Seminario di formazione: Le forze armate nella Resistenza. Un ciclo di cinque incontri MATERIALI DIDATTICI Lezione 1: a cura di Roberta Cairoli 28 settembre 2015: L’altra Resistenza: gli internati militari italiani Gli Imi (Internati militari italiani) Dopo l’8 settembre 1943 i tedeschi catturano più di 800.000 soldati italiani. Di questi, una minoranza resta “fedele all’alleanza” tedesca, con ragioni diverse (dall’adesione ideologica alla pura logica di sopravvivenza), finendo in gran parte impiegati nelle forze armate tedesche. Per i rimanenti, più di 650.000 soldati italiani che rifiutano invece di continuare la guerra accanto ai tedeschi, si spalancano le porte dei Lager. Ufficiali e soldati di truppa vengono isolati in campi distinti. Nei Lager, nel febbraio 1944, risultano ancora internati 615.812 ex militari che hanno rifiutato ogni collaborazione con le forze armate tedesche e fasciste e che non hanno aderito alla RSI. Sottoufficiali e soldati semplici sono trasformati in lavoratori coatti, come manodopera schiava nell’industria bellica tedesca. Lo status di Imi determina un peggioramento rispetto a quello di prigioniero di guerra: gli internati italiani non hanno diritto a ricevere alcun soccorso dalla Croce Rossa Internazionale. Alla costante ferocia delle condizioni di reclusione e di lavoro, il freddo provoca ulteriori sofferenze, e morti per fame e malattie. Almeno 20.000 muoiono nei Lager, cui si aggiungono 13.300 caduti durante il trasporto, 63.000 passati per le armi, circa 600 uccisi nei massacri dell’ultima ora. Il loro fermo rifiuto di collaborare col nazismo è stato un momento fondamentale della Resistenza italiana ed europea.
Documenti LA RESISTENZA PASSIVA DEGLI INTERNATI MILITARI ITALIANI Scrive Pasquale Iuso su “Lettera ai Compagni”: “Occorrono alcuni altri dati e strumenti utili ad una lettura meno superficiale di quegli eventi. Abbiamo, per semplicità, finalizzato questa chiave di lettura a solo tre elementi: a) i dati numerici sugli italiani catturati e la dislocazione geografica dei lager militari e la diversa tipologia; b) le principali tappe che hanno scandito la storia degli internati militari italiani dall'8 settembre 1943 alla fine del conflitto; c) le componenti psicologiche che si sono mosse attorno all'internamento militare nel corso dello stesso. A parte abbiamo considerato la 'rimozione' del problema prigionieri al termine della guerra”. Dalla relazione sull’attività svolta per il rimpatrio dei prigionieri di guerra ed internati, si ricava il primo estremo numerico dell’intervallo. Dalla Germania rimpatriarono 613.191 uomini (14.033 ufficiali e 599.158 sottufficiali e truppa); a tale cifra vanno aggiunti anche coloro che rimpatriarono dai territori occupati dalle forze armate tedesche: 30.581 (1061 ufficiali e 29.520 sottufficiali e truppa) dalla Francia; 21.197 (1979 ufficiali e 19.218 sottufficiali e truppa) dalla Svizzera; 63.999 (838 ufficiali e 63.161 sottufficiali e truppa) dalla Grecia e dalle isole. Giungiamo così a un totale di 764.588 di cui 18.713 ufficiali e 745.875 sottufficiali e truppa rimpatriati. A grandi linee, ecco i principali avvenimenti che coinvolsero gli internati militari italiani. Al momento dell’armistizio, fuori dai confini italiani si trovavano 40 tra divisioni e G.U. varie e, nonostante vi furono frequenti casi di deportazioni militari anche all’interno del territorio nazionale, la stragrande maggioranza di coloro che non furono né veri prigionieri di guerra né veri internati civili, proveniva da unità militari operanti, alla data dell’armistizio, fuori Italia. A partire dal 24 settembre gli italiani catturati vengono definiti internati militari allo scopo di eludere ogni possibile azione di tutela basata sulla Convenzione di Ginevra del 1929 sui prigionieri di guerra. Il principale motivo di questa scelta e di tipo economico: non era cosa di poco conto avere a disposizione una nuova massa lavorativa in un momento particolarmente duro del conflitto. Gli italiani vennero, quindi, trasferiti in Germania e in Polonia, svincolando in tal modo nuove classi tedesche richieste con sempre maggiore urgenza dalla Wehrmacht e per riempire il vuoto lasciato dagli altri prigionieri (specialmente russi) ormai annientati o comunque più protetti dalle convenzioni internazionali. lettera ai compagni - Mensile della FIAP – Settembre-Ottobre 2003 - Anno XXXV, N. 5 - p. 39
Documenti CEFALONIA: DIARIO INEDITO DI UN SOLDATO TEDESCO CHE PARTECIPÒ AGLI ECCIDI Da “Lettera ai Compagni” di Ilio Muraca (Generale di Corpo d’Armata e Partigiano) Dal quotidiano “La Stampa”, si apprende la straordinaria notizia, dopo decenni di silenzio, che un soldato tedesco della Wermacht, durante le giornate di Cefalonia, aveva tenuto un suo diario. L’autore é un militare di nome Waldemar, appartenente al 54° battaglione di Alpenjager, i cacciatori di montagna, cui si deve la maggiore responsabilità della partecipazione ai combattimenti sull’isola dal 19 al 22 settembre 1943, ed all’eccidio di ufficiali e soldati italiani che ne seguì. Nella nota del 18 settembre, poco prima cioè che divampasse la lotta, egli scrive che “una pattuglia di suoi venti compagni, sbarcata sull’isola (a scopo evidentemente ricognitorio) era stata dichiarata dispersa, in una zona di montagna infestata da bande partigiane. Si é trattato sicuramente di un primo scontro, cui potrebbero non essere estranei i soldati della divisione “Acqui”, già da giorni in stato di massima allerta, dopo che alcuni pontoni tedeschi, carichi di truppe, erano stati affondati e posti in fuga dalla reazione di fuoco delle nostre artiglierie. In calce alla notizia, Waldemar annota che “la vendetta tedesca non si farà attendere e colpirà una cinquantina di abitanti dell’isola, compresi donne e bambini”. è questa una prima rivelazione dello spirito di crudele rivalsa che, da quel momento, comandanti e soldati tedeschi, molti di origine altoatesina, nutriranno per tutto quello che accadeva sull’isola. Più avanti, Waldemar scrive “di essere impedito a seguire il suo reparto nella spedizione punitiva, per disarmare le truppe italiane, che stanno opponendo una resistenza disperata”. Si tratta della prima ammissione della crudezza dei combattimenti in corso, ai quali avrebbe partecipato volentieri, “per scattare singolari istantanee per il suo album di fotografie”. Di quali scatti si trattava é facile immaginarlo, visto che egli stesso annota, il giorno 20: “non si stanno facendo prigionieri; tutto quello che capita davanti ai fucili, viene fatto fuori”: E più avanti una frase agghiacciante, riferita agli italiani: “Questi poveri cani debbono lasciarci la pelle, nonostante non abbiano nulla a che fare con gli ordini di ufficiali impazziti”. Da quanto emerge dal diario si possono trarre alcune considerazioni: la prima è che, da parte della bassa forza tedesca, non si conosceva la decisione dei nostri militari di voler combattere, con una scelta plebiscitaria; una rivelazione del genere non sarebbe stato un buon viatico per chi si apprestava ad un duro combattimento. La seconda è quella di un soldato della Wermacht che offre una testimonianza precisa, in tempo