Progetto: Matteotti e gli altri
Podcast: Rivoluzionari
Calssificazione: Contenuti adatti a tutti
Stagione: 3
Numero dell’episodio: 1
Tipo di episodio : Completo
Intervista a Giacomo Matteotti e Gaetano Salvemini, uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento, storico, educatore e docente, militante politico impegnato a rinnovare il Mezzogiorno d’Italia.
Un secolo fa le loro storie hanno viaggiato su binari paralleli, le loro vite si sono incrociate.
La loro unione ideale, paradossalmente, si rafforzò nel nome dell’antifascismo dopo la morte di Matteotti, nel 1924.
E noi partiremo proprio da quell’anno per approdare all’oggi, in un viaggio immaginario tra passato e futuro.
Podcast realizzato da FIAP con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Struttura di Missione Anniversari Nazionali ed eventi sportivi nazionali ed internazionali. Scritto dallo storico Andrea Ricciardi, sceneggiato da Donatella Fiorella e Andrea Ricciardi, narrato da Edoardo Mininni, Vittorio Tosi, Donatella Fiorella e Dario Di Stano; con la produzione di Gabriele Beretta.
Andrea Ricciardi
Giacomo Matteotti e Gaetano Salvemini
L’assassinio di Matteotti mi diede uno scossone. Mi dissi che, avessi o non avessi fiducia negli antifascisti ufficiali, era mio dovere non rendermi complice con la mia inerzia di un regime infame, come avevo fatto negli ultimi tempi. Anche ad essere solo, dovevo dire un no risoluto e pubblico a quel regime: fa’ quel che devi, avvenga ciò che può.
Sono parole di Gaetano Salvemini, grande storico, tra i più importanti intellettuali italiani del Novecento, educatore e docente, militante politico impegnato nel rinnovare a fondo il Mezzogiorno d’Italia, direttore tra il 1911 e il 1920 della rivista «L’Unità», una palestra di democrazia. Giacomo Matteotti, uomo pragmatico e determinato, era un esponente di primo piano del movimento operaio italiano, un giurista di spessore internazionale, negli anni Dieci amministratore pubblico a livello comunale e provinciale, dal 1919 parlamentare del Partito Socialista Italiano e, dal 1922, del Partito Socialista Unitario di cui divenne segretario. Salvemini, di fronte al rapimento di Matteotti e al suo brutale assassinio, capì che il fascismo non si sarebbe fermato di fronte a nulla e che Mussolini andava combattuto con più vigore, impiegando nella lotta tutte le energie possibili. Matteotti, che stava indagando sulle tangenti pagate dalla compagnia petrolifera Sinclair Oil per la concessione del monopolio della ricerca petrolifera nel sottosuolo italiano, tangenti che se rese note avrebbero molto indebolito Mussolini di fronte alla monarchia, fu assassinato dopo aver denunciato alla Camera violenze e brogli compiuti dai fascisti prima e durante le elezioni del 6 aprile 1924, di cui il 30 maggio di quell’anno chiese l’annullamento in un celebre discorso pronunciato proprio alla Camera. Dopo la sua denuncia, cosciente di essere diventato un bersaglio dei fascisti, rivolto ai suoi compagni che si stavano congratulando con lui, Matteotti disse: io, il mio discorso l’ho fatto. Ora sta a voi preparare l’orazione funebre per me.
Il sacrificio di Matteotti, che determinò l’abbandono della Camera da parte delle forze antifasciste (passato alla storia come secessione dell’Aventino) e che indebolì per qualche mese il duce davanti a un’opinione pubblica disorientata e timorosa, ebbe dunque tra le conseguenze un profondo mutamento dell’atteggiamento di Salvemini verso i fascisti. Da allora, dopo essersi iscritto al Partito Socialista Unitario compiendo, al pari del giovane intellettuale Carlo Rosselli (nel 1929 fondatore a Parigi del movimento Giustizia e Libertà), un gesto dall’alto significato anche simbolico, diventò uno dei nemici più temibili per Mussolini.
Salvemini mise in grande difficoltà la martellante propaganda fascista già prima di essere costretto all’esilio politico per oltre vent’anni, in Europa e poi a lungo negli Stati Uniti, dove svolse un’azione costante di controinformazione anche attraverso l’elaborazione di libri molto documentati che ne fecero un brillante “storico del presente”. Nel 1925 fondò a Firenze il periodico clandestino «Non Mollare» con Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi, Nello Traquandi e Piero Calamandrei. Il periodico, stampato da gennaio a ottobre, fu una delle ultime manifestazioni concrete dell’opposizione antifascista prima della definitiva svolta totalitaria di Mussolini. Il capo del fascismo fu sostenuto nelle sue azioni criminali dal Re Vittorio Emanuele III, che lo chiamò al governo nel 1922, e dagli apparati dello Stato liberale di cui, all’epoca dell’assassinio di Matteotti, aveva ormai assunto il pieno controllo. Apparati che non avevano contrastato ma appoggiato la violenza degli squadristi fin dalla genesi del movimento fascista, nel 1919.
