EPISODIO 12 – GIACOMO MATTEOTTI E BENITO MUSSOLINI

Progetto: Matteotti e gli altri

Podcast: Rivoluzionari

Calssificazione: Contenuti adatti a tutti

Stagione: 3

Numero dell’episodio: 12

Tipo di episodio : Completo

 

Il podcast è ambientato in una classe liceale e, attraverso il dialogo tra una docente e alcuni studenti, affronta le tappe fondamentali delle vite di Matteotti e Mussolini, di cui si utilizzano brani di articoli e discorsi.
Si va dalla comune militanza nel PSI, in correnti diverse, all’omicidio di Matteotti da parte della Ceka fascista, alle dirette dipendenze di Mussolini.  

Podcast realizzato da FIAP con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Struttura di Missione Anniversari Nazionali ed eventi sportivi nazionali ed internazionali. Scritto dallo storico Andrea Ricciardi, sceneggiato da Donatella Fiorella e Andrea Ricciardi, narrato da Edoardo Mininni, Vittorio Tosi, Laura Graziano e Donatella Fiorella; con la produzione di Gabriele Beretta.
Andrea Ricciardi

Giacomo Matteotti e Benito Mussolini

Giacomo Matteotti e Benito Mussolini sono stati acerrimi nemici, tanto che il primo fu ucciso dai componenti della Ceka fascista alle dirette dipendenze del secondo. Potrebbe sembrare curioso avvicinarne i percorsi politici e personali, ma non vanno dimenticate alcune cose importanti che, in realtà, consentono di svolgere una breve analisi comparata della loro parabola tra i primi del Novecento e il 1924. Matteotti e Mussolini fecero parte dello stesso partito, il PSI, fino alla parte finale del 1914. Inoltre, pur avendo origini del tutto differenti (borghesi il primo, più umili il secondo), entrambi ebbero molto a che fare con i braccianti e, dunque, con il proletariato agricolo, condividendo una stagione storica cruciale per la storia italiana, cioè il passaggio dall’Italia liberale a quella fascista. Matteotti nacque a Fratta Polesine, vicino a Rovigo, il 22 maggio 1885. Mussolini era di Dovia, una frazione di Predappio, in provincia di Forlì, dove nacque il 29 luglio 1883. Dunque la differenza d’età tra i due era di un paio d’anni, elemento non certo trascurabile per capire il perché, sia pure da posizioni antitetiche tra di loro, essi intercettarono le caratteristiche fondamentali di quell’epoca, ponendosi in una posizione critica rispetto alle classi dirigenti liberali del tempo, considerate inadeguate a cogliere la genesi della società di massa e il protagonismo dei giovani.

I due avevano, tuttavia, caratteri incompatibili e intrapresero un percorso formativo molto differente, che in parte spiega gli anni successivi. Matteotti si laureò in giurisprudenza a Bologna nel 1907, era un giovane intellettuale sensibile all’arte, che scelse la politica come missione ma che avrebbe potuto fare l’avvocato oppure il giurista a tempo pieno. Però non sopportava l’ingiustizia sociale e, pur non venendo dal “popolo” come molti suoi compagni, fin dall’inizio del Novecento s’impegnò per affermare i diritti dei braccianti, iscrivendosi al PSI (fino al 1912 guidato dai riformisti di Turati, Anna Kuliscioff e Treves) e collaborando con il periodico di Rovigo «La Lotta». Matteotti era un giovane determinato, puntiglioso e analitico, anche un po’ spigoloso. Tratti caratteriali che emergeranno con i compagni e, soprattutto, con gli avversari, liberali e fascisti innanzitutto. Nell’approccio alla politica fu influenzato dal fratello maggiore Matteo, militante socialista. Era molto attivo ma amava riflettere e, quindi, maturare le scelte compiute senza affidarsi soltanto alle intuizioni.   