reale, di quello che andava conoscendo dai messaggi-radio che venivano scambiati fra le unità tedesche operanti e la base dove egli si trovava. Inoltre, la sua appartenenza ad un battaglione di alpenjager la dice lunga sulla responsabilità della Wermacht, e non di unità della famigerata polizia dell’esercito tedesco, come alcuni vorrebbero far credere. Ma é soprattutto l’attributo di “poveri cani”, ai nostri soldati, che lascia sbigottiti, trattandosi di avversari coraggiosi e sapendo che il volgare epiteto veniva espresso ad eccidio iniziato, se non addirittura già consumato. Per Waldemar, così come per i suoi compagni che, in quelle ore, stavano massacrando, sei alla volta, 136 nostri ufficiali, nel cortile della Casetta rossa, il significato di “valor militare”, di cui gli italiani avevano dato prova, assumeva un aspetto negativo, secondo la nefasta mentalità razzista, diffusa dal nazismo nella stragrande maggioranza del suo esercito, cui appartenevano gli alpenjager. Di alcuni di essi, facenti parte delle squadre di esecuzione, un capitano italiano, testimone oculare, scampato miracolosamente alla strage, avrebbe persino detto che, ad un certo momento, “si erano lamentati della fatica di uccidere, cui erano sottoposti, avendo saltato, per ultimare il massacro, il caffè del mattino, il rancio e persino la doccia, cui avrebbero avuto diritto, dopo i combattimenti”. Nessuna pietà, dunque, per “i poveri cani”, benché uomini e soldati come loro. Perché tanto livore e tanto disprezzo? Ed è qui che affiora la irragionevole e irrazionale accusa di “traditori” del grande Reich. E chi sa, da quel momento, quante volte dopo l’8 settembre i soldati con le insegne del nazismo, avrebbero ancora parlato dei “cani italiani”: a Porta San Paolo, a Piombino, a Montelungo, a Barletta, a Filottrano, sulla “Linea Gotica”, e nei tanti altri combattimenti, ove il rinnovato Esercito italiano, al fianco di quelli alleati, avrebbe riscattato l’offesa di un patto con il nazismo, antistorico ed innaturale. E chissà se l’accusa di “tradimento”, rivolta dai tedeschi ai nostri soldati, davanti agli orrori di una guerra che stava riducendo in polvere le loro città, privando le loro famiglie dei padri, dei mariti, dei fratelli, non avrebbe perduto il suo valore di enorme falso storico, creato dalla propaganda di uomini, devastati dalla follia, come Hitler e Goebbels, tanto che i tedeschi stessi, morti o sopravvissuti alla tragedia del loro paese, sarebbero potuti divenire anch’essi “Poveri cani”. Oggi, di fronte ad episodi ed a stragi, come quella di Cefalonia, delle Fosse Ardeatine, di Marzabotto e di tanti altri luoghi, divenuti tristemente famosi, occorre valutare sotto una ben diversa luce il significato del “tradimento italiano”; un’espressione - pretesto, troppo spesso abusata anche dai giovani votati alla “bella morte,” della Repubblica di Salò. Quello dei nostri soldati non è stato “tradire”, ma piuttosto volontà di riappropriarsi del proprio destino, preso in ostaggio da una dittatura che aveva condotto il loro paese alla rovina, con la promessa del dominio sul mondo, al di fuori di ogni credenza religiosa e di ogni umano sentire. lettera ai compagni - Mensile della FIAP – Marzo-Aprile 2004 - Anno XXXVI, N. 2 - pp. 14-15
Biografia di Alessandro Natta Alessandro Natta nasce ad Oneglia (Imperia)
il 7 gennaio 1918, da Antonio e Delfina Muratorio, piccoli commercianti, proprietari
di una macelleria. Lascia Oneglia nel 1936 per frequentare la Scuola normale
superiore di Pisa, laureandosi in Lettere nel 1940. È all’Università che
Alessandro inizia un periodo di intenso attivismo politico, in un gruppo
fondato insieme ad altri studenti antifascisti di orientamento
liberalsocialista. Quando scoppia la guerra, i giovani antifascisti della
Normale giudicano l’evento come l’unica strada per la sconfitta del fascismo.
Chiamato alle armi, Alessandro viene inviato come ufficiale di artiglieria in Grecia.
Nelle ore successive all’armistizio dell’8 settembre 1943 con gli Alleati, che
porta improvvisamente l'Italia nel campo avverso alla Germania, l'esercito
italiano dislocato in Europa a fianco dei tedeschi, spesso nelle stesse
caserme, si trova in estrema difficoltà. Così accade in Grecia, dove si assiste
ad uno sbandamento generale dell'esercito, a un fuggi fuggi di soldati italiani
braccati dai tedeschi che vogliono far scontare all'Italia il cambio di fronte.
Alessandro, assieme ad altri, vi vede
un'occasione per combattere i tedeschi sul campo e prende parte alla difesa dell’aeroporto
di Gadurrà, attaccato dalle truppe naziste, restando ferito. Anche il rifiuto di lavorare per i tedeschi, quando questo rifiuto può significare il trasferimento in un campo di punizione o la morte, rappresenta un atto di resistenza. Alessandro, nel dopoguerra, raccoglierà la memoria di questa esperienza in un’autobiografia L’altra Resistenza, che si rivela un’opera determinante nel far conoscere la tragedia dei militari italiani internati in Germania. Rientrato in Italia nell’agosto del 1945, si iscrive al Partito comunista italiano. Inizia a lavorare come professore presso il liceo classico di Imperia, ma la scelta politica è per lui di nuovo prioritaria e decide quindi di lasciare l'insegnamento per dedicarvisi appieno. Viene quindi eletto consigliere comunale di Imperia nel giugno 1946 e poi deputato nel 1948, entrando a far parte dei vertici del Partito comunista italiano, del quale diventerà segretario nazionale nel 1984, dopo la prematura scomparsa di Enrico Berlinguer. Lascerà la carica nel 1988 in seguito a un attacco cardiaco, un anno prima della caduta del muro di Berlino. Alessandro Natta muore ad Oneglia il 23 maggio 2001.
Lezione 2: a cura di Fiorella Imprenti 12 ottobre 2015: Il corpo italiano di liberazione (Cil): le forze armate nella campagna d’Italia Le forze armate italiane nella guerra di Liberazione Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il governo Badoglio avvia trattative con gli Alleati per costituire reparti dell’esercito italiano da schierare contro i tedeschi. A fine settembre si raggiunge la costituzione del Raggruppamento italiano motorizzato Savoia: circa 5.000 uomini vengono aggregati alla 36° divisione statunitense e mandati in prima linea sul fronte di Cassino. Hanno il loro battesimo di fuoco nella dura battaglia di Montelungo, con tante perdite (428 uomini). La nascita di un governo unitario antifascista consente di rafforzare le formazioni militari italiane, operative a partire dal maggio del 1944 sotto il nome di Corpo italiano di liberazione (Cil), forte di 24.000 uomini, inquadrato nel V corpo inglese, che partecipa ai combattimenti che portano alla liberazione di Chieti, Teramo ed Ascoli Piceno. La cooperazione militare italiana con gli Alleati non si sviluppa solo tra reparti regolari, ma anche da parte di formazioni partigiane. Significativo il caso della brigata Maiella, che instaura da subito rapporti con i comandi Alleati. Una vicenda analoga è quella della 28° brigata Garibaldi Gordini, al comando di Arrigo Boldrini, inquadrata nell’8° armata inglese come formazione autonoma, protagonista della liberazione di Ravenna.
