa non venga strumentalizzata ad antiche soluzioni e volontà conservatrici; per il resto, abbiamo ancora una scuola che almeno nelle sue strutture fondamentali resta in aperto contrasto con la volontà costituzionale. Tutto questo non avverrebbe naturalmente se la classe politica, una buona parte della classe politica, non fosse essa stessa in contrasto con la volontà costituzionale; il ritardo nello sviluppo democratico all’interno della scuola si può spiegare infatti solo perché il grosso della classe politica italiana è tuttora ossequiente in modo puramente formale alla Costituzione ma di fatto tenta di mantenere una situazione di classe, di potere, di organizzazione pubblica analoga a quella che ci ha regalato il fascismo. Molto giustamente infatti Parri ci richiamava al pericolo con tanto di una situazione di tipo apertamente fascista ma di tipo prefascista, o se si vuole potenzialmente fascista, di una situazione nella quale possono facilmente inserirsi germi autoritari o totalitari in determinate condizioni di crisi. Ecco perché dicevo che nel valutare quale sia la condizione effettiva di movimento da questo tipo di realtà scolastica verso un tipo di realtà scolastica che si adegui alla volontà costituzionale, la cosa migliore è seguire, come su una cartina di tornasole, il rapporto fra situazione politica e situazione di sviluppo scolastico.
Appare subito evidente allora che dal 1947 al ’53-’54 lo sviluppo scolastico è stato bloccato dalla realtà della situazione politica; che la nuova pressione che si è cominciata a determinate dal 1953, cioè praticamente dalla repulsa della legge elettorale maggioritaria, ha cominciato a mettere in moto una situazione di base a cui l’autorità politica scolastica e le autorità amministrative hanno cercato di porre un freno difensivo mediante un primo tentativo di programmazione, il Piano Fanfani del 1958; che tuttavia questo piano non era altro che un adeguamento formale alla situazione di pressione che proveniva dal basso senza alcuna modifica sostanziale alla situazione organizzativa della scuola, nel tentativo di rendere inoffensivi alcuni elementi di rottura che provenivano oramai irresistibilmente dalla società italiana, per raccoglierli ed assorbirli in un quadro conservatore.
È da quel momento che noi possiamo fare partire l’inizio di una fase nuova, nella quale le forze di base della società italiana cominciano a trovare o per lo meno a cercare sbocchi politici per la riforma della scuola Ed è esattamente nei tre anni dal 1958 al 1961 che la battaglia scolastica diventa in Italia una battaglia politica. Debbo dire subito che questa battaglia per la scuola ha in Italia un grosso limite, che ci troviamo sempre fra i piedi, l’erronea identificazione cioè da parte di una porzione notevole del mondo cattolico della lotta per la riforma scolastica colla lotta per i privilegi clericali nella scuola. Dico una porzione e dico un limite, perché il problema politico e democratico del nostro Paese è precisamente quello di trovare le alleanze cattoliche per una democrazia scolastica che non nasconda sotto banco delle pretese clericali.
Il problema cioè è quello di creare un’alleanza reale di forze laiche e democratiche e cattoliche per una scuola moderna, che è scuola di tutti e che quindi fa apparire come una vecchia diatriba, un vecchio dibattito superato dalla realtà di uno stato democratico l’antico conflitto scuola privata-scuola pubblica. Ma questo conflitto non può non continuare ad esistere finché da parte del gruppo dirigente della Democrazia Cristiana si continui, come si è continuato in questi anni, a riproporre in modo stanco e arretrato un problema che trova nella realtà della società italiana a sua naturale soluzione, dal momento che la scuola pubblica è scuola di tutti, e in essa le forze cattoliche mantengano un peso da cui nessuno può evidentemente prescindere. Sicché non si tratta più per esse di difendere un patrimonio culturale e ideale rispettabile, attraverso la scuola privata: si tratta di difenderlo e di farlo avanzare in una competizione democratica attraverso la scuola pubblica. Certo, questo limite è grave, perché finché questo limite esiste, finché non vi sia quel salto di qualità nella politica cattolica della scuola che superi l’antico equivoco, e sia capace di portare la legittima contesa ideologica nell’unica posizione e nell’unico terreno dove essa è appunto legittima, ci troviamo arretrati anche noi, in una posizione difensiva o controffensiva, di cui sappiamo tutti i limiti e di cui valutiamo la scarsa vitalità rispetto ai problemi di fondo che investono l’adeguamento della nostra istituzione scolastica alla società italiana.