Mussolini aveva un carattere “vulcanico”, era un giovane alquanto ribelle. Visse a lungo in collegio e ottenne il diploma magistrale nel 1901. L’anno dopo divenne maestro supplente, ma solo per pochi mesi. Emigrò in Svizzera, dove studiò il francese e il tedesco svolgendo lavori molto umili. Rientrò in Italia nel 1904 e prestò il servizio militare, visto che prima era stato condannato per diserzione. Poi riprese a insegnare e a occuparsi di politica. Ebbe come riferimento il padre Alessandro, anarchico. Già a 17 anni Mussolini si considerava socialista, era anticlericale, antinazionalista e antimilitarista. All’inizio degli anni Dieci, quando stava per diventare un dirigente di primo piano del PSI e direttore dell’Avanti!, esprimeva posizioni rivoluzionarie e anticapitaliste. Dimostrò fin da giovane un certo fiuto politico, ma il suo modo di guardare alle cose era basato più sull’istinto che sullo studio. Non si mostrava portato per approfondire gli argomenti, era molto indisciplinato ed era animato in primis dalla voglia di agire, pensando poco alle conseguenze delle sue scelte, spesso affrettate. Anche a causa di questo modo di fare poco riflessivo, durante l’Italia liberale subì diverse condanne, in sostanza era considerato dalle autorità un agitatore violento. Nell’ottobre 1911 fu arrestato perché protagonista dello sciopero generale contro il governo guidato da Giovanni Giolitti, che aveva scelto di attaccare l’Impero Ottomano per conquistare la Libia, riprendendo (senza grande convinzione) la strada interrotta del colonialismo. Mussolini rimase in carcere per cinque mesi, suo compagno di lotta in quella fase era Pietro Nenni, allora repubblicano e poi leader del PSI, in cui entrò nel 1921. 

Nel 1912 anche Matteotti era tra i più duri avversari della guerra coloniale sebbene, pur “freddo” verso alcuni atteggiamenti della corrente a lui più vicina, quella riformista, non si riconoscesse nelle posizioni dei socialisti rivoluzionari. Allora i massimalisti di Lazzari vinsero il congresso nazionale del PSI e ottennero l’espulsione dal partito di Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca mentre Mussolini divenne direttore dell’Avanti!. Il futuro duce criticava aspramente ogni tipo di riformismo e litigava costantemente con i membri del gruppo parlamentare socialista, più abituati al compromesso e meno intransigenti su diversi temi anche sindacali. 

Lo stesso Matteotti, tornando al rifiuto della guerra, era in realtà più vicino ai massimalisti che ai riformisti, pur rifiutando la rivoluzione per affermare il socialismo. La violenza non faceva parte del suo modo di fare politica, preferiva le analisi alle urla, voleva convincere con gli argomenti e non imporsi attraverso sterili slogan. Anche Matteotti ebbe guai con le autorità durante la Prima Guerra mondiale, quando fu denunciato perché era un pacifista disposto perfino alla ribellione per evitare la guerra. A causa di queste idee fu inviato in Sicilia tra il 1916 e il 1919. Subì una sorta di confino militare, dove non poté occuparsi di politica. Rimase lontano dalla moglie Velia, che sposò proprio all’inizio del 1916 e che gli diede tre figli: Giancarlo, Matteo e Isabella. Ma conobbe anche la povera gente del Sud Italia, a cominciare dai soldati semplici per lo più analfabeti. Allora si concentrò di nuovo sugli studi giuridici, il diritto fu meno importante della politica, ma egli non abbandonò mai i suoi amati libri. Questa caratteristica gli tornò utile perché, conoscendo le leggi, dava consigli preziosi ai braccianti per difendersi dai soprusi dei padroni e delle autorità, allora non proprio democratiche. 

