Progetto: Matteotti e gli altri
Podcast: Rivoluzionari
Calssificazione: Contenuti adatti a tutti
Stagione: 3
Numero dell’episodio: 9
Tipo di episodio : Completo
Podcast realizzato da FIAP con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Struttura di Missione Anniversari Nazionali ed eventi sportivi nazionali ed internazionali. Scritto dallo storico Andrea Ricciardi, sceneggiato da Donatella Fiorella e Andrea Ricciardi, narrato da Edoardo Mininni, Vittorio Tosi, Donatella Fiorella e Dario Di Stano; con la produzione di Gabriele Beretta.
Andrea Ricciardi
Giacomo Matteotti e i repubblicani
Il 1919 è un anno ricco di cambiamenti e speranze ma anche di violenze e contrasti, politici, sociali, economici. La Prima guerra mondiale, finita nel novembre 1918, ha lasciato pesanti strascichi in Europa. La pace, nonostante l’apertura della Conferenza di Parigi, non sembra essere solida e in grado di garantire una vera stabilità. La fondazione della Società delle Nazioni, che nelle intenzioni del Presidente americano Wilson dovrebbe allontanare le guerre e risolvere pacificamente le controversie internazionali, non cancella le tensioni tra gli Stati. Emergono idee diverse sui nuovi confini in zone cruciali dell’Europa.
In Italia crescono le polemiche sul confine nord-orientale e, in particolare, sulla città di Fiume. Il 24 ottobre 1918, sul «Corriere della Sera», Gabriele D’Annunzio scrive Vittoria nostra, non sarai mutilata e, dal settembre 1919 al Natale 1920, con centinaia di legionari occupa la città. I nazionalisti, proprio in nome della Vittoria mutilata, lo seguono e sono sempre più aggressivi verso i socialisti, che chiedono più diritti per i lavoratori e sono distanti dalle rivendicazioni territoriali. Terra ai contadini e controllo delle fabbriche agli operai: sono queste le loro richieste, anche sulla base delle (confuse) notizie che arrivano dalla Russia, dove i bolscevichi di Lenin hanno fatto la rivoluzione. L’insoddisfazione è molto diffusa tra gli ex combattenti, i giovani sono sempre più critici verso il presente e lontani dalle classi dirigenti. Vogliono essere protagonisti della storia, contestano l’ordine “borghese” e le tradizioni a cui sono ancorate le vecchie generazioni.
L’Italia è attraversata da un’acuta crisi politica e sociale, i liberali sono divisi e indeboliti, i governi di Vittorio Emanuele Orlando e Francesco Saverio Nitti non si mostrano solidi. La riforma elettorale del 1919, che introduce il sistema proporzionale, muta profondamente il quadro politico. I partiti di massa, Partito Socialista Italiano e Partito Popolare Italiano (fondato proprio nel 1919), vincono le elezioni ma una loro alleanza che ipotizzi una vera alternativa ai liberali è da escludere. Hanno il consenso degli operai, dei contadini e di una parte della classe media, ma i loro obiettivi ultimi sono tra di loro inconciliabili. La grande borghesia, di contro, ha paura di perdere i propri privilegi e teme la rivoluzione dei “rossi”.
La monarchia sabauda e lo Statuto Albertino non per tutti sono il collante della nazione. Da una parte importante del mondo politico e della società italiana sono considerati il simbolo della conservazione, anche dal punto di vista culturale. I socialisti, i democratici e il Partito Repubblicano Italiano (fondato nel 1895, erede delle idee di Giuseppe Mazzini, interventista di fronte alla Grande Guerra, animato da esponenti come Giovanni Conti, Raffaele Rossetti, Fernando Schiavetti, Mario Angeloni, Cino Macrelli, Guido Bergamo, Cipriano Facchinetti e Randolfo Pacciardi, nel 1922 nominato segretario del movimento antifascista Italia Libera) esprimono una visione molto critica dell’esito del Risorgimento. Ritengono che l’Unità d’Italia, in realtà, sia stata una rivoluzione mancata (una posizione simile ma non sovrapponibile a quella di Gramsci) e che la Repubblica sia l’unica forma di Stato adeguata alla società di massa che, sia pure tra contraddizioni e lacerazioni, si sta affermando.