Salvemini, per la sua attività antifascista, l’8 giugno 1925 fu arrestato e rinchiuso prima nel carcere romano di Regina Coeli e poi alle Murate di Firenze. Proprio a Firenze, nel luglio 1924, aveva trasformato una celebrazione per Cesare Battisti, patriota che si era battuto per unire il Trentino all’Italia e che era stato impiccato dagli austriaci nel 1916, in una commemorazione di Matteotti a un mese dal suo rapimento. Alla testa di un corteo di antifascisti, Salvemini aveva accomunato i due martiri perché entrambi avevano dato la vita per la libertà e per la patria. Un’idea di patria opposta a quella del nazionalismo aggressivo di cui erano intrisi Mussolini e i suoi camerati, impegnati a strumentalizzare il Risorgimento per accrescere il consenso al regime, soprattutto tra le classi dirigenti e la piccola borghesia.
Salvemini, una volta liberato dal carcere nel 1925, prima di emigrare clandestinamente in Francia, ricevette da Giuseppe Emanuele Modigliani, deputato, tra i dirigenti del Partito Socialista Unitario e avvocato della famiglia Matteotti, documenti sul processo ai suoi assassini, quasi subito individuati ma protetti dal regime. Salvemini si occupò anche dall’estero del processo che, tuttavia, divenne presto una tragica farsa. Due sentenze, del Tribunale di Roma e della Corte d’Assise di Chieti, il 1° dicembre 1925 e il 24 marzo 1926, non fecero giustizia. Dopo la fine della guerra e la nascita della Repubblica, nel 1947, fu celebrato un nuovo processo contro chi era ancora in vita tra gli assassini di Matteotti. Neanche allora, però, la verità giudiziaria si allineò alla verità storica, conosciuta da molto tempo anche grazie alle denunce di Salvemini.
Salvemini era nato nel 1873, dodici anni prima di Matteotti, e aveva influito sulla sua formazione politico-culturale, anche se non direttamente. Sia pure in momenti diversi, entrambi avevano militato nel Partito Socialista Italiano e avevano avuto in comune una caratteristica importante: il rifiuto dell’idea della rivoluzione a vantaggio di una strategia riformista finalizzata ad estendere i diritti civili, politici e sociali delle masse. Salvemini in Puglia (era nato a Molfetta) e Matteotti in Veneto (nella regione del Polesine, era nato a Fratta) si erano sempre trovati a stretto contatto con i braccianti. Conoscevano bene la loro condizione di sfruttati in un modello socio-economico ingiusto perché, in sostanza, privo di diritti per i lavoratori.
Matteotti approvava le dure critiche di Salvemini al sistema di potere incentrato sulla figura di Giovanni Giolitti. Lo statista liberale, pur promuovendo leggi innovative come il suffragio universale maschile e alcuni provvedimenti a favore del lavoro minorile e femminile, soprattutto nel Mezzogiorno aveva favorito i notabili locali grazie ai quali si era assicurato, con mezzi molto discutibili, l’elezione di numerosi deputati a lui fedeli. Così, durante la cosiddetta età giolittiana, egli aveva controllato le maggioranze in Parlamento, favorendo il trasformismo e non contrastando a dovere la corruzione, già allora uno dei mali profondi dell’Italia.
Entrambi furono eletti deputati nel 1919. Salvemini, già candidato nel 1913 contro gli alleati di Giolitti, entrò alla Camera in una lista di ex combattenti della Prima Guerra Mondiale. Aveva abbandonato la militanza attiva nel Partito Socialista Italiano già nel 1911 e non accettò di rientrarvi prima della guerra. Nel 1921, allergico alla vita parlamentare, non si ricandidò pur invitando a votare socialista. Matteotti, invece, venne confermato. Nel 1924 fu rieletto deputato ma nelle liste del Partito Socialista Unitario, nato per la rottura tra socialisti riformisti e massimalisti. La rottura si era consumata all’inizio di ottobre del 1922, poche settimane prima della Marcia su Roma che aveva condotto Mussolini al potere e non in tribunale, dove avrebbe potuto rispondere degli atti eversivi compiuti dai fascisti.