TESTIMONIANZE ORIGINALI I PATRIOTI DELLA “BRIGATA MAIELLA” Da “Lettera ai Compagni”, contributo di Ettore Troilo Nella duplice mia qualifica di già Comandante della Brigata Maiella e di Presidente dell’Associazione che ne raccoglie i Reduci, mi sia consentito di ricordare per la ricorrenza del 25° anniversario della Liberazione la superba motivazione che accompagna il decreto Presidenziale di conferimento della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Bandiera di combattimento della Brigata suddetta: «In 15 mesi di asperrima lotta sostenuta contro l’invasore tedesco con penuria di ogni mezzo ma con magnifica esuberanza di entusiasmo e di fede, sorretti soltanto da uno sconfinato amore di Patria, i Patrioti della Maiella, volontari della libertà, affrontando sempre soverchianti forze nemiche, hanno scritto per la storia della risorgente Italia una pagina di superbo eroismo. Esempio a tutti di alto spirito di sacrificio essi, manipolo di valorosi, nulla chiedendo se non il privilegio del combattimento, hanno dato per primi largo e generoso contributo di sangue per il riscatto dell'onore e della libertà d’Italia. Da Civitella a Selva, a Pizzoferrato, a Lama, e poi, superata la Maiella madre, da Cingoli a Poggio S. Marcello, da Montecarotto a Pesaro, e poi ancora, instancabilmente, da Monte Castellaccio, a Brisighella, a Monte Mauro, a Monte della Volpe, al Senio e, tra le primissime truppe liberatrici, all’alba del 21 aprile a Bologna, il 1° maggio 1945 ad Asiago: dal 5 dicembre 1943 al 1° maggio 1945, di battaglia in battaglia, essi furono sempre e ovunque primi in ogni prova di audacia e di ardimento. Lungo tutto il cammino una scia luminosa di abnegazione e di valore ripete e riafferma le geste più epiche e gloriose della tradizione del volontarismo italiano. 54 Caduti, 131 feriti, di cui 36 mutilati, 15 medaglie d’argento, 43 medaglie di bronzo e 144 croci al valor militare, testimoniano e rappresentano il tributo offerto dai Patrioti della Maiella alla grande causa della libertà”. Dal Sangro al Senio, 5 dicembre 1943-1 maggio 1945. Il testo lapidario di questa motivazione illustra e riassume, in sintesi, assai meglio che qualsiasi rievocazione celebrativa una pagina di storia scritta generosamente a caratteri di sangue ed è testimonianza eloquente del contributo dato dai Patrioti della Maiella, che furono genuina espressione del popolo italiano, alla lotta per la riconquista delle libertà democratiche. Poiché io considero la Resistenza non come un “mito” da onorare in determinate occasioni e con le remore e le ipocrisie della ufficialità, ma come una luminosa conquista che deve essere completata e difesa sopratutto da quanti ne furono protagonisti, penso che la più degna e coerente celebrazione debba consistere nel rinnovare giorno per giorno il nostro impegno di fedeltà a quegli ideali di giustizia, di libertà, di pace che ebbero per prezzo il supremo sacrificio di migliaia e migliaia di Caduti, ai quali rivolgo, anche a nome dei superstiti della Maiella, il mio commosso ricordo, la mia infinita gratitudine, il mio accorato rimpianto. Dico accorato rimpianto perché se mi dovessi chiedere che cosa sia stato fatto, in concreto, dai vari Governi succedutisi in questi venticinque anni per onorare i morti e i vivi della Resistenza, non potrei che dare una risposta estremamente amara € sotto ogni aspetto deludente, specie se penso che nel novembre 1945, a pochi mesi dalla liberazione, abbattuto da intrighi del potere reazionario il Governo di Ferruccio Parri «incominciò il decennio di progressivo e corrosivo discredito dei valori della Resistenza, infamata e diffamata», come ebbe a ricordare il grande amico e maestro Piero Calamandrei nel memorabile discorso pronunciato il 28 febbraio 1954 al Teatro Lirico di Milano, discorso al quale ebbi l’onore e il privilegio di essere presente con Ferruccio Parri e Sandro Pertini. E migliore trattamento la Resistenza non ebbe nel decennio successivo durante il quale abbiamo dovuto assistere a fatti ed episodi vergognosi e disgustosi che sarebbe qui troppo lungo rievocare, ma il cui ricordo rimane indelebilmente impresso nell’anima e nella memoria di tutti i combattenti della libertà. Ed io sono certo che tale incredibile situazione si sarebbe ulteriormente deteriorata se, a chiusura delle celebrazioni del ventennale, non si fosse levata, in sede nazionale, alta e ammonitrice l'autorevole voce del Presidente Saragat nel nobile e appassionato discorso pronunciato il 9 maggio 1965 a Piazza del Duomo in Milano in presenza di un immenso popolo rincorato e plaudente e di una selva di Bandiere tra le quali, in prima fila, quella della Brigata Maiella! Venticinque anni or sono, tutti gli italiani potettero rendersi esatto conto della immane tragedia provocata dal ventennio della dittatura, conclusasi ignominiosamente dopo la più assurda e criminale guerra che la storia ricordi, con una sconvolgente e pesante eredità di distruzioni materiali e morali, di miseria e di desolazione, di sangue e di lutti. Ma il popolo italiano che aveva saputo compiere il miracolo della propria resurrezione attraverso l’epica lotta di liberazione, che valse a riconquistare per tutti, anche per gli indegni, il bene supremo della libertà, pur di fronte a tante sventure si apprestò senza esitazioni alla faticosa opera di ricostruzione ed io ricordo con quali sacrifici e con quanta fede, specie da parte delle classi meno abbienti, fu affrontato il difficile compito. Sennonché, dovemmo allora constatare e constatiamo ancora oggi con profonda tristezza come la stessa opera di ricostruzione del nostro Paese, tanto altamente meritoria, sia rimasta incompiuta malgrado il generoso impegno di numerosi e qualificati esponenti della risorta nostra democrazia che sono stati costretti a sostenere una difficile e quotidiana lotta contro la incomprensione e la conservazione per impostare e portare avanti un discorso capace di realizzare, anche se parzialmente, le legittime aspirazioni del popolo lavoratore e dei giovani che inutilmente avevano atteso e attendono da tempo una risposta nuova ai gravi e assillanti problemi della società attuale. Ed è naturalmente comprensibile che tale stato di generale disagio prolungatosi per anni e aggravatosi, oltretutto, dalle arcaiche divisioni e dai profondi dissidi all’interno dei partiti politici, abbia creato in tutti i settori della vita italiana un profondo malessere ed una dilagante sfiducia verso le stesse istituzioni democratiche e repubblicane, disorientando e turbando le coscienze degli uomini liberi e di quanti tra noi si erano illusi di poter edificare, nel nome di questa gracile e sconcertante nostra democrazia, una Italia più giusta, più pulita, socialmente più progredita, come dai voti e dalle speranze che sorressero e illuminarono gli ideali della Resistenza e della guerra di liberazione. Questo, purtroppo, è il bilancio che a 25 anni dalla liberazione dobbiamo registrare a debito della nostra democrazia, anche se illustri personaggi facenti parte del «comitatone ufficiale», pur non avendo nulla in comune con la Resistenza, verranno a ripeterci monotonamente e a fini elettoralistici per l’imminenza delle elezioni del 7 giugno promesse e assicurazioni nel tentativo di poter così frenare l’ansia di rinnovamento e la spinta unitaria dei lavoratori e dei giovani costretti da anni ad uno stato permanente di agitazione. In presenza di tale situazione, noi della «Maiella», pur nella piena consapevolezza della modestia del nostro peso politico nella vita nazionale. riteniamo di doverci dissociare da siffatte retoriche e insincere celebrazioni e vogliamo, invece, onorare il 25° anniversario della liberazione portando avanti la nostra iniziativa, già in corso di attuazione e per la realizzazione della quale chiediamo testimonianza di generosa solidarietà a quanti si richiamano ai valori ideali della Resistenza, quella cioè di raccogliere i Resti gloriosi di quei cari e indimenticabili nostri Caduti - anche se simbolicamente perché di Essi, ormai, non rimangono in noi che il fedele ricordo e l’alto esempio del loro sacrificio - in un Sacrario che sorgerà alle falde della Montagna da cui i Patrioti abruzzesi presero il nome, a ricordo perenne di drammatici anni e a monito implacabile, duro come la roccia della Maiella, contro tutte le violenze e le dittature che ancora oggi, disgraziatamente, insanguinano e disonorano l’Europa e il Mondo. lettera ai compagni – Mensile della FIAP – Maggio-Giugno 1970 – Anno II, N. 5-6 – pp. 6-7