L’abitudine allo studio gli consentì di essere un amministratore locale molto competente e attento, inflessibile con tutti, anche con gli amici. Era rigoroso e onesto, intellettualmente e materialmente. Per queste ragioni era un po’ temuto anche da vari compagni di partito. Quando arrivava nelle sedi o in una Camera del Lavoro, non tutti erano contenti e il suo soprannome, Tempesta, indicava la sua tendenza a turbare la tranquillità di chi non era per lui abbastanza attento e preparato. Anche la sua tagliente ironia lo rendeva una figura scomoda e, secondo alcuni compagni, la sua vis polemica coincideva talvolta con una scarsa predisposizione alla pazienza. Tuttavia solo così, secondo Matteotti, si poteva essere credibili e perseguire programmi realizzabili che non si traducessero in mera propaganda. Non amava i voli pindarici, conosceva la differenza tra teoria e prassi politica. La seconda era più importante della prima, anche se fino al suo assassinio non smise di richiamarsi all’ideale socialista e non rinunciò a cercare un’alternativa al capitalismo, graduale e aliena dalla violenza.  

Tornando al 1914, un anno cruciale, ad aprile Mussolini fu tra i massimalisti che vinsero il congresso nazionale del partito, ne era diventato ormai uno dei leader più influenti. Allora si scontrò con Matteotti a proposito del rapporto tra socialismo e massoneria. Mussolini chiese, con successo, che il congresso decidesse per l’espulsione dal partito dei massoni. Matteotti, invece, propose che socialismo e massoneria fossero semplicemente dichiarati incompatibili tra di loro, e su questo perse. Per questo suo atteggiamento un po’ “tiepido”, qualcuno ipotizzò che egli stesso avesse fatto parte della massoneria. Tuttavia proprio nel 1914 egli scrisse un articolo nel quale si schierò contro un blocco elettorale composto da radicali, repubblicani e socialisti riformisti, che a Rovigo voleva conquistare il Comune e la Provincia. Scrisse, in modo inequivocabile, che essi erano «amalgamati dal cemento fratellevole delle logge». In quell’anno, schierato su posizioni neutraliste, si batté contro l’ingresso dell’Italia in guerra, mostrandosi del tutto coerente con le posizioni assunte di fronte alla Guerra di Libia. Mussolini, al contrario, nel corso dell’anno cambiò improvvisamente idea. 

Com’è noto, quando scoppiò la Grande guerra, i socialisti non volevano che l’Italia vi partecipasse, come poi avvenne dal 1915 complice uno scavalcamento del Parlamento da parte di Salandra. Allora, il segretario del PSI Lazzari coniò il celebre slogan «né aderire né sabotare», che indicava il rifiuto sia della guerra, sia di ogni collaborazione con Austria-Ungheria e Germania. Matteotti era, infatti, un pacifista convinto e si era espresso per il neutralismo già l’anno prima, quando Mussolini passò improvvisamente dal pacifismo all’interventismo. Per questo fu espulso dal partito a novembre, si rifiutò di seguire la linea che era stata decisa dagli organismi dirigenti e che aveva costruito e difeso in prima persona. Aveva anche appoggiato nel giugno 1914 la Settimana Rossa, cioè le proteste e lo sciopero generale contro la guerra. Poi divenne interventista, senza rinnegare subito il socialismo, e si avvicinò ai nazionalisti, che prima aveva combattuto aspramente e che furono una delle componenti che sostenne il fascismo con cui, peraltro, si fusero nel 1923. 

Per cogliere la complessità del momento, è però opportuno ricordare che non tutti coloro che volevano entrare in guerra erano nazionalisti, tra gli interventisti c’erano anche molti democratici, come Gaetano Salvemini. A proposito della sua scelta interventista, Mussolini polemizzò nell’agosto 1914 con lo storico, ex socialista, difendendo la neutralità. Ma, già allora, egli si augurava la sconfitta degli imperi centrali non perché fosse democratico, ma perché aveva maturato un’idea di patria aggressiva, coerente con il militarismo che, infatti, dopo la guerra fu incarnato dai fascisti e si tradusse in disprezzo per la libertà, violenza, autoritarismo.

