Ferruccio Parri

Francesco Albertini

Enzo Enriques Agnoletti

La nascita della FIAP
Nella serata del 25 aprile 1945 Ada Gobetti scriveva che, dopo la Liberazione, la lotta politica nell’Italia post-fascista non sarebbe stata «un unico sforzo, non avrebbe più avuto come prima, un suo unico inimitabile volto; ma si sarebbe frantumata in mille forme, in mille aspetti diversi». La profezia di Gobetti si sarebbe rivelata giusta: tra il 1945 ed il 1947, con lo scoppio della Guerra fredda, i partiti antifascisti, una volta uniti, si ritrovarono su due versanti opposti, egemonizzati dai rispettivi riferimenti internazionali: Stati Uniti e Unione Sovietica.

Quel destino non riguardò soltanto le forze politiche, ma anche le associazioni combattentistiche. Costituita nel 1944, tre anni dopo l’ANPI era scossa da profonde divisioni, riconducibili agli schieramenti politici degli ex partigiani. In un’associazione egemonizzata dalle sinistre social comuniste, per coloro che si rifacevano agli ideali di Giustizia e Libertà gli spazi erano sempre più angusti.

Agli inizi del 1948, gli ex combattenti cattolici avevano deciso di abbandonare l’ANPI e di fondare la Federazione italiana dei volontari per la libertà. Per Ferruccio Parri, leader degli ex partigiani azionisti, era giunto il tempo delle scelte. Un momento decisivo si verificò il 25 aprile 1948, durante la manifestazione nazionale di Milano. “Maurizio” venne «fischiato» e costretto ad «abbandonare il podio» da cui stava parlando: buona parte degli iscritti dell’ANPI non aveva accettato che Parri avesse toccato la questione della «speculazione tentata da qualcuno del movimento partigiano».[1]

Come scrisse a Giulio Alonzi, suo “luogotenente”, i fatti di quella giornata confermano l’avvio della scissione, che però doveva essere ricondotta alla «politica dell’ANPI», responsabile di aver «offeso una larga parte dei partigiani, facendo della loro organizzazione uno strumento del PCI e del Fronte popolare». Non solo: per Parri, in vista dell’ormai prossima costituzione della nuova associazione, gli ex combattenti azionisti avrebbero dovuto fissare quale loro “dogma” «la fede nella libertà, incompatibile con ogni regime di tipo totalitario».[2]

Neppure Arrigo Boldrini, il mitico comandante Bülow e ora presidente dell’ANPI, riuscì a sanare la frattura con la componente azionista. Il 2 dicembre Parri spiegava ai suoi che era arrivato il tempo di fondare una nuova associazione, anche «per evitare ulteriori ritardi e troncare ogni situazione di incertezza». Venne così convocata una riunione in cui venivano fissati dei punti dirimenti da discutere: l’organizzazione formale del movimento», l’organizzazione assistenziale», così come l’«organizzazione nazionale degli studi storici della Resistenza».[3]

Se i primi due aspetti rientravano nelle decisioni classiche che un movimento partigiano avrebbe dovuto assumere e che per certi versi erano già stati avviati con la costituzione di alcuni enti nell’immediato dopoguerra, il terzo scopo raffigurava un progetto cui Parri aveva già iniziato a lavorare nel corso della sua breve permanenza alla Presidenza del Consiglio: proprio in quei mesi, infatti, aveva messo a punto la raccolta della documentazione relativa alla guerra partigiana.

Anche se bisogna ammettere che non tutti gli ex combattenti azionisti, per esempio il torinese Giorgio Agosti, parevano convinti della bontà del progetto di Parri, la loro maggioranza si ritrovò a Milano il 9 gennaio 1949: a seguito di un breve dibattito aperto da Parri, venne ufficialmente costituita la Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane. Dopo aver stabilito la sede ufficiale a Milano in corso Concordia, il convegno elesse Presidente per acclamazione Parri, Giulio Alonzi alla vicepresidenza, Michele Bellavitis segretario nazionale e Renzo Biondo, Raoul Bombacci e Nello Niccoli quali altri componenti della giunta esecutiva.

Come riassumere le posizioni della FIAP in questa fase primordiale della sua storia?