Che cosa abbiamo raggiunto fra il 1958 e 1963? Abbiamo raggiunto un diverso grado di sviluppo nella politica scolastica: direi, anzitutto, nella presa di coscienza che non è sufficiente in alcun modo una programmazione formale e meramente quantitativa, quale quella che ci veniva fornita da Fanfani nel 1958, per intaccare la natura conservatrice della scuola italiana.
Si discusse per anni, devo dire anche da parte laica, sulla famosa formula delle spese senza riforme e delle riforme senza spese. Il nostro stesso amico Calogero, quasi in posizione difensiva di fronte alla totale immobilità della politica scolastica che portò il segno non soltanto di Gonella ma anche del socialdemocratico Rossi, propose allora come il meno peggio, come primo avvio alla soluzione dei problemi, il momento delle riforme senza spese. Ecco, questo è per esempio un tipo di discussione che è definitivamente superato. Ci siamo resi conto, credo che ormai tutta la classe politica oggi se ne sia resa conto, che è solo un modo di sfuggire alla complessa realtà del problema scolastico il discorso sulle riforme senza spese. Ma ci siamo contemporaneamente resi conto, e questo lo dobbiamo a Fanfani, cioè all’errore compiuto da Fanfani nel presentare il piano del 1958, che è ugualmente inimmaginabile una riforma scolastica fondata sulle spese senza riforma. Ci si è resi coscienti che il problema scolastico è un problema prioritario che impone contemporaneamente investimenti e riforma, e che è impossibile affrontarlo attraverso soluzioni marginali o parziali.
Non ricorderò qui le fasi della lotta dal 1958 al ’61, che fu certamente il momento più creativo della recente politica scolastica italiana. Più creativo nel senso che quel periodo realizzò le condizioni di alcuni sviluppi successivi anche in sede politica generale, in quanto preparò le condizioni dell’incontro al di fuori di un semplice rapporto di potere tra i partiti, fra socialisti e cattolici. Fu appunto negli anni fra il ’58 e il ’61 che si manifestò in modo più preoccupante, il grave vuoto della situazione politica italiana, ove non si realizzasse questo nuovo tipo di rapporto collaborativo, per la riforma generale della società italiana, fra cattolici e socialisti. In sede scolastica, questa situazione ebbe manifestazioni particolarmente visibili: caduto il piano Fanfani, che dava appunto un po’ di spese e nessuna riforma e ribadiva di conseguenza il carattere conservatore della scuola italiana, caduto il tentativo Franceschini di far passare attraverso quella strada la vecchia pretesa di finanziamento diretto della scuola privata, si dovette battere alla fine il capo laddove era necessario batterlo, sulla necessità cioè di trovare sul serio tra cattolici e socialisti una linea di riforma della scuola italiana. Nacquero così i cosiddetti «stralci» del ’61 e del ’62, che confluirono in quell’atto legislativo di pre-programmazione (dico di pre-programmazione, perché esso non rappresentava ancora una visione generale e organica del problema, ma solo ne poneva in luce l’esistenza) che è la legge 1073: quello «stralcio triennale», scaduto nel giugno 1965 ed a cui dobbiamo due cose, uno sforzo finanziario dello Stato indubbiamente considerevole, e l’inizio di una politica di programmazione rappresentato dalla Commissione nazionale di indagine. Quanto allo sforzo finanziario, credo che dobbiamo avere idee chiare sul notevole sviluppo che la spesa dell’istruzione ha avuto in Italia negli ultimi anni: questa dinamica ha preso le mosse dalla pressione sindacale della classe insegnante, anche se questa pressione, che ha avuto un esito assai notevole dal punto di vista delle condizioni economiche, non l’ha avuto altrettanto dal punto di vista delle condizioni giuridiche dell’insegnante, e ciò probabilmente per incapacità di vedere l’azione sindacale al di fuori dell’azione puramente rivendicativa ed economica. Comunque noi siamo saliti, in pochi anni, dai 538 miliardi di spesa nel 1960-61, senza edilizia, con una incidenza sulla spesa pubblica del 13,5%, ai 1140 miliardi di spesa dell’attuale bilancio, cioè al raddoppiamento in cinque anni con un incremento percentualistico di spesa veramente imponente, essendo arrivati nel secondo semestre del 1964 al 18,4% della spesa pubblica, con una corrispettiva decurtazione progressiva della percentuale di spesa per la difesa esterna ed interna, che ha consentito al bilancio della