Negli anni 1919-21, pur esprimendo linee politiche diverse, Salvemini e Matteotti (che si erano conosciuti proprio alla Camera) si erano trovati d’accordo nel promuovere una riforma dell’amministrazione e nel considerare l’istruzione pubblica un tema centrale per lo sviluppo della società. Entrambi erano abituati a studiare a fondo i problemi concreti, diffidando dei dogmi ideologici e dei facili slogan. I rapporti personali erano buoni, come ricordò Salvemini alludendo a un colloquio avuto con Matteotti nella Biblioteca di palazzo Montecitorio, nel maggio 1923. Ma lo storico pugliese, manifestando una chiara sfiducia non solo verso i comunisti di Antonio Gramsci e i socialisti massimalisti di Giacinto Serrati, ma anche verso i socialisti riformisti come Filippo Turati e Claudio Treves, aveva declinato l’invito di Matteotti a entrare nel Partito Socialista Unitario. Scrisse Salvemini:
Ci siamo salutati molto cordialmente. Mi ha detto che sperava di rivedermi nel partito. Ho risposto che non c’era speranza: non ho fede nei vecchi uomini, e non ho fede che possano essere messi da parte.
Matteotti fece avere direttamente a Salvemini «Un anno di dominazione fascista», un suo prezioso libro pubblicato nel febbraio 1924 in cui dimostrò quanto la violenza di Stato fosse stata determinante nel cancellare le opposizioni dalla scena pubblica e nel creare in Italia un clima di terrore in vista delle elezioni politiche del 6 aprile. Salvemini definì il libro una requisitoria fondamentale contro i metodi e i risultati della dittatura. Il metodo di lavoro di Matteotti era molto simile a quello di Salvemini: prima era necessario documentarsi per conoscere i fatti, poi si poteva denunciarli per contrastare la propaganda fascista.
Di fronte all’invito di Matteotti ad entrare nel Partito Socialista Unitario, Salvemini esitò: non pensava di poter essere utile rientrando nell’agone politico. Cambiò idea proprio dopo l’omicidio di Matteotti, affermando che il PSU difendeva la nostra fede e, così dicendo, dimostrò di non aver abbandonato il sogno di una società diversa, ispirata a un socialismo democratico che potesse convivere con l’economia di mercato. Nel febbraio 1926, in una lettera alla vedova di Matteotti, Velia Titta, Salvemini tornò sulla sua iscrizione al Partito Socialista Unitario e su quanto quel momento fosse stato, anche per lui, drammaticamente importante.
Matteotti aspettava che io aderissi al suo Partito, dov’era il mio posto naturale. Io attraversai, fra il 1921 e il 1924, un periodo di stanchezza fisica e di depressione morale. Detestavo i fascisti, ma non avevo fiducia degli antifascisti. Me ne stavo fra i miei libri, coi miei giovani amici, risoluto a non rientrare più nella politica attiva […]. Ma quando Lui fu ucciso, io mi sentii in parte colpevole della Sua morte. Lui aveva fatto tutto il Suo dovere: e per questo era stato ucciso. Io non avevo fatto il mio dovere: e per questo mi avevano lasciato stare. Se tutti avessimo fatto il nostro dovere, l’Italia non sarebbe stata calpestata, disonorata da una banda di assassini. Allora presi la mia decisione. Dovevo ritornare ad occupare il mio posto nella battaglia.
Il Partito Socialista Unitario fu messo fuori legge, come accadde a tutti i partiti, i sindacati e i giornali liberi con le “leggi fascistissime” del novembre 1926. Ma la lezione di Matteotti sopravvisse alla sua stessa scomparsa e all’affermazione del totalitarismo fascista. Il suo atteggiamento di oppositore intransigente al regime non fu dimenticato dagli esuli politici e da tutti coloro che, in Italia, non scesero a patti con Mussolini, a cominciare dai partigiani socialisti inquadrati nelle Brigate Matteotti durante la Resistenza.