Prima di tutto, se osserviamo la risoluzione votata dai fondatori, gli ex combattenti azionisti dichiaravano di volersi distanziare da alcune scelte discutibili operate negli ultimi mesi della guerra partigiana, sostenendo che il «primo requisito» degli «iscritti» sarebbe dovuto «essere [quello della] moralità nella vita privata e pubblica». Inoltre, la FIAP si prefigurava di attualizzare lo spirito che aveva animato le forze resistenziali, così da evitare che potessero verificarsi «situazioni parafasciste o paracomuniste, sempre necessariamente totalitarie».[4]

In secondo luogo, a differenza dell’ANPI, la FIAP nasceva come associazione federalista: proprio perché intenzionati a permettere la convivenza al suo interno di associazioni e circoli locali di varia natura, Parri e i suoi decisero di dotare gli organismi locali di una buona autonomia per quel che riguardava le funzioni amministrative e decisionali. Questa era però una scelta di natura anche economica: date le scarse disponibilità finanziarie dell’associazione, che non poteva contare né sul sostegno di un partito di riferimento né sui contributi statali visto che non era stata riconosciuta quale ente morale, si trattava di sopperire alla mancanza di mezzi con l’entusiasmo dei suoi militanti, che in effetti fin dal principio cercarono di tenere viva la fiammella del combattentismo azionista.

[1] Scontri a Milano fra polizia e partigiani, “La Stampa”, 26 aprile 1948.

[2] Lettera di Ferruccio Parri a Giulio Alonzi, Roma, 6 maggio 1948…

[3] Lettera di Ferruccio Parri, Milano, 2 dicembre 1948…

[4] Così citato in Andrea Becherucci…

A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, il clima politico nel nostro paese iniziò a rasserenarsi. La fase più cupa della Guerra fredda lasciava spazio a maggiori possibilità di dialogo tra i partiti. A differenza di quanto avvenuto nel 1955, quando le organizzazioni combattentistiche non erano state coinvolte nelle manifestazioni per il Decennale della Resistenza, nel 1958, in occasione del decimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione, la Presidenza del Consiglio decise di estendere gli inviti anche alle «rappresentanze» delle «Associazioni partigiani».[1]

Come è spesso avvenuto nelle transizioni politiche dell’Italia post Seconda guerra mondiale, i cambiamenti ebbero bisogno di tempo per maturare. Di conseguenza, visto e considerato l’atteggiamento democristiano sul finire degli anni Cinquanta, fatto di prime aperture a sinistra ma anche di alcuni avvicinamenti al Msi, Parri decise di proporre la costituzione dei Consigli federativi della Resistenza: a suo avviso, avrebbero dovuto conferire la giusta centralità all’epopea partigiana nella lunga storia italiana.

Malgrado l’evidente propensione culturale, i Consigli federativi si trovarono coinvolti nelle vicende politiche dell’estate del 1960. Di fronte all’autorizzazione concessa al Msi per tenere il proprio congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, “Maurizio” e la Fiap non ebbero alcun dubbio sull’atteggiamento da tenere: si doveva scendere in piazza, sotto l’egida dei Consigli federativi della Resistenza, e affiancarsi agli altri centomila manifestanti. Bisognava battersi contro quelle forze, a partire dal Msi, che erano in netto «contrasto con la […] Repubblica» e con il contenuto della «Carta costituzionale».[2]

Oltre alla vitalità della Resistenza, gli avvenimenti dell’estate del 1960 dimostravano un altro aspetto: condiviso dal vasto panorama dei militanti delle organizzazioni partigiane e dei principali partiti politici, l’antifascismo era diventato il fulcro simbolico di un sistema politico che escludeva in modo drastico la destra neofascista. Con l’arrivo al potere del centro-sinistra il processo di legittimazione della Resistenza divenne esplicito.

Dopo che Scelba nel 1955 aveva deciso di escludere le organizzazioni partigiane dalle celebrazioni per il decennale, all’inizio degli anni Sessanta le associazioni partigiane vennero finalmente coinvolte nell’organizzazione delle celebrazioni per i vent’anni dalla Liberazione. Costituito per volontà del presidente della Repubblica Antonio Segni «un Comitato nazionale per la celebrazione del ventennale della Resistenza, con il compito di preparare e di organizzare le manifestazioni celebrative sul piano nazionale»,[3] Parri, e con lui la Fiap, ebbe un ruolo di primo piano in quella ricorrenza.