Biografia di Ettore Troilo (Torricella Peligna – Chieti, 10 aprile 1898 – Roma, 5 giugno 1974) Ettore è figlio di un medico condotto e già da ragazzo si interessa alle questioni sociali e alla politica. Ha 18 anni quando scoppia la prima guerra mondiale che lui vede come uno scontro tra le moderne democrazie e i vecchi imperi dell’Europa centrale; è quindi interventista e quando nel marzo 1915 l’Italia decide di entrare in guerra a fianco di Francia e Inghilterra lui parte come volontario, appena presa la maturità, ottenendo una croce al merito di guerra. È nelle trincee di montagna, parlando con altri giovani come Emilio Lussu, che definisce le sue idee politiche e si avvicina al socialismo. Tornato dal fronte si iscrive all’Università e, presa la laurea in legge, si trasferisce a Milano per fare pratica da avvocato. Qui conosce i maggiori esponenti del socialismo riformista dell’epoca, Filippo Turati e Anna Kuliscioff, e tramite loro inizia a lavorare a Roma nella segreteria di Giacomo Matteotti, che diventa per lui un grande maestro. Ettore resta sconvolto dall’assassinio di Matteotti e si lega a diversi gruppi antifascisti, collaborando al movimento Italia Libera, promosso tra gli altri da Carlo Rosselli, e alla rivista “Il Mondo”. Per questo Troilo è schedato e sorvegliato dalla polizia, la sua casa e il suo studio sono spesso perquisiti e vengono imposti dei limiti alla sua professione di avvocato. Non vi sono però grandi accuse a suo carico, Ettore in questi anni si dedica alla vita privata, sposa Letizia, abruzzese come lui, e ha con lei tre figli: Nicola, Michele e Carlo. Dopo l’8 settembre 1943 Ettore decide che è tornato il momento di mettersi in prima linea. Quando i tedeschi attaccano Roma, Troilo è tra i maggiori protagonisti della difesa della città e deve quindi fuggire in Abruzzo quando la capitale viene occupata dai tedeschi. Cerca rifugio nel suo paese natale, viene catturato ma riesce a fuggire e, in una masseria, inizia ad organizzare una brigata partigiana, composta da una quindicina di contadini: è l’origine della Brigata Maiella. Fatta da volontari abruzzesi e comandata da Ettore Troilo, la Brigata Maiella stringe stretti contatti con il comando inglese oltre le linee nemiche, ottenendone armi e concordando con gli Alleati le azioni contro tedeschi e fascisti. Tra le operazioni più coraggiose della Maiella vi è la presa della roccaforte tedesca di Pizzoferrato, nel febbraio 1944. I partigiani, dopo aver attaccato nella notte con la neve alta, subiscono gravi perdite, mitragliati dai tedeschi che avevano simulato la resa, ma ormai la posizione è presa e i nazisti devono ritirarsi. L’azione ha molto risalto e l’Esercito italiano, che ha la sua base a Bari, nella parte d’Italia già liberata, propone a Troilo di far diventare la sua brigata un reparto ufficiale dell’esercito. Lui però rifiuta, insistendo sul carattere spontaneo e volontario della formazione, sull’idea che i cittadini in armi stiano combattendo una guerra di popolo. La Brigata Maiella viene quindi riconosciuta dall’esercito come il primo reparto irregolare di volontari italiani e a Troilo è assegnato il grado di capitano. La Brigata diventa sempre più forte marciando verso nord per continuare la guerra contro i tedeschi e liberare il resto dell’Italia. La valorosa battaglia di Montecarotto e la liberazione di Pesaro sono tra le azioni più note della Brigata, che arriva a contare oltre 1500 partigiani reclutati nelle Marche e in Romagna. Nel giugno 1944 Ettore Troilo, dopo tutti questi successi, salta in aria su una mina con la sua jeep e resta un mese in ospedale tra la vita e la morte. Dopo la Liberazione Troilo si dedica ad assistere la popolazione abruzzese, ridotta alla miseria dalla guerra. Nel gennaio 1946 viene poi nominato Prefetto di Milano, sostituendo Riccardo Lombardi e svolgendo un importante ruolo nella ricostruzione della città. Collabora col Sindaco Antonio Greppi, e progetta un calmiere dei prezzi che evita la speculazione e consente così alle persone di continuare a comprare i generi alimentari di prima necessità. Troilo, che è rimasto l’ultimo dei Prefetti della Liberazione, ossia nominati politicamente per tenere una continuità tra la Resistenza e l’Italia repubblicana, viene destituito dal governo nel novembre 1947, provocando una grande protesta a Milano, con scioperi e con l’occupazione per due giorni della Prefettura. Troilo capisce che la manifestazione è dovuta sia all’affetto che i milanesi provano nei suoi confronti, sia al legame che i cittadini della nuova Repubblica italiana continuano ad avere con la Resistenza, intesa come guerra di tutto il popolo in armi, così come l’aveva vissuta lui. Finito il suo incarico torna a lavorare come avvocato, prima a Milano poi a Roma, rinunciando anche alla pensione di guerra poiché - dice - molti italiani meno noti di lui ma con ferite più gravi non hanno ricevuto il giusto riconoscimento. Continua a impegnarsi nel partito socialista e a tenere viva la memoria della Resistenza. Quando muore, nel 1974, vuole un rito civile e sulla bara garofani rossi. Al suo funerale non ci sono autorità, ma solo un gruppo dei suoi partigiani. CONTRIBUTI IL PARTITO D’AZIONE NEL “REGNO DEL SUD” Da “Lettera ai Compagni”, di Filippo CARIA Con il saggio “Il partito d’Azione nel Regno del Sud”, Antonio Alosco, docente di storia contemporanea, prefazione di Francesco De Martino, ricostruisce il ruolo del Partito d'Azione nell’Italia meridionale nel periodo che va dal 1943 alla liberazione di Roma nell’aprile del 1944. Il Partito d’Azione, erede del Movimento di Giustizia e Libertà è stato sempre considerato un movimento di élite rivoluzionaria presente soprattutto nel nord, dove raggruppava tutti gli oppositori al fascismo di matrice non comunista: lo si ricollegava all’attività di Carlo Rosselli in Francia, alla partecipazione alla guerra di Spagna, alle brigate partigiane di “GL”, al ruolo di Ferruccio Parri, comandante Generale del Corpo Volontari della Libertà, mentre si è ignorata l’attività del Partito d’Azione nell’Italia Meridionale dal ’42 in poi, ma principalmente quella dopo il trasferimento del Governo da Brindisi a Salerno. Merito di Alosco è quello di aver approfondito lo studio di quel periodo storico con attenta analisi, confortata da un’ampia documentazione, ricordando come Napoli nel ’43 fosse al centro dell’attività politica del Paese. A Napoli vi erano Croce, Togliatti, Sforza, de Nicola. Lizzadri, oltre all’agguerrita pattuglia degli azionisti: Schiano, Omodeo, Cianca, Armino, Gentili, De Martino. In questa realtà, fa notare Alosco, una posizione di grande rilievo era occupata dal Partito d’Azione, presente come forza organizzata in maniera massiccia, secondaria, forse, al solo PCI. Il Partito d’Azione per volontà di Pasquale Schiano, vero animatore del partito nel Sud, e del gen. Pavone, promosse l’iniziativa di organizzare il Gruppo Combattenti d’Italia, formazione armata che voleva partecipare alla guerra contro i tedeschi ed i fascisti. Ottenuta l’autorizzazione del Governo Alleato, il Gen. Pavone s’insediò al palazzo dell’INA in Piazza Carità a Napoli , cominciando la fase dell’arruolamento, mentre Benedetto Croce stilò un appello ai giovani invitandoli ad impugnare le armi ed a combattere per la libertà. Ma l’iniziativa abortì sul nascere. Favorevoli gli americani, contrari gli inglesi, contrarissimo Badoglio, ovviamente deciso oppositore alla formazione di volontari armati di tendenza repubblicana. All’opposizione di Badoglio si aggiunse quella del PCI, che voleva detenere il privilegio della lotta armata contro il fascismo. L’autorizzazione fu revocata e l’ufficio di Piazza Carità chiuse i battenti. Antonio Alosco esamina ancora un aspetto interessante di quel particolare momento politico: la ricostituzione del sindacato. Promossa da Enrico Russo per il PCI e da Armino e Gentile per il Partito d’Azione, fu ricostituita la Confederazione Generale del Lavoro con l’obiettivo di creare un sindacato unitario indipendente dai partiti politici. Enrico Russo era un leader prestigioso, antico militante antifascista, partigiano (aveva combattuto nella guerra di Spagna) mentre Armino e Gentili portarono l’adesione del Partito d’azione, che allora aveva largo seguito e vasti consensi nelle fila dei lavoratori. Ma il sindacato autonomo dai partiti non era ben visto dal PCI che tendeva al sindacato cinghia di trasmissione del PCI. Lo scontro fu durissimo ed il contrasto sul ruolo del sindacato provocò una grande crisi nel PCI, elemento non secondario della scissione che si verificò nel mondo comunista fino alla costituzione di due federazioni. L’avventura autonomista finì con la liberazione di Roma, dove PCI, PSI e DC firmarono il Patto di Roma che estromise dal sindacato il Partito d’Azione, liquidando naturalmente Enrico Russo. Il Partito d’Azione entrò in crisi a mano a mano che la situazione politica subiva delle evoluzioni. Primo impatto negativo e durissimo per un partito coerentemente rivoluzionario, antifascista combattente, fu la svolta di Salerno, voluta da Togliatti in coerenza con interessi politici più ampi, quali la lotta contro i nazisti, che portò i partiti antifascisti a collaborare con il governo Badoglio. La ragione d’essere degli azionisti e di “G.L.” era stata la