È anche opportuno ricordare qualche scritto che prova la “conversione” di Mussolini da neutralista a interventista. In un celebre articolo del 18 ottobre 1914, egli scrisse che «nell’ora più tragica della storia del mondo» i socialisti non potevano rimanere «spettatori inerti». L’articolo aveva un titolo lungo, Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante, e per molti aspetti ambiguo. Indicava l’abbandono della scelta neutralista, una svolta che sorprese e indignò i suoi compagni. Essi erano, insieme, arrabbiati e stupiti per il voltafaccia di Mussolini che, nei mesi immediatamente precedenti, aveva duramente attaccato non solo i nazionalisti ma tutti gli interventisti. Basti pensare a un altro articolo, Abbasso la guerra, pubblicato sull’Avanti! il 26 luglio 1914. Scrisse allora, tra l’altro:

«sappiamo solo, e sentiamo di poterlo dichiarare altamente, che il proletariato italiano straccerà i patti della Triplice se essi lo costringeranno a versare una sola goccia di sangue per una causa che non è sua. L’Italia, se non vuole precipitare la sua estrema rovina, ha un solo atteggiamento da tenere: neutralità assoluta. O il governo accetta questa necessità o il proletariato saprà imporgliela con tutti i mezzi».

A settembre Mussolini prima scrisse la gran parte di un duro manifesto contro la guerra approvato dalla direzione del PSI, poi chiese che la base del partito si pronunciasse sul tema. La neutralità assoluta ottenne una vittoria schiacciante. Quando, qualche settimana dopo, propose un ribaltamento della posizione (sua e del partito), orientandosi verso la guerra, era sostanzialmente isolato. Infatti si pose il problema di dar vita a un nuovo giornale, Il Popolo d’Italia, prima di essere espulso dal PSI. Fondò il quotidiano, che arrivò nelle edicole il 15 novembre 1914, da dirigente socialista. Dunque aveva pensato al progetto chiedendo soldi a chi, fino a poco prima, aveva criticato: cioè ai “borghesi”. E ai francesi, interessati a portare l’Italia in guerra al fianco dell’Intesa (cosa che avvenne dopo la firma del Patto di Londra, un accordo segreto). Mussolini cambiò idea anche sull’annessione della Dalmazia all’Italia. Quella regione era popolata in prevalenza da slavi e Mussolini aveva criticato i nazionalisti per il loro atteggiamento aggressivo, addirittura fino al 1915. 

Una posizione lontanissima da quella di Matteotti, che non ebbe tentennamenti sulla guerra, neanche dopo il tracollo italiano di Caporetto nell’ottobre 1917, quando gli austriaci sembravano sul punto di sconfiggere l’Italia. Era un pacifista, la neutralità per lui andava difesa a tutti i costi. Altri leader riformisti, come Turati e Treves, furono meno rigidi, pur senza aderire alle ragioni della guerra.

Quando Mussolini cambiò idea nel 1914, Matteotti scrisse un articolo in cui chiarì cosa pensasse della credibilità di Mussolini. Lo pubblicò su «La Lotta», le sue parole sono molto chiare e contengono anche un giudizio esplicito sull’intransigenza espressa in precedenza dal compagno di partito.

 

«Il direttore dell’Avanti!, dopo aver sostenuta la neutralità assoluta, s’è dichiarato favorevole alla guerra contro l’Austria. La Direzione del partito, riconfermando l’avversione contro ogni guerra, ne ha accettate le dimissioni. Ed è stato bene. Anzi doveva avvenire prima, se l’etichetta del rivoluzionario del Mussolini e certi suoi gesti non avessero abbacinato moltissimi. Potrebbe alcuno meravigliarsi che il predicatore delle maggiori intransigenze, della più assoluta lotta di classe, voglia ora collaborare con il piccolo padre dei russi?»