Al netto delle due celebrazioni maggiormente significative, quelle tenutesi, sempre a Milano, il 25 aprile con il tradizionale corteo da corso Venezia a piazza Duomo segnato dall’unità di tutte le forze politiche «che combatterono il fascismo»,[4] e il 9 maggio, quando all’adunata delle forze armate presero parte anche le «forze partigiane che parteciparono alla Resistenza»,[5] il carattere prettamente nazionale delle attività previste si evidenziò da due episodi specifici. In primo luogo, dalla cerimonia alle Fosse Ardeatine; in secondo, dalla trasmissione in diretta televisiva di un intervento di Parri in cui venne sottolineato soprattutto «lo sforzo autonomo di liberazione», un fatto «insieme popolare e nazionale», che tutti i cittadini italiani dovevano considerare alla stregua del «grande valore storico» della stagione resistenziale.[6]

Organizzato da soggetti dalla molteplice natura – il governo, la presidenza della Repubblica, le associazioni partigiane – il Ventennale della Resistenza dimostrò l’avvenuto superamento, nell’Italia degli anni Sessanta, di quella concezione che tendeva ad equiparare l’antifascismo al comunismo. Certo, il contesto era sicuramente migliorato. Ma non bisognava abbassare la guardia: la memoria storica della Resistenza doveva essere protetta, anche sconfessando quelle «generiche celebrazioni», come ad esempio «le visite ai cimiteri di guerra italiani in Grecia e in Africa», che di fatto unificavano «in una stessa cerimonia valori simbolici del tutto diversi come quelli relativi a guerre di conquista […] e alla nascita della resistenza popolare antifascista».[7]

[1] Lettera della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 17 febbraio 1958, in AINFP, FFN, s. 13 – Celebrazioni e commemorazioni, fasc. 7.

[2] Lettera della Segreteria nazionale, Roma, 28 luglio 1960, in AINFP, FFN, s. 7 – Corrispondenza, fasc. 11.

[3] Legge 12 marzo 1964, n. 128. Celebrazione nazionale del ventennale della Resistenza, in: http://www.normativait/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1964-03-12;128@originale (ultima consultazione il 9 maggio 2018).

[4] Possenti manifestazioni unitarie esaltano i valori della Resistenza, “L’Unità”, 26 aprile 1965.

[5] Lettera di Luigi Meda, Milano, 25 marzo 1965, in AINFP, FFN, s. 13 – Celebrazioni e commemorazioni, fasc. 8.

[6] Gli altri comizi, “Avanti!”, 27 aprile 1965.

[7] Una iniziativa di dubbio gusto, “Avanti!”, 5 maggio 1965.

A causa di una salute che iniziava a diventare malferma e dell’intenzione di volersi dedicare con la massima attenzione alla sua nuova creatura, la rivista “Astrolabio”, Ferruccio Parri decise di dimettersi dalla presidenza della FIAP nel febbraio 1969. Al vertice della Federazione venne così eletto Francesco Albertini, socialista di lungo corso, ex internato a Mauthausen, oltreché, sul finire degli anni Sessanta, sottosegretario con delega ai rapporti con il Parlamento del primo governo Rumor.[1]

Perché scegliere un profilo così diverso rispetto a Parri come quello di Albertini? Per due ragioni. Prima di tutto, per poter dotare la FIAP di «agganci politici», dei quali, come ammesso peraltro da Parri, «qualche volta» si aveva «purtroppo bisogno».[2] Al tempo stesso, significava anche rivedere il profilo della stessa Federazione, orientandola verso un più deciso impegno nel dibattito politico, pur senza legarsi ad alcun partito.

Il nuovo orientamento della FIAP trovò conferma negli esiti del VI Congresso nazionale, che si svolse a Milano dal 31 marzo al 3 aprile 1973. Nel pieno dell’escalation della “strategia della tensione”, la Federazione decise di presentarsi non come un’associazione combattentistica ormai incline «al reducismo», bensì come un soggetto che, muovendo dalla «difesa della Resistenza», contribuisse a fare luce sui pericoli rappresentati dalla svolta autoritaria, i cui esempi potevano essere visti nei vicini «casi della Grecia e della Spagna».[3]