lotta armata contro il fascismo e la monarchia. Badoglio, duca di Addis Abeba, e Vittorio Emanuele IIII, erano l’espressione di quel mondo contro il quale “G.L.” aveva lottato per oltre venti anni. Quella forma di collaborazione disorientò ed avvilì gli iscritti. Ma la crisi ancora più profonda e lacerante avvenne al momento delle elezioni per l’Assemblea Costituente. Vi era stato il congresso di Cosenza, dove si erano scontrate le due anime del Partito d’Azione: quella liberaldemocratica di Parri e La Malfa e quella socialista di Lussu e della maggioranza del partito. Ristabilitasi la dialettica democratica e risorti gli antichi partiti, a cominciare, dal PRI e dal PSI, la convivenza delle due anime diventò difficile e la scissione inevitabile. All’elezione del 2 giugno per la costituente si presentarono due formazioni politiche. Parri e La Malfa, che ottennero due seggi, ed il Partito d’Azione, con sette seggi, oltre ai due del partito Sardo d’Azione, con il quale era federato. Dopo le elezioni il partito d’azione si sciolse e molti dei suoi iscritti confluirono nel PSI. Alosco ha fatto rivivere un periodo cruciale della vita politica italiana, dando risalto al ruolo del Partito d'Azione e rievocando alcuni momenti significativi come la Formazione armata del Gen. Pavone, la ricostituzione della CGIL, la svolta di Salerno e la politica di Togliatti. lettera ai compagni - Mensile della FIAP – Luglio-Agosto 2003 - Anno XXXV, N. 4 - pp. 23-24
Lezione 3: a cura di Giovanni Scirocco 26 ottobre 2015: Il ruolo dei militari nella Resistenza italiana all’estero ABSTRACT DELLA LEZIONE La resistenza italiana all’estero La partecipazione italiana alla lotta armata contro i nazisti e i fascisti non si svolge solo in Italia, ma anche al di fuori dei confini nazionali. Al momento dell’armistizio dell’8 settembre 1943, ben 35 divisioni militari sono dislocate in Provenza, in Corsica, in Albania e in Jugoslavia, in Grecia e nelle isole dell’Egeo. Sono centinaia di migliaia gli uomini che, rimasti privi di indicazioni, sono rastrellati dai tedeschi e internati nei campi di concentramento. Non mancano, però, episodi di resistenza spontanea: in alcuni casi, a Cefalonia e a Corfù i reparti si oppongono ai tedeschi andando incontro ad un vero e proprio massacro. Si tratta dei primi episodi di una opposizione armata al nazismo, che gli italiani conducono fuori dell’Italia; nei giorni e nei mesi immediatamente successivi, la Resistenza militare italiana all’estero continua nelle fila dell’esercito di liberazione jugoslavo, nelle formazioni partigiane albanesi e in quelle greche, nelle organizzazioni della Resistenza francese e di altri paesi, vincendo l’iniziale diffidenza delle popolazioni locali e dei comandi partigiani, visto che gli italiani sono stati esercito occupante fino all’8 settembre del ’43. Più che altrove la resistenza è rilevante in Jugoslavia dove si forma la divisione d’assalto Garibaldi, forte di 5000 uomini, la più grande formazione combattente della resistenza italiana all’estero. DA “LETTERA AI COMPAGNI”: lettera ai compagni - Mensile della FIAP – Settembre-Ottobre 2003 - Anno XXXV, N. 5 - pp. 33-38 LA RESISTENZA DEI SOLDATI ITALIANI IN TUTTI I TERRITORI EUROPEI OCCUPATI di Ilio Muraca (Generale di corpo d’armata e partigiano) I soldati italiani, in condizioni difficilissime, soprattutto dopo il proclama di Badoglio e la fuga del re, mostrarono sul campo tutto il loro valore pagando un altissimo tributo di sangue nei vari Paesi d’Europa dove si trovarono a combattere. Ecco una ricostruzione della Resistenza del nostro esercito all’estero. FRANCIA Le quattro divisioni della 4ª Armata, di stanza nella Provenza francese, erano ancora in buone condizioni morali e materiali alla data dell’armistizio. L’attività operativa, a fronte del movimento partigiano del maquis ancora poco organizzato, non aveva comportato un grande dispendio di energie, tanto più che il Comando supremo italiano, ancora prima dell’8 settembre, anche se contrastato da quello tedesco, aveva approntato un piano di rientro in Patria di tutte quelle divisioni. All’atto dell’armistizio, questo movimento stava avvenendo, a piedi, poiché si era deciso di utilizzare tutti gli automezzi per il carico ed il trasporto dei materiali. Fu così che, l’8 settembre, una enorme massa di uomini appiedati fu sorpresa in cammino, sui vari itinerari costieri e montani, verso il Piemonte e la Liguria. Al loro seguito, è bene ricordarlo, marciava un cospicuo numero di famiglie ebree, che cercavano scampo alla ormai certa cattura da parte nazista. Il generale Vercellino, comandante della 4ª Armata, aveva ricevuto la “memoria 44” e sapeva di doversi opporre all’ex alleato e aveva diramato gli ordini necessari. Ma i tedeschi sapevano meglio dei nostri quello che stava per accadere e misero subito in atto un piano preordinato per bloccare porti, stazioni ferroviarie, nodi stradali e passi montani, così che poche loro unità, estremamente mobili e dotate di mezzi corazzati, impedirono ogni possibilità di transito agli italiani in lenta marcia di trasferimento e impreparati allo scontro. I combattimenti furono numerosi ma sporadici: al Moncenisio, al Col di Tenda, alla stazione ferroviaria di Nizza, a Mentone e altrove. Mancò tuttavia la volontà di proseguire in tale azione e prevalse invece il desiderio istintivo di guadagnare la via di casa. Perciò, quando ancora le sorti potevano essere giudicate incerte, il generale Vercellino, il giorno 10 settembre, decideva di sciogliere l’Armata e di mettere i suoi uomini in libertà: una decisione clamorosa che ancora fa riflettere. La causa: il timore di rappresaglia sulla popolazione civile. Migliaia di uomini poterono così raggiungere l’Italia. Chi non riuscì a farlo, restò nascosto in Francia, ma la massa venne catturata e internata. Tanti di quelli che raggiunsero il Piemonte e la Liguria, ufficiali, sottufficiali e soldati passarono al movimento partigiano divenendo il nerbo di quelle formazioni. Anche fra coloro rimasti in Francia, molti si unirono al movimento del maquis, ove vennero accolti con amicizia, e combatterono per la libertà della Francia. Purtroppo De Gaulle, dopo la resa tedesca, ordinò che, indistintamente, tutti i militari italiani in territorio francese, che avevano combattuto per la sua causa, venissero internati, spesso negli stessi campi dei tedeschi. Fu una decisione ingiusta, che gli italiani cercarono in parte di eludere. Per questo quei militari sono rimasti sino ad oggi “eroi senza nome né bandiera”, misconosciuti, perfino nel loro diritti: la loro esperienza è stata amara e ingenerosa. CORSICA L’isola, occupata dalle forze dell’Asse nel 1942, è stata l’unico paese in cui le divisioni italiana “Cremona e Friuli” dopo l’8 settembre, hanno potuto combattere secondo i metodi convenzionali ed aver ragione di una divisione corazzata tedesca ed una brigata motorizzata SS. Merito principale va al comandante delle “truppe italiane della Corsica”, generale Giovanni Magli, ed ai suoi uomini, rimasti disciplinati e bene inquadrati. Un esempio altamente significativo di ciò che si sarebbe potuto attendere anche altrove, con il prestigio di un capo. Alcuni giorni prima dell’armistizio era pervenuta al Magli la “memoria 44” sul comportamento da tenere con i tedeschi, in caso di loro probabili reazioni. Perciò, la situazione era tenuta sotto controllo. A nulla valsero le due visite del generale Kesserling nell’isola, per indurre il Magli ad una più stretta collaborazione. Così, quando la 90ª divisione tedesca, proveniente dalla Sardegna, si accinse ad attraversare l’isola per imbarcarsi a Bastia, facendosi scudo della Brigata SS, fu scontro, a volte durissimo, lungo tutto l’itinerario di trasferimento. Negli ultimi giorni di settembre giunsero in aiuto ad Ajaccio unità francesi della 1ª divisione marocchina, ma solo dopo che gli italiani avevano sopportato la parte più dura dei combattimenti. Da quel momento, le operazioni sul fronte di Bastia proseguirono congiuntamente, fra italiani e francesi. La 90ª corazzata tedesca e la brigata SS furono costrette ad imbarcarsi, subendo gravissime perdite ed abbandonando gran parte del loro materiale, tanto che questo episodio potrebbe rappresentare la vera Dunkerque tedesca della seconda guerra mondiale. Da notare che i bersaglieri entrarono per primi nella città, ma poi lasciarono questo onore ai francesi. Alle unità italiane vennero in seguito ritirate le armi pesanti, per consegnarle agli alleati, secondo le clausole armistiziali, mentre il generale De Gaulle si rifiutava persino di stringere la mano al generale Magli, il vero liberatore della Corsica. Fu una grande amarezza per gli italiani. Le nostre divisioni rientrarono solo alcuni mesi dopo in Patria, per costituire i due omonimi gruppi di combattimento della guerra di liberazione. JUGOSLAVIA Sul vasto territorio occupato dall’Asse, in parte dai tedeschi (Serbia