Matteotti in poche parole descrisse Mussolini e, insieme, se stesso. Cioè il suo tipo di riformismo, tutt’altro che debole ma sempre ancorato alla realtà. Ecco perché poteva dire di essere «riformista perché rivoluzionario». Attraverso le riforme, senza usare la violenza e rifiutando dogmi ideologici, secondo Matteotti si poteva lavorare per trasformare la società profondamente, andando verso il socialismo nel rispetto della democrazia, che era cosa diversa dall’Italia liberale e monarchica. 

 

«Ma non si meraviglia chi sa, come molti di questi cosiddetti rivoluzionari non siano altro che degli impulsivi momentanei, dei letterati della politica, capaci di porre come dogma assoluto per ogni luogo e tempo quello che dieci minuti dopo rinnegheranno. Purtroppo l’educazione politica è ancora un mito. E la folla preferisce innamorarsi dei Mussolini, perché trinciano l’aria col taglio più netto».

L’internazionalismo proletario rimase una priorità, anche dopo la rottura con i comunisti e la nascita del Komintern. L’attenzione per l’unità dei lavoratori e per l’internazionalismo proletario non gli impedì di immaginare un embrione di Stati Uniti d’Europa, un’idea ben poco diffusa all’inizio degli anni Venti non solo tra i socialisti. Il 19 maggio 1923 alla Camera, quando già i fascisti gli avevano ritirato il passaporto, anche se egli per viaggiare continuò a varcare le frontiere clandestinamente, disse:

 

«Sollecitiamo ardentemente con l’opera nostra, che è nazionale ed insieme, passaporto permettendo, internazionale, la formazione degli Stati Uniti d’Europa; non rimandandola insieme dopo il socialismo, ma affrettandola praticamente perché essi costituiscono un anticipo sul socialismo, un avviamento al socialismo, un riconoscimento e un affratellamento fra i diversi lavoratori di tutte le nazioni, eliminando tante deviazioni e contrasti apparentemente nazionali, ma sostanzialmente capitalistici».

 

Vale la pena di fare un passo indietro, cioè al 1919, anno dell’elezione di Matteotti alla Camera a novembre e della nascita dei Fasci di combattimento, fondati da Mussolini nel mese di marzo. Il movimento risentiva del recente passato di socialista rivoluzionario del suo leader. Nel programma vi erano proposte radicali come l’abolizione del Senato del Regno, allora di nomina regia. Ma tra le proposte più avanzate vi erano pure il suffragio universale, anche femminile, e la giornata lavorativa di otto ore. Com’è noto, queste idee non portarono fortuna a Mussolini, la sua lista non elesse alcun deputato e i socialisti, in modo affrettato, ne celebrarono il funerale politico. Mussolini rivendicava l’interventismo ed era ormai su posizioni nazionaliste, ma non riscuoteva consenso nel paese. Intanto il PSI, con la legge elettorale proporzionale, risultò il primo partito d’Italia con 156 seggi (100 andarono al PPI di Sturzo e De Gasperi, l’altro partito di massa). La sconfitta fu così cocente per Mussolini che egli, per ottenere il consenso della piccola borghesia e non “spaventare” i potenti, nel 1920 modificò il programma del movimento, identificando proprio nel «socialismo politicante» il nemico principale. Cancellò le rivendicazioni più radicali dell’anno prima, a cominciare dalla Repubblica. Sparirono anche l’abolizione del Senato, il voto alle donne e ai diciottenni. Apparve così un leader più moderato, disposto a combattere i socialisti nel rispetto della forma dello Stato, cioè la monarchia. Il risultato fu che i fascisti furono accettati dai liberali nei Blocchi nazionali, che si presentarono nelle successive elezioni del 1921. Giolitti s’illuse di normalizzare il fascismo e, in realtà, ne fu travolto con l’aiuto del re Vittorio Emanuele III. Entrarono in parlamento 35 fascisti, tra cui Mussolini, prim’ancora che il movimento si trasformasse in partito nel novembre dello stesso 1921. Gli squadristi, inneggiando al nazionalismo e sfruttando le paure figlie della rivoluzione russa dell’ottobre 1917, intensificarono la loro opera distruttiva. Il movimento socialista e le leghe cattoliche furono sconfitte dalla violenza fascista, ben vista (o tollerata) dalle autorità che avevano temuto i “rossi” e favorirono i “neri”. Con il sostegno della Corona, della magistratura e dell’esercito Mussolini prima prese la guida del governo, dopo la Marcia su Roma, alla fine di ottobre 1922. Poi, dal 1923, modificò lo Statuto Albertino fino al completamento delle leggi fascistissime, che nel novembre 1926 cancellarono ogni forma di pluralismo: politico, sindacale, dell’informazione. Nacque il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, fu reintrodotta la pena di morte, ogni piccolo spazio di manovra per le opposizioni fu cancellato. 