L’attentato di piazza della Loggia a Brescia e altre stragi riconducibili all’eversione neofascista – su tutte la bomba che esplose sul treno Italicus nell’agosto del 1974 – avrebbero influenzato le posizioni ufficiali assunte dalla FIAP alla metà degli anni Settanta. Nel VII Congresso nazionale, che si svolse a Modena nel maggio 1976, la Federazione si propose di salvaguardare la «nostra democrazia» attraverso un rafforzamento del legame che univa le forze politiche dichiaratamente antifasciste: ciò sarebbe potuto avvenire non soltanto avvicinando i «comunisti all’area di governo», ma favorendone l’«ingresso».[4]

Questo tipo di posizione pubblica, che chiariva in maniera molto netta l’orientamento della FIAP, faceva emergere tra le fila della Federazione due tendenze contrapposte sul possibile riavvicinamento con le altre associazioni partigiane. Da un lato, coloro che si riconoscevano nelle posizioni di Albertini, supportato anche da Renzo Biondo,[5] ritenevano fosse corretto accettare le trasformazioni accorse nello scenario internazionale nel corso degli anni Sessanta-Settanta e, proprio per questa ragione, fare della FIAP la principale promotrice di un «accordo federativo con l’ANPI».[6] Dall’altro, coloro che, come Francesco Berti Arnoaldi, ritenevano che la posizione di Albertini potesse venire confusa come una semplice confluenza della FIAP «nell’ANPI» e che perciò sarebbe stata da evitare: al massimo, agendo solo sul piano della pressione politica, la FIAP avrebbe dovuto prima di tutto realizzare «il rincontro storico di forze [che] nella Resistenza si [erano] già incontrate».[7]

Come evitare che quel contrasto potesse sfociare in una scissione tra gli ex combattenti azionisti? Prima di tutto, sempre nel Congresso di Modena, venne approvata una mozione che autorizzava la ricerca di un «contatto [immediato] con l’ANPI e con altre organizzazioni resistenziali ed antifasciste […] per concordare le strutture federative attualmente possibili», così da preservare comunque «l’autonomia della FIAP fino al conseguimento dell’obiettivo unitario».[8] In secondo luogo, si procedette a sostituire l’uscente Albertini con Enzo Enriques Agnoletti, uno tra i maggiori dirigenti del PdA a Firenze, combattente per la liberazione e tra i massimi esponenti del PSI toscano.  L’avvicendamento di Albertini con Enriques Agnoletti raffigurava una chiarificazione dell’orientamento della FIAP: il neopresidente, che non aveva mai nascosto la propria fedeltà ai valori dell’azionismo, personificava il legame tra la Federazione e l’esperienza di GL, che non poteva essere in alcun modo sacrificata sull’altare dell’unità partigiana.

Pur non rinunciando all’autonomia della FIAP, Enriques Agnoletti operò per ribadire la tradizione unitaria della Resistenza, specialmente «dopo che il fascismo» aveva «tentato con la violenza, con le stragi, con la strategia della tensione, e le complicità negli apparati dello stato, di scardinare le istituzioni democratiche». Di conseguenza, nello scenario degli anni Settanta, la FIAP intendeva adoperarsi per realizzare una «comune piattaforma per chiedere al governo, a qualunque governo, al parlamento, agli organi dello stato, quelle profonde riforme» necessarie per mettere «al sicuro il paese dagli attacchi eversivi».[9]

Di conseguenza, la FIAP decise di agire da sostegno esterno alla formula della “solidarietà nazionale” ideata, su ispirazione di Enrico Berlinguer e Aldo Moro, per difendere la democrazia minacciata dal terrorismo politico. Proprio di fronte all’attacco portato “al cuore dello stato”, ossia il rapimento (16 marzo 1978) e l’uccisione (9 maggio 1978) di Moro per mano delle Brigate rosse, l’atteggiamento della FIAP volto a salvaguardare l’unità dei partiti antifascisti raggiunse il suo apice. A Torino, nel corso delle celebrazioni ufficiali del 25 aprile, Enriques Agnoletti spiegò che bisognava «fare di tutto» per salvare Moro, ma che non si poteva scendere a compromessi con le Brigate Rosse: coloro che provenivano «dalla Resistenza» ben sapevano «che a volte» era «necessario – per salvare l’avvenire – sacrificare il presente».[10]

[1] Cfr. Lettera di Lamberto Mercuri a Carlo Ludovico Ragghianti, Roma, 17 marzo 1969, in AINFP, FFN, s. 2 – Consiglio federale, fasc. 8.