Tra le forze politiche che si proclamano repubblicane, c’è il piccolo movimento dei Fasci italiani di combattimento, fondato a Milano nel 1919 dall’ex socialista rivoluzionario Benito Mussolini, espulso dal PSI nel 1914 perché divenuto interventista. Il movimento, finanziato da grossi gruppi industriali tra cui l’Ansaldo e l’Ilva, ha un programma politico molto contraddittorio. Esprime un violento nazionalismo ostile in primis ai socialisti, accusati di propaganda rivoluzionaria e disfattismo perché pacifisti. Vuole l’unione di Fiume e della Dalmazia all’Italia, contro le condizioni stabilite dai trattati di pace. Ma inneggia anche a rivendicazioni democratiche che ben presto, come la Repubblica, saranno abbandonate: suffragio universale maschile e femminile, giustizia fiscale e lotta ai profittatori di guerra, abolizione della coscrizione obbligatoria, lotta ai liberali conservatori e alla monarchia, richiesta per gli operai delle otto ore di lavoro e della partecipazione agli utili delle imprese.
Tra i sostenitori della Repubblica, critici verso i Savoia, verso la classe dirigente liberale e i nazionalisti, c’è un giovane intellettuale torinese, Piero Gobetti. Dopo aver fondato nel 1918 un quindicinale, «Energie Nove», nel 1919 Gobetti aderisce alla Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale, fondata dal suo maestro Gaetano Salvemini, ex socialista, storico e intellettuale che aveva sostenuto l’intervento in guerra. Una posizione opposta a quella dei socialisti tra cui, per il suo pacifismo radicale, si era distinto Giacomo Matteotti, dal 1919 deputato alla Camera come Salvemini.
Gobetti si considera un rivoluzionario liberale e, pur non essendo socialista, guarda con entusiasmo all’occupazione delle fabbriche realizzata dagli operai torinesi nel 1920 che, diffusa in altre parti dell’Italia in risposta alla serrata degli imprenditori, a settembre si conclude con un accordo patrocinato dai vertici della CGdL, guidata dai riformisti, e dai rappresentanti degli imprenditori con il beneplacito dell’allora capo del Governo Giovanni Giolitti. Dall’inizio del 1921 Gobetti collabora con il giornale «Ordine nuovo», animato dal gruppo di Gramsci, Togliatti, Terracini e Tasca, i fondatori del Partito Comunista d’Italia nel gennaio 1921 al fianco del gruppo napoletano guidato da Bordiga, il primo segretario del PCd’I.
Nel 1922 Gobetti fonda il settimanale «La Rivoluzione Liberale», attraverso cui intende alzare il livello culturale del dibattito pubblico. Vuole formare una nuova e più matura classe dirigente, crede nelle autonomie locali, nel liberismo economico e nella democrazia, auspica una grande partecipazione delle masse operaie e contadine alla vita dello Stato. Molto critico verso la monarchia, promuove la Repubblica ed è ostile al fascismo che, nel frattempo, dopo la Marcia su Roma del 28 ottobre è arrivato al potere. Mussolini è stato designato dal re Vittorio Emanuele III nuovo capo del Governo al posto di Luigi Facta, che gli aveva proposto invano di firmare lo Stato d’assedio in risposta proprio alla Marcia su Roma, un atto eversivo dell’ordine costituito.
Intanto Giacomo Matteotti, che si era formato come amministratore locale e aveva lottato al fianco dei braccianti del Polesine e collaborato con il periodico «La Lotta», è diventato segretario del Partito Socialista Unitario. Il partito è nato proprio all’inizio di ottobre del 1922 per la scissione dei riformisti dal PSI, guidato dai massimalisti di Serrati e Lazzari. Matteotti, al contrario del più giovane Gobetti, era stato del tutto ostile all’interventismo e alla guerra, tanto da essere trattato da sovversivo, richiamato alle armi nonostante avesse diritto all’esenzione dal servizio per una patologia polmonare, confinato in Sicilia dal 1916 al 1919 senza che potesse svolgere alcuna attività politica. L’amore della moglie Velia Titta, gli studi giuridici e lo stretto rapporto con la gente comune del Mezzogiorno, a cominciare dai giovani soldati per lo più analfabeti, lo avevano aiutato ad affrontare i disagi derivanti dal forzato isolamento dal dibattito pubblico e dalla famiglia.