e Croazia), in parte dagli italiani (2ª Armata e VI e XIV Corpo d’Armata in Slovenia, Dalmazia, Erzegovina, Montenegro, Bosnia, fino al Kossovo) le vicende delle nostre divisioni furono le più varie. Dalle disperate marce verso i confini, per quelle più vicine, conclusesi in una gigantesca retata da parte tedesca, in corrispondenza dei valichi di Fiume e di Trieste, fino ai durissimi scontri con gli ex alleati, man mano che cercavano di sottrarsi alla cattura. Fu in Jugoslavia che fiorirono alcuni degli episodi più nobili e le più lunghe, accanite e sanguinose vicende resistenziali. Per motivi di spazio, conviene citarne solo alcune, come la pronta costituzione dei battaglioni partigiani “Mameli”, “Budicin”, “Fontanot”, “Zara” ed altri ancora, nell’area dalmatina ed istriana, presto scomparsi nel crogiolo di una spietata repressione tedesca, che non sopportava di vedere insidiate le sue retrovie, fino alla “Brigata Italia”, che combatté, attraverso tutta la Jugoslavia e ben oltre, fino alla fine della guerra in Italia, ed alla Divisione “Garibaldi”, unica grande unità italiana all’estero, che mantenne caratteristiche nazionali, con le sue uniformi ed i regolamenti dell’epoca. I motivi essenziali di queste straordinarie vicende furono: rifiuto alla cessione delle armi; la fedeltà al giuramento prestato; la rabbia per l’abbandono da parte degli Alti comandi, anche se molti di essi, fino a livello di divisione, rimasero sino all’ultimo vicini alle loro unità e si sacrificarono con esse. La maggior parte di quei soldati sperimentò quanto lunga, terribile e sanguinosa fosse la lotta partigiana nelle fila dell’esercito di Tito, in un territorio fino al giorno avanti ostile e straniero, di lingua e costumi diversi, dove spesso si chiedeva ad essi di dimostrare, con il loro sacrificio, di riscattare le colpe di un fascismo, cui essi erano rimasti totalmente estranei. Eppure, la loro volontà di resistere, di non cedere, di non consegnarsi ai più vicini presidi tedeschi che continuarono ad invitarli con tutte le lusinghe possibili, fu al di sopra di ogni immaginazione. I morti in combattimento, per fame o per malattie ed il micidiale tifo petecchiale, che decimò intere brigate italiane, furono circa ventimila. L’idea che si ricava da questa, così come dalle altre esperienze della guerra di liberazione all’estero, da parte italiana, è quella di una sovrumana capacità di resistere e di soffrire, espressa dal soldato italiano, sicuramente superiore ad ogni altro esempio di eserciti europei. ALBANIA Il paese era stato incorporato all’Italia, sotto forma di Regno di Albania. La situazione militare dell’8 settembre è bene illustrata dal seguente stralcio della relazione del generale Rosi, comandante del Gruppo Armate Est, con sede a Tirana: “Gli avvenimenti dimostrarono che l’azione travolgente delle masse tedesche, bene armate ed equipaggiate (4 divisioni di fanteria, 1 divisione da montagna), era preparata da lunga mano dai loro Comandi, ai quali certamente era noto ciò che a noi era invece ignoto, perché nulla conoscevamo delle trattative condotte dal Governo di Roma e continuavamo ad agire, in buona fede, nei confronti dei tedeschi”. Questi, dopo il 25 luglio, avevano appoggiato il movimento separatista albanese nel Kossovo; gli alleati erano per un governo libero albanese all’estero; i partigiani, per un governo comunista nell’Albania meridionale. Di qui, un intreccio di interessi che fu difficile comprendere e dipanare da parte italiana. In queste condizioni, la notizia dell’armistizio giunse al Comando del generale Rosi soltanto alle ore 18 dell’8 settembre. Essa venne subito smentita da Roma, ma poi confermata alla ore 20, cioè dopo la cessazione delle ostilità. Il Comando supremo italiano dette ordine alle unità di raggiungere la costa. Ma ormai era troppo tardi. Il morale era basso. Le unità tedesche erano già penetrate profondamente in Albania, fino al porto di Durazzo, ove si verificarono aspri combattimenti; le comunicazioni telefoniche coi vari comandi di divisione vennero interrotte. A quel punto, il giorno 10, il generale Rosi dette l’ordine di consegnare le armi pesanti ai tedeschi, con la fallace promessa del rimpatrio. Solo la divisione “Firenze” non vi credette e si salvò quasi per intero, sfuggendo sulle montagne, al seguito del suo comandante, il generale Arnaldo Azzi. In quei frangenti, tumultuosi e incerti, anche la divisione “Perugia” merita una particolare menzione, per i sacrifici sopportati ed i combattimenti intrapresi sulla via della salvezza verso il mare. Fu una tragica “anabasi”. La grande unità visse giornate terribili nel tentativo di raggiungere ora un porto ora un altro, a seconda degli ordini ricevuti, qualche volta falsi. La tragedia si concluse a Porto Edda, con la esecuzione in massa degli ufficiali e sottufficiali che avevano combattuto. Il suo comandante gen. Chiminello, ebbe mozzata la testa dalle feroci bande albanesi, alleate coi nazisti. Fu soprattutto la speranza dell’imbarco, sempre più irraggiungibile, ad animare le lunghe marce di migliaia di soldati, i quali, pur di raggiungere il mare, combatterono e vennero via via disarmati, depredati, spogliati di tutto. Il ten. col. Emilio Cirino, comandante di un battaglione, andò a Bari, per far presente la tremenda situazione della divisione e, malgrado invitato a restare, tenne fede alla parola data e tornò in Albania, ove venne catturato e fucilato. Due esempi su mille. Il gen. Azzi, con migliaia di soldati, era intanto salito in montagna, ove aveva costituito il Comando Italiano Truppe Alla Montagna, con la sua divisione ed elementi della “Arezzo”, “Brennero”, “Perugia”, “Ferrara” e “Parma”. Da essi nascerà il battaglione “Gramsci”, poi diventato brigata, che partecipò a tutta la campagna, fino alla liberazione di Tirana, in cui entrò da vincitore. GRECIA CONTINENTALE E DEL MAR JONIO Il territorio era presidiato dalla 11a Armata, con ben sette divisioni. Il movimento partigiano greco, pur diviso in fazioni ostili fra loro, aveva messo a dura prova e logorato le nostre unità, in particolare nei presidi dell’interno. La malaria era devastante: la lontananza dalle famiglie, persino di anni, a causa della mancanza di razionali turni di licenze, stava producendo effetti debilitanti nell’animo di ufficiali e soldati. Inoltre, una eccessiva vicinanza sentimentale e materiale (specie nei centri cittadini) fra la popolazione greca e i nostri militari, se pure stigmatizzata da continue disposizioni, aveva finito per erodere lo spirito combattivo della truppa, ormai in attesa, dopo lo sbarco alleato in Sicilia, della fine della guerra. Per di più, le motivazioni di una occupazione e di una controguerriglia, verso un popolo che continuava a ricordarci : “una faccia, una razza”, erano divenute fiacche ed inconsistenti; i vincoli della disciplina si erano perciò allentati. Così, l’8 settembre, fu la resa dei conti di tutto questo. L’Armata cosiddetta “Sagapò” o “dell’amore”, crollò di schianto. C’è da aggiungere che troppo improvviso fu l’annuncio dell’armistizio, che lo stesso Comando dell’Armata conobbe solo il giorno 8, senza alcuna preventiva informazione. A quel punto troppo lontana e irraggiungibile si presentava la propria casa e troppo rapida e spietata fu la reazione dei tedeschi, che si erano mantenuti, altezzosamente estranei ad ogni forma di solidarietà con la popolazione civile. Le loro unità, come al solito raggruppate e robustamente armate, (così come le nostre erano invece sparpagliate e povere di mezzi), bloccarono i nostri comandi più elevati e fecero prigionieri i loro comandanti, d’un sol colpo. Solo una divisione ebbe il tempo di sfuggire alla morsa: la “Pinerolo”, la quale, col suo comandante, generale Aldo Infante, in testa, si avviò in montagna, ove stipulò un patto di alleanza con le due maggiori fazioni partigiane, sottoscritto dalla missione inglese; patto che, malgrado il successo di alcune ardite operazioni da parte italiana, venne tradito dai partigiani comunisti dell’Elas, avidi delle nostre armi , del nostro materiale, persino dei nostri beni personali, per conquistare la supremazia sulle altre fazioni. La resistenza degli italiani in Grecia, si frantumò così in episodi personali e di piccole unità, da parte di coloro che, armati o meno, vollero continuare a combattere per la libertà della Grecia o mantenersi ostinatamente liberi, soffrendo fame ed inenarrabili stenti, rifugiandosi presso le famiglie di quei greci che vollero ospitarli. E furono migliaia! Vennero persino creati dai partigiani dei veri e propri campi di concentramento per i militari italiani, dopo il loro proditorio disarmo: provvedimento forse necessario ma disumano che, se non fosse stato per l’intervento degli inglesi, si sarebbe trasformato in una ecatombe, come in parte avvenne. Diverso il discorso per i presidi delle isole dello Jonio che, in quanto tali, godevano di una certa