[2] Trascrizione dattiloscritta con nota a penna del discorso di [Parri] sulla struttura della Fiap, cit.

[3] VI Congresso Nazionale FIAP. Circolare n° 2, Roma, 20 febbraio 1973, in AINFP, FFN, s. 8 – Congressi nazionali, fasc. 9.

[4] Discorso di Francesco Albertini, s.l., s.d., in AINFP, FFN, s. 5 – Congressi nazionali e interregionali, fasc. 11.

[5] Discorso di Renzo Biondo, s.l., s.d., ibidem.

[6] Discorso di Francesco Albertini, cit.

[7] Discorso di Francesco Berti Arnoaldi, ibidem.

[8] Mozione approvata, ibidem.

[9] E. Enriques Agnoletti, Nella tradizione della Resistenza, “Lettera ai compagni”, a. VIII, n. 6, giugno 1976, p. 1.

[10] 25 aprile. Manifestazione di volontà e forza, “Lettera ai compagni”, a. X, n. 5/6, maggio-giugno 1976, p. 2.

Nel 1979 Bettino Craxi, segretario del Psi da tre anni, lanciò il progetto della “grande riforma”, con l’obiettivo di fondare una nuova Repubblica che avrebbe dovuto dotare il paese delle strutture adeguate per procedere ad una sua vasta modernizzazione. Per dirla con Giuliano Amato, si trattava di portare a termine «l’elezione diretta del presidente della Repubblica», così da creare «una figura che nonostante le coalizioni alternative» avesse avuto «una legittimazione nazionale».

Ad opporsi al disegno craxiano fu soprattutto il Partito comunista, che aveva storicamente legato la propria legittimazione democratica alla difesa della Resistenza e dell’assetto istituzionale da essa prodotto attraverso la Costituzione. La polemica sulla “grande riforma”, comunque da contestualizzare nel vasto scontro a sinistra sviluppatosi tra Psi e Pci nel corso degli anni Ottanta, finì per avere degli effetti dirompenti sulla memoria della Resistenza e sulla stessa unità dell’antifascismo. Ciò avvenne malgrado il ruolo centrale avuto da entrambi i partiti nell’edificarla e nonostante l’arrivo al Quirinale di Sandro Pertini, un vero e proprio Resistance President.

Lo scontro in atto tra Psi e Pci non poteva che riverberarsi anche sulla Fiap, specialmente considerate le posizioni della Federazione a favore dell’unità politica delle forze antifasciste nell’ottica della lotta al terrorismo.[1] Per il presidente Enzo Enriques Agnoletti, come per gli altri massimi dirigenti della Federazione, era un errore il varo, con l’arrivo del 1980, delle coalizioni governative di pentapartito (Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli). Anche a causa di queste divergenze politiche, Eneiques Agnoletti ed altri dirigenti socialisti di provenienza azionista, tra cui Tristano Codignola, furono espulsi dal Psi, scatenando un’ondata di polemiche nel partito.

Tenuto conto del rapporto comunque solido che si era costruito tra la Fiap e il mondo socialista, l’espulsione di Enriques Agnoletti, di Codignola e di altri esponenti del Psi fu davvero un momento di cesura per la storia della stessa Federazione. A ben vedere, le distanze tra la Fiap e il gruppo dirigente del Psi emergevano anche dinanzi al rapporto da tenere nei confronti del Movimento sociale italiano. Se per la Federazione presieduta da Enriques Agnoletti qualsiasi contatto sarebbe stato da evitare, alcuni rappresentanti del partito di Craxi, così come di altri partiti dichiaratamente antifascisti, presenziarono ai lavori del XIV Congresso nazionale del Msi, svoltosi a Roma nel novembre-dicembre 1984. Secondo la Fiap si era così verificata non solo la concessione di credito nei confronti di quel movimento, bensì «un’ulteriore prova della progressiva liquidazione della barriera tra forze dell’arco costituzionale e altre forze». In pratica, nell’aria si poteva cogliere «uno strisciante […] marcato revival fascista». [2]

A destare preoccupazione non fu, però, soltanto l’apertura nei confronti del Msi operata da Craxi. Fu anche la decisione del governo, guidato sempre dal leader socialista, di procedere alla scarcerazione anticipata di Walter Reder, l’ex ufficiale delle Ss che guidò il massacro di civili a Monte Sole (o strage di Marzabotto),[3] a generare sconcerto. Per la Fiap non si trattava soltanto del tentativo di «cancellare la distinzione tra chi era dalla parte della storia, della ragione […], e chi barbaramente cercava di cancellare e stravolgere ogni valore che rende la vita degna di essere vissuta». [4] Semmai, si era nel pieno dell’operazione che aveva lo scopo di indebolire il legame che univa la memoria con la politica dell’antifascismo.