Matteotti, dopo le elezioni del 1921, continuò le sue battaglie dentro e fuori dal Parlamento, nelle piazze e sui giornali. I fascisti lo presero di mira sempre più spesso, già in quell’anno fu rapito, selvaggiamente picchiato, minacciato di morte e rilasciato dopo molte ore. Anche 

i rapporti tra Matteotti e i comunisti furono difficili. Inoltre, proprio all’inizio di ottobre del 1922, la rottura tra socialisti massimalisti e riformisti determinò una nuova scissione interna al movimento operaio. Dal PSI, guidato dai massimalisti di Serrati, nacque il Partito Socialista Unitario. Matteotti ne divenne segretario, fu il partito di Turati, Anna Kuliscioff, Treves, Modigliani, Prampolini. Con loro c’erano anche i vertici del sindacato, la CGdL, fondata nel 1906. E tra quei vertici c’era chi voleva collaborare con Mussolini e accettare una sorta di pacificazione nazionale che, in realtà, era una vera e propria resa al fascismo. Matteotti lo aveva capito, non si era mai fatto illusioni sui fascisti, per questo si arrabbiò moltissimo con chi voleva trattare con il duce. È per questo che apparve un po’ isolato anche nel suo partito. D’Aragona, Rigola, Baldesi e gli altri vertici riformisti del sindacato avevano altre priorità, con l’eccezione di Buozzi che, a Parigi, nel 1927 rifondò il sindacato non accettando l’autoscioglimento dopo il quale, con la rivista Problemi del Lavoro, gli ex vertici della CGdL incarnarono una sorta di sostegno critico al regime, caratterizzato da un’attenzione per il corporativismo.

Matteotti fu ucciso dopo il celebre (e ultimo) discorso alla Camera del 30 maggio 1924. Fu, quello, un attacco frontale al fascismo, in cui chiese l’annullamento delle elezioni politiche di aprile caratterizzate da violenze e brogli. La Legge Acerbo aveva modificato il sistema elettorale anche se, grazie a una forma di terrorismo anche psicologico, i fascisti avevano ottenuto il consenso di molti italiani, per lo più spaventati e spaesati. Matteotti sapeva di rischiare la vita, dopo il suo intervento del 30 maggio si rivolse ai compagni e disse: «io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me». Il 10 giugno fu rapito e ucciso da un gruppo di sicari che rispondeva direttamente a Mussolini. Lo accoltellarono. Il suo corpo, straziato, venne ritrovato il 16 agosto. Il 20 le sue spoglie furono trasportate in treno a Fratta Polesine per i funerali, lungo il percorso migliaia di persone gli resero omaggio. Matteotti, dunque, era diventato il parlamentare più scomodo per il duce, anche perché l’11 giugno avrebbe dovuto riprendere la parola alla Camera e, come anticipato ai laburisti inglesi, denunciare anche gli affari sporchi del regime, connessi con le tangenti pagate dalla Sinclair Oil per avere il monopolio delle estrazioni petrolifere in Italia. In un articolo che uscì dopo il suo assassinio sulla rivista English Life, aveva scritto: «noi siamo già a conoscenza di molte gravi irregolarità riguardanti questa concessione. Alti funzionari possono essere accusati di ignobile corruzione e del più vergognoso peculato».