Rientrato in Polesine alla fine del 1919, eletto deputato nelle file del PSI, Matteotti aveva ripreso la lotta al fianco dei braccianti e, fin dalla genesi dello squadrismo fascista, si era distinto come uno degli oppositori più intransigenti. Le sue denunce contro la violenza dei fascisti e l’arroganza degli agrari lo avevano reso un avversario temibile per Mussolini e i ras locali. La parola e gli scritti erano le armi attraverso cui Matteotti denunciava in modo deciso le bugie della propaganda fascista. Quelle armi divennero subito, per Mussolini, un grosso problema. Nel 1921, anno della sua rielezione alla Camera, Matteotti subì una prima violentissima aggressione proprio durante la campagna elettorale. Fu rapito, minacciato e costretto a subire terribili umiliazioni che, tuttavia, non lo condizionarono nella sua azione politica.
Questo pestaggio e i continui insulti dei fascisti, nelle piazze come in Parlamento, non scalfirono la sua volontà di resistere alle prevaricazioni mentre la sinistra, ormai divisa in tre partiti, era sempre più debole. Le elezioni politiche del 1924, celebrate con la Legge Acerbo nella più completa illegalità favorita dalle autorità di pubblica sicurezza, dalla magistratura e dalla debolezza di Vittorio Emanuele III, difensore di Mussolini più che delle garanzie dello Statuto Albertino, furono l’inizio della fine per l’Italia liberale e per ciò che rimaneva delle forze antifasciste, in grandissima maggioranza d’idee repubblicane.
Fu l’inizio della fine sia per Matteotti, che denunciò il clima in cui si erano svolte le elezioni chiedendone l’annullamento in un celebre discorso il 30 maggio 1924, che gli costò la vita il 10 giugno, quando fu rapito e ucciso dai fascisti. Sia per Gobetti che, indignato per la sorte riservata a Matteotti, critico verso il ritiro sull’Aventino delle loro coscienze da parte delle opposizioni, tentò con la creazione dei Gruppi della Rivoluzione Liberale di promuovere un’azione politica più incisiva.
Dopo aver fondato un altro periodico, «Il Baretti», che aveva affiancato all’omonima casa editrice fondata nel 1923, anno del suo matrimonio con l’amata Ada Prospero, Gobetti sarebbe stato a sua volta vittima della violenza fascista. Scelto l’esilio, morì a Parigi per le conseguenze di un pestaggio il 16 febbraio 1926 appena due giorni dopo l’arrivo, lasciando Ada e il figlio Paolo appena nato. Ma lasciò ai posteri anche un’importante eredità politico-culturale, che avrebbe dato i suoi frutti negli anni successivi, fino alla vittoria sul fascismo.
Un altro antifascista, convinto repubblicano, anch’egli allievo di Salvemini e in stretti rapporti con Gobetti, si sarebbe battuto fino alla morte contro Mussolini: Carlo Rosselli. Teorico del socialismo liberale, sarà assassinato in Francia il 9 giugno 1937 insieme al fratello Nello. L’omicidio di Matteotti influenzò notevolmente le scelte di vari esponenti del mondo politico-culturale ostili al fascismo e alla monarchia sabauda, a cominciare proprio da Salvemini, Gobetti e Rosselli, senza dimenticare Parri, Giovanni Amendola e gli altri leader del PSU Turati, Treves e Modigliani, nel 1926 (dopo le leggi “fascistissime”) costretti all’esilio in Francia come numerosi altri esponenti del movimento operaio. Tra questi Nenni, uscito dal PRI nel 1921 ed entrato nel PSI, ma anche esponenti cattolici (Sturzo e Donati) e repubblicani tra cui Facchinetti, Pacciardi, Angeloni (ucciso durante la Guerra civile spagnola), Egidio Reale, Mario Bergamo, Eugenio Chiesa e Chiostergi.