Tra Salvemini e Matteotti vi furono anche differenze rilevanti. È vero che il loro riformismo era tanto incisivo da poter essere considerato addirittura rivoluzionario, come sostenne lo stesso Matteotti pensando alla sostanza della sua linea politica. Ma è anche vero che tra i due non vi fu uniformità di vedute su accadimenti importanti, a cominciare dalla Prima Guerra Mondiale. Salvemini, pur ostile ai nazionalisti e inizialmente perplesso sulla genesi del conflitto, si schierò con gli interventisti democratici, al pari di Piero Calamandrei e di altre figure di rilievo del futuro antifascismo. Si schierò al fianco di coloro che, nel nome di un’Italia e di un’Europa democratica, intendevano da un lato battere Germania e Austria-Ungheria per costruire un nuovo quadro geopolitico all’insegna della libertà e, dall’altro, completare l’unità d’Italia con l’acquisizione del Trentino. Matteotti, invece, assunse posizioni molto critiche verso la guerra, esprimendo una forma di pacifismo radicale molto vicino a quello dei massimalisti rivoluzionari. Arrivò a immaginare una forma di ribellione delle classi proletarie che, a suo avviso, non avrebbero avuto alcun interesse a sostenere il conflitto. Per lui non si poteva accettare di partecipare alla guerra favorendo i disegni espansionistici delle classi dirigenti borghesi che, secondo quest’impostazione di pensiero, avrebbero scatenato un massacro insensato con l’unico obiettivo di accrescere il proprio potere nel sistema economico capitalista.
Mentre Salvemini rifiutò la posizione dei neutralisti e scelse di arruolarsi volontario a quarantadue anni, Matteotti (già ostile alla Guerra di Libia del 1912, come Salvemini) si schierò contro ogni forma d’interventismo, nazionalista e democratico. Nel 1916 la sua opposizione alla guerra fu espressa con toni molto aspri. Fu quindi accusato di disfattismo, cioè di attività e propaganda ostile al proprio paese. In una seduta del Consiglio provinciale di Rovigo, attaccato dai moderati, fu accusato di essere addirittura un nemico della patria. Rispose alle accuse con veemenza, in modo polemico e provocatorio.
A noi non importa, noi siamo dell’Internazionale, sì, siamo, come dite voi dei senza patria; siete dei barbari, dei barbari in confronto degli austriaci, le manifestazioni patriottiche sono delle provocazioni ai nostri sentimenti.
Denunciato dal prefetto, fu condannato a 30 giorni di carcere. Nell’autodifesa tornò sui motivi dell’avversione alla guerra, che per lui era contro i principi di cooperazione tra i popoli. Disse di essere addirittura favorevole a un’insurrezione popolare pur di fermare la partecipazione dell’Italia al conflitto. Davanti al pretore, rivendicò il diritto alla libertà d’espressione. Nel 1917 la Corte d’appello di Rovigo confermò la sentenza dell’anno prima. Fin dal 1915, a causa delle sue posizioni pacifiste, Matteotti fu più volte insultato e picchiato. Continuò però a sostenere la neutralità assoluta spiegando che il suo modo di interpretare il patriottismo lo portava a difendere la pace e non l’affermazione della violenza. Scriveva già nell’ottobre 1914:
Quando la classe borghese parla di invasioni e minacce alla patria, noi gridiamo «abbasso la vostra patria», poiché la storia dimostra nulla esservi più facile che la finzione di assaliti quando si è assalitori, di invasi quando si vuol invadere, e ogni esercito è un organo che richiede necessariamente la funzione di distruggere, attentare, uccidere.
Nel febbraio 1915 Matteotti rivendicò la neutralità assoluta anche rispetto a una parte dei socialisti riformisti, più comprensivi rispetto alle ragioni dell’interventismo democratico. Turati, che sarebbe stato criticato da Matteotti anche nel 1917 per la posizione di sostegno alla patria espressa a novembre dopo la disfatta di Caporetto, nel 1915 aveva firmato un manifesto che rivendicava il principio di nazionalità, ponendo un limite alla neutralità assoluta. Per Matteotti, invece, non si doveva avere alcun tentennamento. Votare i crediti di guerra era per lui un gravissimo errore, anche quando la scelta veniva dalla grande maggioranza dei socialisti francesi e inglesi per favorire la sconfitta e la caduta degli imperi centrali, dove peraltro la maggioranza dei socialisti seguì le indicazioni dei rispettivi governi determinando lo sfaldamento dell’Internazionale Socialista. Una posizione, quella di Matteotti, molto lontana da quella di Salvemini che, sostenendo il conflitto per garantire una pace lunga e un più giusto ordine mondiale, nell’immediato primo dopoguerra sperò che la strategia del presidente degli Stati Uniti Wilson, ideatore della Società delle Nazioni e sostenitore del principio di nazionalità, prevalesse.