Mussolini, dopo la secessione «sull’Aventino delle loro coscienze» delle opposizioni, ormai molto ridimensionate (erano 123 i deputati), attraversò un periodo di crisi. Il consenso nel paese si ridusse ma, com’è noto, Vittorio Emanuele III non intervenne e, come aveva fatto con Luigi Facta nell’ottobre 1922, si mostrò debole favorendo il consolidamento del potere mussoliniano.

Il 3 gennaio 1925, superata la crisi, il duce pronunciò un celebre discorso alla Camera, che rappresentò forse il vero inizio del totalitarismo fascista. Disse, tra l’altro: 

 

«io dichiaro qui, al cospetto di quest’assemblea, e al cospetto di tutto il popolo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità (politica! morale! storica!) di tutto quanto è avvenuto. Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato».

 

Già il 12 e il 13 giugno 1924, Mussolini aveva mentito spudoratamente alla Camera. Aveva finto di non conoscere i colpevoli dell’omicidio di Matteotti, si era mostrato preoccupato e indignato: «la polizia nelle sue rapide indagini si è già messa sulle tracce di elementi sospetti e nulla trascurerà per fare luce sull’avvenimento, arrestare i colpevoli e assicurarli alla giustizia». E il giorno dopo, prima che le opposizioni abbandonassero la Camera (ma i comunisti avrebbero ripreso i lavori al contrario dei colleghi), aveva detto: 

 

«se c’è qualcuno in quest’aula che abbia diritto più di tutti di essere addolorato e, aggiungerei, esasperato, sono io. Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione». 

 

Aveva parlato addirittura di «riconciliazione degli animi» e di «concordia nazionale», affermando però in tono minaccioso che il governo si sarebbe «difeso a qualsiasi costo da una speculazione di ordine politico». E ancora: «giustizia sarà fatta perché, come qualcuno di voi ha detto, il delitto è un delitto di antifascismo e di antinazione». Poi sul «Popolo d’Italia», il 17 giugno, aveva scritto che l’omicidio Matteotti era stato «barbaro, inutile, antifascista e si può dire, dal punto di vista politico, anti-mussoliniano».

Barbaro sì, ma per il fascismo certamente non inutile. Con la morte di Matteotti, Mussolini vide scomparire il parlamentare più ostinato e pericoloso, di cui conosceva l’intransigenza e le competenze, capaci di mettere in crisi il suo governo incentrato sulla propaganda e sulla violenza divenute ormai di Stato. Mussolini fu capace di recitare anche con Velia Titta, mostrando una naturale tendenza all’ipocrisia e un’insensibilità verso i drammi umani che ne avrebbe caratterizzato le scelte politico-militari. 

Di Matteotti rimase soprattutto il valore del sacrificio e per molti anni, nonostante i partigiani socialisti fossero stati radunati nelle brigate che portavano il suo nome, la sua vicenda politica fu molto appiattita sul suo omicidio. I suoi scritti per lungo tempo furono ben poco valorizzati, almeno fino al 1970 quando vennero pubblicati i suoi discorsi parlamentari con l’introduzione di Sandro Pertini, che da giovane aveva aderito al PSU. L’eredità di Matteotti fu, per certi aspetti, scomoda e perfino controversa, ma è innegabile che la Repubblica italiana nata dall’antifascismo e dalla Resistenza, edificata sulla Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948, sia figlia anche delle sue battaglie politiche e culturali. Oggi gli ultimi eredi del neofascismo sono alla guida del governo e ai vertici delle istituzioni. Si guardano bene dal dichiararsi antifascisti e, logicamente, in concreto evitano di confondere i propri valori con quelli di chi ha combattuto per le libertà democratiche e per il socialismo. 

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