autonomia e si opposero alla resa: Cefalonia e Corfù bastano da soli a riscattare il cedimento dell’Armata in Grecia e costituiscono esempi di inarrivabile eroismo. ISOLE GRECHE DEL MAR EGEO Isole grandi come province o piccole come scogli, articolate in arcipelaghi dai nomi mitologici; un insieme di isole, a perdita d’occhio, costellate da presidi spesso di una sola squadra, fra i quali si comunicava con inaffidabili radio gracidanti e persino con bandiere a lampo di colore; una situazione militare che si trascinava placida e sonnolenta, lontana dal rumore della guerra, dove la natura la faceva da padrona e attenuava, ma al tempo stesso acuiva, il senso della solitudine e della lontananza da casa. Un dovere da compiere, ormai, più per abitudine che per necessità tanto da accreditare la descrizione che ha fatto attribuire l’Oscar al regista Salvatores, con il suo “Mediterraneo”, premiato dagli americani per quel suo sottile sarcasmo verso ogni forma di militarismo, che, nel film, appare persino sbracato e irridente per noi italiani. Ed è qui che si compiono, l’8 settembre ’43, episodi di grande valore così come di fatale abbandono al destino, secondo i canoni delle più varie reazioni dell’uomo, che può dimostrarsi ribelle od imbelle, al tempo stesso. Ed è qui che gli inglesi, mettendo faticosamente insieme un raggruppamento da sbarco, all’impronta dell’improvvisazione, perché pressati dalle violenze verbali di un Churchill, memore della prima guerra mondiale, tentarono di occupare una base di partenza per una più ambiziosa operazione a vasto raggio, che li portasse ad insidiare alle spalle lo schieramento tedesco in Grecia ed in Bulgaria. Così gli italiani subirono la sorpresa, non solo dell’improvviso armistizio, ma anche dell’apparizione degli inglesi, mai visti prima d’allora, con i loro mezzi di combattimento, le armi sconosciute e l’abbondanza dei rifornimenti, dalle munizioni al pane bianco, alle razioni K, al rhum. E ebbero così inizio, da una parte i giorni di una fragile collaborazione italo-inglese, fatta di stupori, di imbarazzati comportamenti anglosassoni, davanti alle nostre pressanti richieste di aiuto, e poi, di scontri violenti, di morti comuni e, infine, di rese successive ed ineluttabili che, per gli inglesi, volevano dire una onorevole prigionia, ma per gli italiani significavano fucilazioni e campo di concentramento o, nel migliore dei casi, il trasferimento via mare che però, appena al largo, diventava spesso siluramento, naufragio, annegamento in massa, mitragliamento da parte degli equipaggi tedeschi, per migliaia e migliaia di uomini. Furono queste le tappe senza fine di un rosario di vicende eroiche e crudeli, cui andarono soggette le nostre unità del Dodecanneso. In questo quadro i combattimenti di Rodi, Lero, Coo, Simi, Samo, costituirono esempi di orgogliosa ribellione all’arroganza tedesca, i quali, con la tattica del carciofo, riuscirono ad avere ragione, conquistando le isole una per una, della resistenza degli italiani e dell’impreparazione con cui gli inglesi si erano inseriti tardivamente in una operazione condannata all’insuccesso. GLI INTERNATI Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’entità dei militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi, fu la terza, in ordine di grandezza, dopo quella dei russi e dei francesi, ma per motivi diversi da questi ultimi. Le cause principali furono: il non aver correttamente interpretato il significato della caduta del regime fascista, il 25 luglio, cui fece seguito la sibillina frase del maresciallo Badoglio, “la guerra continua” ed il disarmo morale all’annuncio dell’armistizio, di fronte al massiccio e aggressivo intervento tedesco, in Italia nei territori occupati dall’Asse. Alla rapidità, determinazione e crudeltà con cui gli ex alleati risposero al presunto tradimento, applicando un piano di cattura e disarmo studiato a lungo, ancor prima della caduta di Mussolini, fece riscontro, la più assoluta sorpresa ed impreparazione a reagire delle forze armate italiane, alle quali il Comando supremo aveva tenuto nascosto, fino all'ultimo, l’imminente dichiarazione di resa. Ma ben presto la maggior parte di esse seppe valutare la gravità della situazione in cui erano precipitate ed espresse una forza nuova, inaspettata ed insolita, quando la fine della guerra poteva invece essere considerata come una liberazione da ogni impegno combattivo ed una comoda scappatoia per adeguarsi docilmente al “diktat”dei tedeschi. Quella forza nuova fu l’affermazione della comune volontà di resistenza, in condizioni che imponevano un profondo spirito di sacrificio, una tenacia senza limiti, umiliazioni e privazioni. Accurate ricerche del dopo guerra hanno accertato la presenza di ben settantanove campi di internamento per italiani in Germania, Austria, Polonia e altrove. Il numero di quelli che, dopo enormi sofferenze, morali e fisiche, poterono rimpatriare, fra il 1944 e il 1947, fu di 18.713 ufficiali e 739.575 sottufficiali e truppa; la maggior parte di essi, di fronte all’alternativa di collaborare con le forze germaniche o della Repubblica Sociale, in regolari unità armate o nei servizi ausiliari, avevano risposto negativamente; cosicché la resistenza cosiddetta “del filo spinato” divenne, per la vastità del fenomeno, una delle più significative pagine della storia militare italiana. CONCLUSIONI È difficile trarre conclusioni esaurienti da una così vasta e complessa storia, fra l’altro assai poco conosciuta e, che interessa vari Paesi, ciascuno con caratteristiche diverse. Tuttavia una cosa può essere detta, a denominatore comune di tutte le vicende descritte: e cioè le enormi difficoltà che i militari italiani hanno dovuto fronteggiare, senza un’adeguata preparazione materiale e morale, nell’affrontare una situazione nuova ed inesplorata. Questa era essenzialmente costituita dalla necessità di una operazione armata contro i tedeschi, addirittura con uno stravolgimento delle alleanze e, in contemporaneità con l’adesione, personale o collettiva, alla lotta partigiana in un paese straniero. Specie quest’ultima, se poteva rappresentare un’alternativa, richiedeva tuttavia notevoli doti di adattamento a regole nuove, spesso in contrasto con quelle precedenti, oltre che una straordinaria capacità fisica e morale, dopo il crollo della organizzazione militare preesistente. Di tali doti non tutti erano in possesso. Di qui, la fatalità delle enormi perdite e dei numerosi abbandoni, fra i nostri soldati, per la incapacità di reggere ai tedeschi e al passo con i partigiani del luogo e l’impossibilità di resistere alle prove, quasi sovrumane, di una vita di stenti, malattie ed esperienze traumatiche, in una situazione costellata di contrasti e di incertezze continue. E comunque, il quadro che se ne ricava è quello di un soldato italiano non inferiore a nessuno altro dei Paesi belligeranti, per spirito di sacrificio, senso dell’onore e generosità verso gli altri popoli.
Filippo Bonaviticola (Montella 1914 – Branovo 1944) Filippo nasce a Montella, in provincia di Avellino, il 3 settembre 1914. La sua è una famiglia numerosa, lui è il primo di sette tra fratelli e sorelle. Il papà Domenico e la mamma Maria Michela Perillo sono contadini e, nel 1927, la famiglia si trasferisce a Cassano Irpino, a tre chilometri da Montella, dove è riuscita ad acquistare un podere. Dopo aver fatto il militare ed aver
ottenuto il congedo illimitato, viene richiamato alle armi il 14 gennaio 1939
e, assegnato al 2° Reggimento di Fanteria, parte volontario per combattere in Spagna,
dalla parte dei franchisti. Filippo
è uno dei tanti giovani cresciuti alla scuola fascista che li educa a diventare
combattenti per la “Nuova Italia” ed esalta la fedeltà alla patria come fedeltà
allo Stato fascista, per questo sente il dovere di servirla quando Mussolini
appoggia il generale Franco contro la repubblica spagnola. Solo, più tardi,
scoprirà un altro significato di “patria”, quando il regime fascista porterà
l’Italia allo sfascio. Anche Filippo decide di unirsi ai partigiani albanesi ma, il 14 dicembre 1943, ferito in uno scontro a fuoco nella zona di Berat, viene fatto prigioniero e detenuto nelle carceri di Elbasan; sebbene sottoposto a lunghi ed estenuanti interrogatori non rivela nessuna informazione utile a catturare i suoi compagni e nell’aprile del 1944 viene trasferito a Branovo, in Slovacchia. Durante il tragitto evade ma viene nuovamente catturato. In ottobre, evade dal Campo di Branovo e si unisce ai partigiani slovacchi, operando nella zona di Hurbanovo. Tuttavia, viene preso ancora una volta e rinchiuso nella fortezza di Micolizzi. Tenta un’altra evasione ma viene scoperto e fermato quando sta per realizzarla. L’8 dicembre 1944, viene processato e condannato a morte. Viene fucilato nel Campo di Branovo alla presenza di centocinquanta prigionieri perché serva da monito. La Motivazione della medaglia d’oro al Valor Militare che gli viene concessa alla