istruzione di raggiungere ormai in modo deciso la priorità assoluta nelle spese. Questo stesso processo dinamico fa pensare ad un rapido ulteriore incremento, previsto dalla Commissione di indagine in 2600 miliardi al 1975, e che il documento del Ministro, recentemente pubblicato, porta ad un livello di 1700 miliardi al 1970. Da questo punto di vista quindi, considerando la condizione effettiva del reddito nazionale, la possibilità di destinare quote crescenti di reddito alla scuola (che non è il solo investimento sociale, ma che comunque è uno degli investimenti sociali essenziali), non si può non riconoscere che a partire dalla legge stralcio, a partire cioè dal momento in cui - dopo la frattura determinata dal piano Fanfani - si determinò una base di azione comune di forze politiche prima contrapposte, la situazione si è andata modificando, è andata modificandosi in modo abbastanza rapido e si può prevedere che si modificherà ancora più rapidamente. Ecco perché io ho sempre sconsigliato ai giovani compagni delle organizzazioni universitarie, le quali sono evidentemente le più sensibili ad alcuni problemi di riforma della scuola, dal farsi prendere dal desiderio dell’urto frontale a ogni costo.
L’azione politica è più difficile oggi proprio perché non possiamo non vedere che lo Stato, la comunità nazionale hanno cominciato a prender coscienza che l’investimento scolastico e il primo degli investimenti economici, anzi è il volano, è la condizione stessa di una politica di sviluppo economico. Questo effettivamente una parte della classe politica italiana l’ha capito, ma aver capito questo non significa affatto ch’essa sia pronta ad affrontare, come dicevo, il problema del rapporto tra scuola e Costituzione, cioè tra democrazia e scuola. Ci si comincia a muovere: ma più con mentalità tecnologica, neo-capitalistica, più con mentalità produttivistica, che non con mentalità di riforma democratica. È già un grosso passo, e lo dobbiamo in parte alla SVIMEZ e ad altri centri di studi economici, l’aver fatto capire che non è possibile pensare ad uno sviluppo dell’economia di un paese se non si creano le premesse di questo sviluppo economico, cioè non si sviluppa la scuola. Questo è certo un fatto positivo. Però tutti comprendono che può diventare un fatto negativo se, una volta accettato questo, si accettino poi le conseguenze che ne tirano determinati gruppi economici o monopolistici del Paese, i quali oggi sembrano molto impegnati allo sviluppo della scuola. Ma come? a quali fini? ai fini di assicurare un rafforzamento della condizione sociale in atto, al fine per esempio di incrementare un processo di produttività dell’azienda strettamente fondato su una ribadita distinzione di classe; su questo terreno ci si può anche spingere a chiedere la scuola media unica e una forte istruzione professionale, ma si mira ad una istruzione professionale diretta a creare non tanto uomini e lavoratori liberi, quanto buone macchine umane in una organizzazione industriale più moderna. Oppure si mira a questo stesso tipo di riforme sociali con fini democratici? di qui passa il dibattito in corso, di qui passano le differenze all’interno della stessa maggioranza. Differenze che non passano affatto in modo semplicistico tra laici e cattolici, passano piuttosto attraverso la DC come attraverso le forze laiche. Il problema politico generale, che è quello di stimolare, mettere in rilievo quelle forze cattoliche le quali vogliono la riforma della società e dello Stato, si pone in modo identico nella politica scolastica. Il problema è anche qui di trovare le alleanze valide per mettere in moto la intera situazione. Quando in sede di legge 1073 riuscimmo a varare la Commissione d’indagine, furono molti coloro che ritennero questa Commissione una delle tante commissioni a cui siamo abituati in Italia, una cosa inutile, burocratica e futile. Noi eravamo persuasi che si trattava di cosa diversa, perché eravamo riusciti a realizzare questa Commissione sull’onda di un’esigenza reale del paese, non costituita di soli parlamentari, o di soli esperti, o di sola maggioranza, ma insieme di parlamentari e di esperti che fossero espressione di tutte le forze politiche del Paese, con la rigorosa esclusione dei burocrati. In Italia si parla quasi sempre di rivoluzione, ma in realtà i passi rivoluzionari si fanno raramente, e qualche volta con strumenti che sembrano innocenti.