Matteotti, pur riformato a causa della tubercolosi che aveva ucciso i suoi fratelli Silvio e Matteo, nel 1916 fu nuovamente richiamato alle armi. Dopo due mesi trascorsi in Veneto, fu trasferito in Sicilia dove, con l’eccezione del periodo in cui svolse a Torino il corso allievi ufficiali, rimase fino al marzo 1919. Un’autentica punizione: Matteotti non poté svolgere alcuna attività politica. Cercò di continuare a studiare e s’impegnò per aiutare i molti soldati analfabeti. Quest’esperienza da una parte fu traumatica ma, dall’altra, dopo un inevitabile periodo di assestamento, gli consentì di conoscere il popolo del Mezzogiorno, trasformando il trauma in un’opportunità di crescita. Scrisse nel 1919:
il rancio, la tenda sbattuta dall’acqua, fra i compagni contadini, semplici, grandi e bestiali che con una parola, un gesto mi rivelano il loro carattere, dandomi sempre meglio il modo di conoscere l’uomo.
Finita la guerra, al contrario di Salvemini che puntò sugli ex combattenti pensando che il nazionalismo potesse essere messo in crisi dalla nascente democrazia, Matteotti non si fece illusioni. Studioso del grande economista britannico John Maynard Keynes, il deputato socialista si soffermò sulla gestione dei debiti di guerra e sui profitti di guerra, che considerava una profonda ingiustizia. Diffidente rispetto alle classi dirigenti europee, nel 1920 scrisse:
La lotta assurda tra le nazioni europee non accenna a cessare. Nessuno vorrà sollecitare la Germania a riorganizzare se stessa e, tanto meno, la Russia. Le borghesie dei diversi paesi non sapranno imporsi l’automutilazione del capitale privato. Per la forza stessa dei sentimenti individualistici fondamentali della società capitalistica, ognuno tiene stretto il suo, fin dell’abisso. E allora non v’è che il Socialismo; il quale purtroppo non innalzerà più il suo edificio, come una volta sperammo, sulla vetta fiorente del capitalismo giunto al massimo sviluppo della ricchezza; ma dovrà assumersi la duplice terribile impresa: di ricostruire le forze produttive e di distribuire il bene a tutti coloro che lavorano.
Una posizione figlia della coscienza di un momento storico delicato e complesso. La pace di Versailles, che aveva stabilito riparazioni molto pesanti per la Germania, non avrebbe garantito stabilità e democrazia, come aveva sperato Salvemini, né avrebbe lasciato spazio alla vittoria del socialismo.
Sia pure in modi e tempi diversi, Salvemini e Matteotti espressero posizioni di stampo federalista. Sul piano amministrativo, essi non credevano nel modello centralista e pensavano che gli Stati nazionali, influenzati dalle mire espansionistiche delle classi dirigenti, fossero destinati a scontrarsi nuovamente. Salvemini era un grande estimatore di Carlo Cattaneo, un democratico che durante il Risorgimento aveva immaginato un’Italia unita ma federale. Matteotti, pur teorizzando l’internazionalismo socialista, fu uno dei primi esponenti del mondo politico-culturale a parlare di «Stati Uniti d’Europa».
Durante un intervento alla Camera sulla nuova tariffa generale dei dazi doganali, il 19 maggio 1923, Matteotti sostenne la necessità di favorire gli scambi internazionali e il libero commercio, criticando il protezionismo doganale. Ma non si fermò a una riflessione sullo scenario nazionale.
Sollecitiamo ardentemente con l’opera nostra, che è nazionale ed insieme, passaporto permettendo, internazionale, sollecitiamo la formazione degli Stati Uniti d’Europa; non rimandandola idealmente dopo il socialismo, ma affrettandola praticamente perché essi costituiscono un anticipo sul socialismo, un avviamento al socialismo, un riconoscimento e un affratellamento fra i diversi lavoratori di tutte le nazioni, eliminando tante deviazioni e contrasti apparentemente nazionali, ma sostanzialmente capitalistici.
Mentre Salvemini capiva che il suo interventismo democratico si era tradotto in illusioni, Matteotti prendeva coscienza che si stava aprendo un periodo molto difficile, per i socialisti e per l’Italia nel suo complesso. Il futuro non avrebbe portato la democrazia né il socialismo, ma il fascismo. Matteotti lo avrebbe affrontato da subito a viso aperto denunciando, con la scrittura e la parola, la violenza e le bugie dei fascisti. Sempre più diviso tra comunisti, socialisti massimalisti e riformisti, incapaci di dialogare coi cattolici di Luigi Sturzo, coi liberali di Giovanni Amendola, col teorico della Rivoluzione Liberale Piero Gobetti e coi repubblicani, il movimento operaio fu sconfitto dal totalitarismo fascista mentre la coraggiosa intransigenza di Matteotti lo condusse alla morte. Salvemini, proprio dalla sua scomparsa, trasse la volontà di rimettersi in gioco e di immergersi nella lotta con la stessa intransigenza, fino alla sofferta vittoria finale.