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Il 17 giugno e il 1° luglio 1924, Gobetti pubblicò due articoli su Giacomo Matteotti che, al di là del ricordo di Turati, rappresentarono non soltanto un omaggio al martire antifascista ma un primo profilo biografico. Nel primo articolo Gobetti, tra l’altro, scrisse che Matteotti era
«l’oppositore più intelligente e più irriducibile tra i socialisti unitari, il più giovane d’anni e d’animo […] uno spirito troppo aristocratico per avere la notorietà degli altri capi del socialismo. Alle facili questioni di metodo e di tendenza aveva preferito la dura preparazione nei problemi economici e finanziari. Anche col fascismo voleva fare questione di dati e di documenti. Non avrebbe mai potuto commuovere un pubblico popolano: la sua voce precisa e nervosa, un poco velata, pareva fatta per l’assemblea parlamentare, per le denunce specifiche, per le accuse inesorabili».
E ancora, preoccupato per l’atteggiamento conciliante verso Mussolini da parte di alcuni vertici riformisti della CGdL:
«lo ricordo persecutore dei collaborazionisti e dei dubbiosi del suo partito; col suo sguardo penetrante di dignità superiore incuteva timore e soggezione». Quindi una considerazione sulle sue caratteristiche personali: «Matteotti non era dotato delle qualità decorative che quasi sempre si trovano in un capo, ma ne possedeva l’energia, l’inflessibilità, il fascino personale».
Il secondo articolo su Matteotti, basato anche sulla testimonianza di Aldo Parini e sulle informazioni pervenute da Gastone Costa, entrambi socialisti, che conoscevano Matteotti fin dagli anni Dieci, risultò molto più lungo e approfondito del precedente. Carlo Rosselli lo commentò in una lettera: «carissimo, il tuo articolo mi ha commosso profondamente. È un miracolo di penetrazione psicologica e il più bel monumento alla memoria di Matteotti. Bisogna fare migliaia di opuscoli popolari».
Un tema centrale, per Gobetti, era la Grande guerra e, in particolare, il neutralismo e il pacifismo integrale incarnati da Matteotti. Gobetti scrisse che «difendere la neutralità poteva essere la difesa di un errore», ma aggiunse che Matteotti aveva capito che la guerra sarebbe stata «lunga, difficile, disastrosa anche per i vincitori». Il militante socialista prima era stato accusato di disfattismo e punito dalle autorità, poi i nazionalisti e i fascisti avevano strumentalizzato la sua posizione in modo indegno. Gobetti, nell’articolo, chiarì il senso delle opinioni espresse da Matteotti.
«La protesta contro la guerra come violenza non era disfattismo, ma un atto di fede ideale: bisogna saper vedere in Matteotti, giurista, economista, amministratore, uomo pratico, queste pregiudiziali di disperata utopia, di assoluto idealismo, di reazione assurda contro la grettezza filistea dei falsi realisti […]. Matteotti non disertava, non si nascondeva, accettava la logica del suo “sovversivismo”, le conseguenze dell’eresia e dell’impopolarità: era, contro la guerra, un “combattente” generoso».
E, ancora sulla personalità e sull’atteggiamento tenuto anche verso i compagni:
«per la sua energia eccessiva, invadente, per il suo spirito critico lo accettavano senza troppo entusiasmo; il suo disprezzo per il quieto vivere e per le abitudini di sopportazione gli alienava i tanti furbi che se ne sentivano umiliati: lo accusavano di ambizione, non lo capivano […]. Anche di questa apparente arroganza e severità la spiegazione è nella sua ascetica solitudine. La sua difficoltà di conoscere le persone e di essere conosciuto per quel che valeva rientrano in un austero culto del silenzio, in una ferrea sicurezza di sé».