Quando quella Commissione si mise a lavorare, ci accorgemmo subito che essa creava un rapporto contestativo estremamente duro nei confronti della burocrazia; più tardi ci accorgemmo di una cosa ancor più interessante, che la burocrazia, come la DC, non è un blocco unico che si possa prendere o lasciare, ma che si tratta di stimolare delle forze contro altre forze; ci accorgemmo che non è vero che tutta la burocrazia sia arretrata e reazionaria, che una parte di essa può lavorare per la democrazia purché le forze democratiche vogliano farla lavorare ad una riforma democratica dello Stato. Poi facemmo un’altra constatazione importante, la fertilità del collegamento diretto tra politici e parlamentari da un lato, uomini di scuola ma anche urbanisti, economisti, programmatori dall’altro: sicché apparve chiaro come la scuola, come ogni altro grande problema nazionale, debbano essere affrontati in una dimensione politica e tecnica insieme, poiché se è vero (come alcuni ripetutamente affermano) che le posizioni di potere sono posizioni prevalentemente politiche e non possono quindi tecnicizzarsi al punto da sottrarsi alla democrazia politica, è altrettanto vero che una posizione politica priva di competenza è il più grande dei pericoli che minacci una democrazia moderna; che non possiamo rinunciare al principio essenziale che un amministratore, un politico, un parlamentare, deve essere oltreché un portatore di idee politiche un portatore di competenze, senza di che la nostra democrazia minaccia di avviarsi alla crisi, proprio per l’evidente inadeguatezza della classe politica ai suoi compiti istituzionali, cioè di competenza.
Da quella Commissione, che era un fatto nuovo, nacquero delle conseguenze nuove. Ne nacque un principio di programmazione e di riforma, che rappresentò un punto di compromesso (generalmente, unanime fra tutte le forze politiche) portato al giudizio del Paese, del Parlamento e del Governo. Ed è in questa temperie politica, tra il 1961 e il 1963, che cade l’unica, vera riforma politica della scuola in questi anni, l’istituzione della scuola media, riforma che esce per la prima volta dal regime casatiano, dalla corporazione dei professori, dagli interessi costituiti, e pone il problema politico della trasformazione dello Stato sulla base dell’eguaglianza di tutti i cittadini nella formazione culturale di base. Questo è il significato politico fondamentale della scuola media che viene osteggiata sotto forma di difesa del latino o sotto varie altre forme, ma che in realtà viene osteggiata da quanti comprendono che la scuola media fa saltare la vecchia scuola gentiliano-fascista, fa saltare la scuola concepita come strumento di conservazione d’una società arretrata. Naturalmente, la battaglia è ancora in corso, e nessuno può dire se la scuola media riuscirà ai suoi fini istituzionali: io vorrei dire agli amici e ai compagni che ci hanno aiutato a crearla, che la battaglia non è affatto vinta, è vinta in sede istituzionale non in sede sostanziale, e che ora si tratta di riempire di azione democratica e democraticamente pedagogica la nuova struttura. Basti pensare all’azione di freno che viene mossa contro il doposcuola, che pur rappresenta uno dei punti nevralgici della riforma, per far comprendere quale distanza vi sia tra i fini già raggiunti e quelli da raggiungere. È chiaro tuttavia che si è aperta la strada. Si è aperta in modo visibile nelle zone miste della grande città, zone d’immigrazione vicine a zone residenziali di antica data, dove la distinzione tra scuola media e scuola d’avviamento era la distinzione visibile di due società e dove si è dovuto ricorrere alla obbligatoria ripartizione territoriale degli studenti per evitare che gli studenti provenienti dalla vecchia scuola media andassero in scuole medie nuove di tipo borghese e i provenienti da scuole d’avviamento andassero in scuole medie nuove di tipo proletario!