Come rispose la Fiap a queste nuove tendenze?

Da un lato, continuò a partecipare alle celebrazioni ufficiali, ad esempio a quelle in occasione del quarantennale della Liberazione, che però si svolse “al ribasso”. Se nel 1965 e nel 1975 erano stati approvati degli specifici provvedimenti con lo scopo di sostenere finanziariamente ed organizzativamente le manifestazioni celebrative, nel 1985 non venne votata alcuna legge ad hoc, come rilevato opportunamente da “Lettera ai compagni”. [5]

Al tempo stesso, la Fiap promosse l’organizzazione «di discussione e di dibattito» allo scopo di «suscitare l’interesse e il consenso delle nuove generazioni». [6] Tra le varie iniziative assunte, deve essere ricordato il convegno, tenutosi a Bologna nel marzo del 1984, sulla vicenda del Partito d’azione dalle origini alla resistenza armata, da cui poi sarebbero stati pubblicati gli atti che ancora oggi rappresentano un contributo importante per chiunque intenda approcciarsi a questi campi di studio. Altrettanto indicativa della capacità della Fiap di interagire con la comunità scientifica, specialmente quella porzione che lavorava nell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, fu la predisposizione del volume che conteneva i documenti prodotti dalle formazioni di Gl nel corso della guerra partigiana. Anche se la Fiap dovette sostenere praticamente in solitudine il peso finanziario dell’operazione, Enriques Agnoletti, come scrisse nella prefazione, decise di appoggiare comunque la ricerca perché il volume avrebbe rappresentato una risposta alle «tesi di indifferentismo, quasi di parità tra le parti», emerse «nel quarantesimo anno della Liberazione». [7] Considerate le posizioni sostanzialmente revisioniste emerse anche nel Psi, il ragionamento di Enriques Agnoletti pareva anche una risposta indiretta proprio al nuovo atteggiamento socialista nei confronti della stagione resistenziale.

Al di là di questi aspetti, fondamentali per comprendere l’atteggiamento della Federazione, deve essere ricordato un ultimo aspetto. Nel 1986, dopo la scomparsa di Enriques Agnoletti, come nuovo presidente venne eletto Aldo Aniasi. Scegliere il già comandante “Iso”, sindaco di Milano dal 1967 al 1976, nonché ex ministro della sanità dal 1980 al 1981, aveva un significato ben preciso: voleva dire affidare la guida della Fiap ad una figura che aveva più volte affermato la propria intenzione «di preservare l’autonomia e l’indipendenza dell’associazione». [8]

[2] Ampia riflessione nel Paese per il 40° della Liberazione, ivi, a. XVI, n. 13, dicembre 1984, p. 1.

[3] La posizione ufficiale della FIAP in La coscienza non può essere tacitata dalla ragion di stato, ivi, a. XVII, n. 1, gennaio 1985, p. 1-8.

[4] Ricordiamo degnamente il 40°, ivi, a. XVII, n. 1, gennaio 1985, p. 2.

[5] Manca un’iniziativa ufficiale di largo respiro, ivi, a. XVII, n. 4, aprile 1985, p. 1.

[6] Relazione sull’attività della FIAP (1984) e sull’attività che si terrà nel corso del 1985, Roma, 9 maggio 1985, in AINFP, FFN, s. 7 Corrispondenza, b. 45, fasc. 35.

[7] E. Enriques Agnoletti, Documenti sulla guerra di popolo, in G. De Luna et al. (a cura di), Le formazioni GL nella Resistenza: documenti settembre 1943-aprile 1985, Franco Angeli, Milano, 1985, p. 13.

[8] Lettera di Oreste Gementi, Milano, 18 novembre 1986, in AINFP, FFN, s. 7 Corrispondenza, b. 46, fasc. 36.

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