Quello di Matteotti, sempre attento al pluralismo connaturato con la democrazia, era un tipo di socialismo antidogmatico, pragmatico ma non rinunciatario. Scrisse Gobetti:
«Tra il 1919 e il 1921, con le masse insofferenti, Matteotti esigeva che si lasciasse libertà di parola a qualunque avversario, altrimenti non interloquiva, ritenendo che si fosse recata offesa a lui […]. Non ostentava presunzioni teoriche: dichiarava candidamente di non aver tempo di risolvere i problemi filosofici perché doveva studiare bilanci e rivedere i conti degli amministratori socialisti. E così si risparmiava ogni sfoggio di cultura» [….]. Egli fu forse il solo socialista italiano (preceduto nel decennio giolittiano da Salvemini) per il quale riformismo non fosse sinonimo di opportunismo. Accettava da Marx l’imperativo di scuotere il proletariato per aprirgli il sogno di una vita libera e cosciente […]. Ma la sua attenzione era poi tutta a un momento d’azione intermedio e realistico: formare tra i socialisti i nuclei della nuova società: il comune, la scuola, la cooperativa, la lega».
Sulla rivoluzione, non armata né ispirata alle posizioni dei bolscevichi russi, difesa in modo un po’ diverso dai socialisti massimalisti e dai comunisti:
«la rivoluzione avviene in quanto i lavoratori imparano a gestire la cosa pubblica, non per un decreto o per una rivoluzione quarantottesca […] troppo intento alla difesa presente dei lavoratori, Matteotti non aveva tempo per le profezie».
Era però animato da una sorta di riformismo rivoluzionario, cioè per lui democrazia e socialismo non erano certamente sinonimi. Si poteva collaborare per il raggiungimento di obiettivi parziali, ma le finalità di democratici, cattolici e socialisti non potevano essere confuse.
E sul fascismo, nella parte finale dell’articolo, Gobetti scrisse:
«Matteotti vide nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo agrario, come cortigianeria servile degli spostati verso chi li pagava; come medioevale crudeltà e torbido oscurantismo verso qualunque sforzo dei lavoratori volti a raggiungere la propria dignità e libertà […]. Sentiva che per combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorreva opporgli esempi di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo […]. Rimane il suo volume: Un anno di dominazione fascista, un atto d’accusa completo, fatto alla luce dei bilanci, e insieme una rivolta della coscienza morale. E fu Matteotti a stroncare, non appena se ne parlò, ogni ipotesi collaborazionista della Confederazione del Lavoro: non si poteva collaborare col fascismo per una pregiudiziale di repugnanza morale, per la necessità di dimostrargli che restavano quelli che non si arrendono».
Un ritratto efficace, che avrebbe rappresentato uno dei lasciti di Gobetti, un’altra vittima del fascismo come i fratelli Rosselli, Giuseppe Di Vagno, Don Minzoni, i tantissimi civili e i militari morti nelle guerre fasciste o per le rappresaglie nazifasciste durante la Resistenza.
Il 9 novembre 1926, quattro giorni dopo l’approvazione delle leggi “fascistissime”, i 123 deputati dell’opposizione antifascista furono dichiarati decaduti dalla carica, compresi i comunisti che avevano ripreso i lavori in aula. Gobetti era morto in Francia il precedente 16 febbraio, in conseguenza di un violento pestaggio dei fascisti. La stessa sorte era stata riservata il 7 aprile a Giovanni Amendola, democratico, principale animatore dell’Aventino.
Carlo Rosselli, fondatore del movimento Giustizia e Libertà nel 1929 con Lussu e altri antifascisti in esilio tra cui Tarchiani, Salvemini, Francesco Fausto Nitti e Cianca, come già accennato fu ucciso dai fascisti nel 1937 in Francia. La loro lezione non fu dimenticata.
Anche la lotta intransigente di Matteotti non fu dimenticata, tra gli antifascisti in esilio e tra quelli in carcere che, al fianco di migliaia di civili ed ex militari, animarono la Resistenza armata al nazifascismo nel biennio 1943-1945 e fondarono la democrazia. Le sue radici risiedono nella Costituzione repubblicana, scritta dai rappresentanti di tutte le forze antifasciste che lottarono per la libertà, nel nome di Matteotti, Gobetti, Rosselli e di tutti gli antifascisti, per lo più fautori della Repubblica, caduti per la libertà.