Ci troviamo di fronte a problemi quantitativi enormi (sapete che si tratta di portare alla scuola classi d’età intorno ai 950.000 ragazzi, quindi qualcosa come 2.700.000 ragazzi rispetto ai circa 1.500.000 che attualmente frequentano la media): problemi enormi soprattutto nelle campagne, dove è in corso un vero e proprio salto di qualità nel trasportare da livello di elementare a livello di media grandi masse di figli di contadini. Ma la cosa è avviata, e può esser portata a compimento in una certa temperie politica, in una determinata realtà di movimento: altrimenti la nuova istituzione si troverà presto paralizzata.
Così, stiamo ora per realizzare la scuola materna statale, come elemento importante di intervento dello Stato in un settore lasciato fino ad oggi all’iniziativa privata, o all’iniziativa degli Enti pubblici territoriali, come affermazione costituzionale della presenza statale anche a livello dei tre-sei anni. Questa istituzione sarà per il momento estremamente limitata nella quantità, ma è tuttavia un fatto significativo ed importante che si realizzi.
A questo punto però ci troviamo di nuovo di fronte ad una situazione che rischia di volgersi in senso involutivo. Per essere estremamente franco, responsabilmente franco, devo dire che fra il momento della Commissione di indagine che rappresenta, come ho già detto, il punto massimo di ondata raggiunto fino ad oggi, ed il momento rappresentato dalla pubblicazione, ora avvenuta, del documento ministeriale sull’applicazione degli impegni di governo, noi ci troviamo di fronte ad un nettissimo arretramento: di cui non vogliamo far responsabile il Ministro se non per la sua parte, perché ci rendiamo conto che questo arretramento è l’arretramento di una spinta che forse ha operato più rapidamente di quanto non fosse possibile prevedere nei due o tre anni decorsi, è un arretramento di politica generale del Paese, è la proiezione, una volta ancora, nella sfera di politica scolastica del pericolo che il centro-sinistra da fatto di avanzamento democratico e di riforma si trasformi in fatto di stagnazione. È inutile nascondersi la portata di questo pericolo che è presente in tutti noi, presente nel nostro sindaco La Pira che rappresenta una posizione originale ed autonoma nel Paese proprio perché ha sempre avvertito il pericolo che l’incontro di forze politiche diverse potesse restare solo formale e non servisse allo scopo che solo interessa: la trasformazione sociale del paese (il resto può esser fatto anche da Malagodi e non occorre ci sia un incontro storico perché si facciano le cose che vuole Malagodi!). Ci troviamo dunque in una fase difficile, anche perché siamo tutti - e i comunisti non sfuggono a questa realtà - siamo tutti compressi in una situazione data. Non possiamo più ricorrere a un vecchio tipo di opposizione per salvarci l’anima: siamo tutti, opposizione compresa, in una barca unica, in un’azione di trasformazione sociale dall’interno, dall’interno dico non di una formula politica data, ma dall’interno di una esigenza di progresso, di un certo tipo di sviluppo a cui nessuno può sottrarsi. E qui bisogna parlarci chiaro, e anche vedere quali funzioni possiamo avere noi, in questa sede, come in tante altre sedi para-politiche in cui capita d’incontrarci. Dobbiamo allora renderci conto che l’ondata di progresso di cui parlavo sta per chiudersi e che il problema è ora quello di far ripartire la nuova ondata dalle posizioni più avanzate che sono state conquistate con la precedente. In sede propriamente scolastica (ma - come vedete - non c’è una sede propriamente scolastica che non sia quella di politica generale) i problemi che abbiamo immediatamente da affrontare riguardano alcuni aspetti fondamentali della scuola che si possono riferire, in via molto sommaria, alle strutture, alle attrezzature, al personale, all’organizzazione interna democratica. Ne parlerò in modo rapidissimo e vi indicherò alcune ragioni di battaglia che vediamo imminenti o già in atto. Anzitutto, la scuola secondaria superiore. Noi riteniamo che il centro, il fuoco della battaglia si sposti ormai lì, forse ancora più che in sede universitaria, nonostante che in Commissione di indagine noi abbiamo affermato che la priorità delle riforme spetta alla università. Ma nell’università avremo a che fare con la camorra universitaria - mi scusino i compagni – che costituisce un centro di potere reale nella politica scolastica italiana. Molte volte, quando sono portato dal mio carattere un poco impulsivo a dire certe cose che forse non dovrei dire così apertamente al Ministro della Pubblica Istruzione, devo poi un po’ riflettere pensando al tipo di pressione che le ghenghe universitarie sono in grado di esercitare su di lui! Certo, il problema della democratizzazione universitaria resta un problema di fondo, ma le difficoltà che vi troveremo, la necessità di creare in quella sede delle grandi alleanze di natura politica soprattutto con le nuove generazioni di docenti e con gli studenti, il tempo che tutto questo richiede e le scadenze che premono sulla scuola secondaria superiore mi fan ritenere che la battaglia si sposterà su questo campo, dove tra un anno dovremo essere in grado di sapere che cosa accadrà di coloro che, usciti dalla scuola di massa dell’obbligo, dovranno andare avanti. Diciamo subito che a nostro giudizio il Paese non può accontentarsi degli otto anni obbligatori, che occorre portare avanti almeno fino ai 16 anni l’istruzione per tutti, che questa non è una richiesta massimalistica (tutti sanno che noi, paese di alta civiltà, siamo in una posizione quasi feudale e semi-coloniale rispetto al resto del mondo per quanto riguarda le strutture scolastiche, anche se stiamo ora facendo passi in avanti significativi), che dunque si deve arrivare presto al «biennio» obbligatorio per tutti, e che per arrivare a questo occorre preliminarmente stabilire un’unicità d’indirizzo nei bienni dei diversi istituti in cui attualmente si articola la scuola secondaria superiore. Dobbiamo decisamente combattere l’idea che i bienni dai 14 ai 16 anni siano i bienni che predeterminano la strada di ciascuno, e soprattutto respingere l’idea di bienni per le classi sociali superiori e bienni per le classi sociali inferiori, tenendo ben presente che la stessa istruzione professionale richiede ormai, a riconoscimento unanime, una preparazione di carattere generale e umanistica per la formazione dei futuri lavoratori, operai e tecnici. Avremo immediatamente dopo il problema della fascia delle scuole secondarie successive al biennio, rispetto a cui la questione di fondo è quella dello sbocco universitario. È una questione che condiziona ogni altra, perché s’identifica col problema stesso della democrazia. Non possiamo che chiedere una cosa: l’apertura indiscriminata, a favore di tutti coloro che abbiano fatto la scuola secondaria superiore, della università, rinviando all’organizzazione universitaria stessa di studiare i migliori metodi di selezione: se l’università sarà una cosa seria, sarà essa capace di selezionare le capacità di ognuno, perché ciascuno possa dare alla società il meglio di se stesso. Portare questa selezione al livello di scuola media superiore determina una discriminazione inevitabile, perché non esiste nessuna organizzazione scolastica in grado di stabilire il modo migliore e più certo di utilizzare a 16 anni (e non dico a 14!) gli ingegni e le capacità dei giovani. Con nostro profondo rammarico abbiamo visto respinta questa prospettiva nella proposta Gui; è un arretramento gravissimo, a nostro giudizio, rispetto alla richiesta della Commissione d’indagine di assicurare l’apertura dell’università a tutti i provenienti dalla scuola media secondaria superiore (che vuol dire anche ai provenienti dall’istruzione professionale, se ci organizzeremo in modo da portare anche l’istruzione professionale, attraverso un istituto tecnologico superiore, fino all’università). Risolto questo problema, si risolvono gli altri problemi, compreso quello stranissimo, diciamo pure grottesco, dell’istituto magistrale. Questo istituto troverebbe la sua motivazione in una precoce inclinazione verso l’insegnamento: una tesi intollerabile e assurda, per cui i giovani a 14-15 anni si sentirebbero portati all’insegnamento; ridicola, perché questa tesi non s’applica ai professori di scuola media ma solo ai maestri elementari. Sappiamo bene che, in realtà, non si tratta di vocazione, ma di volontà di mantenere gli interessi costituiti degli istituti magistrali parificati. E dobbiamo parlare molto chiaro su questo punto. Le vocazioni sono una cosa seria; ma qui proprio non c’entrano.
Detto questo, vorrei aggiungere poche parole sull’università con riferimento soprattutto a due nodi centrali: autogoverno e democrazia nell’università, reclutamento e formazione degli insegnanti. Come per la scuola secondaria è lo sbocco che decide della riforma, così nell’università è la struttura democratica che decide della riforma istituzionale.
Noi potremmo fare tutte le riforme di struttura che vogliamo, inclusi i dipartimenti che l’on. Gui ora riduce a strumenti di specializzazione post-universitaria cambiandone totalmente la funzione di trasformazione strutturale delle attuali facoltà, ma esse serviranno a poco se non riusciremo a realizzare una vitalità democratica, una corresponsabilità nella gestione dell’università, di tutte le categorie che insieme vi lavorano e di tutti coloro che hanno interesse allo sviluppo universitario; se noi non riusciremo a far passare la trasformazione universitaria attraverso i canali democratici. Perché il vero punto di resistenza nella riforma dell’università sta nella sua natura prevalentemente autoritaria, nella sua gestione autoritaria, dai consigli d’amministrazione ai consigli di facoltà, ai rapporti professori-studenti: tutti i grossi problemi che esistono in sede universitaria si risolvono solo avendo ben chiaro in mente che l’università non è un organismo chiuso di interessi ma è un modo di essere della comunità e che la collettività ha bisogno di controllarla e di parteciparvi direttamente.
L’altra questione universitaria immediatamente urgente è quella della preparazione degli insegnanti, qualitativa e quantitativa: avevamo proposto la creazione di un grande istituto superiore per la preparazione degli insegnanti portando la preparazione dei maestri al I biennio o al I anno universitario, portando la preparazione dei professori secondari al di là della semplice preparazione culturale, non per ridurla questa preparazione, ma per ravvivarla, attraverso un’adeguata preparazione professionale. Ciò avvierebbe a soluzione una serie di problemi che derivano dal sistema attuale di reclutamento, sistema che non può resistere ad una richiesta dell’ordine di 300 mila unità. L’unica strada aperta ad uno Stato moderno che voglia programmare la sua istruzione è quella di verificare le proprie esigenze d’insegnanti e in base a queste realizzare altrettanti posti-studio negli istituti di preparazione degli insegnanti. Solo cosi supereremo da una parte l’alta disoccupazione magistrale, che mantiene sul mercato 120-150 mila maestri inutilizzati, dall’altra il fenomeno opposto, tipico di una società disgregata, della massiccia carenza di professori e degli studenti che si trasformano in professori, col risultato di degradare anche la scuola come centro di vita culturale e democratica.
Di fronte a queste battaglie che presto si apriranno, il problema è sempre uno: se saranno le forze di base a premere su una classe politica scarsamente sensibilizzata o se la classe politica sarà capace di anticipare i bisogni delle forze di base. Il pregio di una classe politica sta nel saper avvertire a tempo quel che si muove, senza essere costretta a concedere di volta in volta qualcosa ad una pressione incontrollata. Molti si sono domandati come mai nelle ultime elezioni i voti comunisti siano aumentati: ma vogliamo renderci conto che molti dei voti comunisti non sono affatto voti comunisti, sono voti di protesta di gente che chiede che si modifichi finalmente questa stagnante situazione italiana? Sta a noi modificarla, sta alla classe politica democratica di modificarla, con l’aiuto - certo - anche dei comunisti, ma attraverso un’iniziativa propria ed autonoma.
Per concludere, e non senza un collegamento con le cose dette fin qui, volevo accennarvi a due questioni di democrazia scolastica, che hanno carattere veramente esemplare. Recentemente, noi ci siamo fortemente impegnati nel tema della programmazione dell’edilizia scolastica. Non si tratta di reperire soltanto quei 4.000 miliardi che occorrono per l’edilizia scolastica, ma si tratta anche di stabilire chi e come parteciperà alla programmazione dell’edilizia scolastica. Proprio in questi giorni viene proposto di dar corso finalmente a quell’indagine analitica sull’edilizia scolastica in tutto il territorio italiano che da tempo chiediamo, ma di affidarla alla cura di enti burocratici (l’Istituto di statistica o l’amministrazione statale). Ebbene, questo problema così specifico è in realtà un significativo problema democratico, poiché questa indagine non può essere affidata se non agli enti che poi programmeranno l’edilizia scolastica, e cioè gli enti locali organizzati in consorzi, le province i comuni le regioni, in quanto il momento della conoscenza è il primo atto della programmazione. Se noi dovessimo perdere tempo e milioni per sentir dire ancora una volta che ci sono tante aule di fortuna o tante aule adattate o appositamente costruite, mentre la realtà vivente della scuola, anche sul piano edilizio, sfugge a un accertamento di questo tipo, ma è rapporto fra edilizia scolastica e concentramento demografico, sviluppo democratico ed economico del territorio, allora sarebbe davvero inutile fare altre spese, che resterebbero del tutto improduttive. Una seconda questione democratica di tipo esemplare riguarda l’insegnamento della storia nei libri scolastici. I casi sono due: o noi accettiamo soluzioni di tipo autoritario-fascista, che prevedano il controllo dei testi dall’alto - e questo credo che noi non possiamo accettarlo – oppure il problema si confonde con quello della preparazione degli insegnanti. Se uno Stato vuole assicurare ai propri insegnanti il diritto-dovere di scegliere autonomamente i propri strumenti didattici, non c’è nessun altro mezzo di garantire che la scelta sia fatta in modo democratico che affidarla ad insegnanti democratici. Ed è chiaro che gli insegnanti non sono democratici finché essi non siano preparati democraticamente: il che non vuol dire acquisizione di alcune nozioni giuridiche di educazione civica (o di educazione stradale, come ora si prospetta), ma vuol dire preparazione globale dell’insegnante in chiave d’educazione civica. Il problema centrale della nostra scuola media, e in generale della nostra organizzazione scolastica, è infatti sempre quello di stimolare sul serio e non formalmente il costume democratico, assicurando poteri effettivi di autogoverno a chi della scuola fa la sua vita, poteri reali di scelta agli insegnanti, agli studenti, alle famiglie, poteri agli enti locali come espressioni della società in cui si muove la scuola.
Sono questi i problemi che interessano anche noi qui, problemi che devono esser agitati in sede politica poiché solo in sede politica si risolvono. Purtroppo il corpo insegnante è oggi costituito in modo che, con la migliore volontà di cui possa essere animato, esso non è preparato ad affrontare questi problemi, perché non li conosce, non sa affrontarli politicamente, non ha una coscienza sindacale sufficiente per fare dei sindacati un valido elemento di rottura: i sindacati scolastici hanno fatto parecchio, agendo come strumenti di avanzamento economico: ma la scuola attende ancora la propria liberazione politica, ed è a questa liberazione, mi pare, che noi possiamo portare un valido contributo.