memoria celebra simbolicamente il comportamento di tanti militari italiani che
all’indomani dell’8 settembre si sono uniti alla lotta partigiana:
Lezione 4: a cura di Federica Artali 9 novembre 2015: Carabinieri e finanzieri nella guerra di Liberazione
Documenti STORIA DI UN EROICO MILITE CHE SI RIFIUTO’ DI FUCILARE 8 ANTIFASCISTI Da “Lettera ai Compagni”. Contributo di Mario ANIASI Alla caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943, le forze comandate al mantenimento dell’ordine pubblico carabinieri e agenti di polizia) ricevettero dal generale Badoglio la disposizione di rimanere al loro posto e di svolgere rigidamente i loro compiti istituzionali: in particolare, qualunque manifestazione, da qualsiasi parte avesse origine, andava repressa, se necessario, anche sparando ad altezza d’uomo e non in aria. Tale ordine fu applicato alla lettera. Fra il 26 ed il 30 luglio si ebbero tra i manifestanti 83 morti e oltre 300 feriti mentre 1500 furono gli arrestati, la gran parte dei quali provenienti da movimenti antifascisti (ma il numero aumenta se si calcolano anche quei lavoratori sorpresi a scioperare, diritto questo soppresso dal fascismo e, in quanto proibito, sanzionabile con l’arresto). Tale situazione si protrasse sino all’armistizio dell’8 settembre. Dopo tale data, quello dei carabinieri fu l’unico corpo militare a non essere abbandonato, e quindi a non scompaginarsi. Durante l’occupazione nazista questo atteggiamento costò caro ai carabinieri che furono esposti a molte rappresaglie, perché la loro presenza impediva ai tedeschi di essere gli unici arbitri dell’ordine pubblico. In questo periodo molti di loro furono disarmati e circa 1500 deportati in Germania; molti altri invece, specie nelle zone in cui preminente era la presenza nazista, si sbandarono e non pochi raggiunsero, con tutti gli armamenti e sotto la guida dei loro comandanti, i raggruppamenti partigiani che si andavano costituendo. Infine, i rimanenti si unirono alla GNR costituita dalla RSI con gli stessi compiti istituzionali. Tutto ciò avvenne però molto gradatamente, e fino ai primi mesi del 1944 i carabinieri, in molte zone, mantennero la loro identità e i loro comandanti. Spesso, specie nei piccoli centri le stazioni dei carabinieri costituirono anche la fonte principale di armi per i partigiani, che approfittarono anche della connivenza dei carabinieri stessi. In questo periodo di dispersione dei compiti e dei comandi molti sono stati gli episodi di eroismo e di abnegazione di carabinieri a difesa della popolazione civile dai soprusi fascisti e tedeschi. Un fatto poco ricordato è il comportamento del tenente dei Regi carabinieri Avezzano Comes di 28 anni in servizio a Genova presso il comando di via Corsica con il compito di vigilare su gallerie e rifugi antiaerei. La mattina del 10 gennaio 1944 il tenente venne convocato in questura dove gli fu ordinato di recarsi con un plotone di 20 carabinieri al Forte San Martino per un imprecisato servizio di ordine pubblico. Arrivato sul posto il plotone, che si era avviato a piedi, fu raggiunto da una macchina dalla quale scesero alcuni militi fascisti e il colonnello Grimaldi. Poco dopo arrivò un camion dal quale furono fatti scendere otto uomini tumefatti e malconci accompagnati da un frate cappuccino, ed alcune vetture con una decina di fascisti e un ufficiale delle SS. Il Colonnello Grimaldi fece disporre i carabinieri di fronte agli otto uomini malconci e ordinò al tenente Avezzano di eseguire la sentenza emessa dal tribunale speciale fascista la sera precedente e cioè la fucilazione degli stessi. All’ordine il tenente oppose un netto rifiuto motivandolo: i suoi superiori avevano semplicemente disposto di svolgere un servizio di ordine pubblico. Nonostante la minaccia di essere egli stesso passato per le armi, l’Avezzano mantenne il suo rifiuto. Visto tale atteggiamento il Colonnello della milizia Grimaldi, dopo aver minacciato il tenente, diede lui l’ordine di procedere alla fucilazione ma i carabinieri risposero puntando i moschetti in alto. Allora tedeschi e fascisti si sostituirono ai carabinieri e spararono contro gli otto “ribelli”: su di loro si scagliò poi il tenente medico fascista presente, (successivamente si scoprì non essere né medico né tenente ma un semplice infermiere) e li finì brutalmente. La condanna alla fucilazione degli otto antifascisti era stata decisa la sera precedente dal tribunale speciale convocato d’urgenza dal questore Basile che aveva chiamato a farne parte il colonnello dei carabinieri Alois, quale ufficiale più anziano a Genova che però si rese irreperibile. Allora l’incarico venne passato al comandante delle GNR colonnello Grimaldi (dimostrazione che carabinieri e GNR erano ancora divisi). Il colonnello Alois, (che non era affatto scomparso) la mattina seguente affidò al tenente Avezzano Comes l’incarico di recarsi al forte San Martino. Dopo il rifiuto ad eseguire la fucilazione, il tenente rientrò in caserma dove distrusse l’ordine di servizio con i nomi dei venti carabinieri che lo avevano accompagnato e ricevette i complimenti del Ten. Colonnello Rizzo che unitamente al colonnello Alois fece di tutto per evitare al ten Avezzano Comes probabili vendette da parte fascista nominandolo comandante della compagnia di Albenga. Ma la vendetta fascista lo raggiunse: anche Avezzano Comes venne arrestato e associato alle camere di sicurezza tedesche, interrogato e seviziato, per poi essere avviato alla deportazione in Germania. Riuscito a fuggire dal carro bestiame nel quale si trovava a Verona durante un bombardamento aereo, ritornò in Liguria dove si mise in contatto con una banda partigiana formata da ex carabinieri. Denunciato da una spia, fu di nuovo arrestato e sottoposto a orribili sevizie da parte del famoso boia di Albenga e delle SS, nel tentativo inutile di estorcergli i nomi dei suoi superiori coinvolti nell’eccidio di Forte San Martino. Rimase in carcere sino alla Liberazione. lettera ai compagni - Mensile della FIAP – Settembre-Dicembre 2010 - Anno XLII - N. 5-6 - pp. 19-20
Sitografia I CARABINIERI NELLA RESISTENZA (Dal sito dell’Arma dei Carabinieri). Subito
dopo l'armistizio, in data 12 settembre 1943, venne costituito a Bari il "Comando Carabinieri dell'Italia Meridionale"
cui succedette, in data 15 novembre successivo, il "Comando dell'Arma dei Carabinieri dell'Italia
Liberata" dal quale dipendevano le Legioni di Bari, Cagliari,
Catanzaro e Napoli. Nel Veneto l'azione dei patrioti della
Brigata "Giacomo Matteotti"
si avvalse del prezioso contributo apportato dalla "Compagnia Carabinieri Partigiani",
forte di 100 uomini comandati dal tenente Luigi Giarnieri e posta alle
dipendenze dirette della stessa Brigata avente il suo Comando Unico sulla cima
del Grappa. Di fronte all'intensissima attività dei partigiani del Monte
Grappa, i tedeschi decisero di reagire.
LE FIAMME GIALLE NELLA RESISTENZA (Dal sito del Ministero della Difesa). L’opera esercitata dai finanzieri in tale ambito ebbe inizio all’indomani del fatidico 8 settembre 1943, riguardando sia il territorio nazionale che altre aree a noi vicine. Nei Balcani, ad esempio, i finanzieri del VI e del XV battaglione, che formarono unità organica comandata da un ufficiale del Corpo, entrarono a far parte della gloriosa Divisione “Garibaldi”, al fianco della quale si distinsero in memorabili azioni di guerriglia, ma soprattutto per l’alto tributo di sangue versato alla causa del riscatto. In Grecia, a Corfù, a Cefalonia ed a Zante, le “Fiamme Gialle”, appena ricevuta notizia dell’Armistizio, si unirono ai reparti dell'Esercito nella comune lotta contro i tedeschi, condividendone anche la sorte. Ai combattenti del I battaglione dobbiamo, oltre al sacrificio, anche la Medaglia d'Oro al Valor militare di cui oggi si fregia la Bandiera del Corpo. Accanto all’eroica azione dei reparti, si affiancò molto spesso quella dei tanti singoli finanzieri. E della Medaglia d'Oro al Valor Militare furono insigniti anche il Maresciallo Maggiore Vincenzo Giudice, immolatosi a Bergiola Foscalina (Massa Carrara) nel tentativo di salvare le vittime di un rastrellamento tedesco, nonché il Brigadiere Mariano Buratti, capo di una banda partigiana operante a Roma e nel Lazio, fucilato a Forte Bravetta dopo aver subito indicibili sevizie a Via Tasso. Nel territorio nazionale, i finanzieri ebbero modo di portare aiuto alla popolazione angariata dall’occupazione militare, ma soprattutto esasperata dalle continue vessazioni e dalle persecuzioni. Fin dai primi momenti, i nostri militari fecero argine comune contro l'oppressore, salvando così molti profughi ebrei e ricercati, collaborando attivamente con le formazioni partigiane, cui apertamente o clandestinamente avevano aderito. Nei Comitati di Liberazione Nazionale di varie Regioni d’Italia, nei battaglioni del Corpo Volontari della Libertà, nelle Squadre e nei Gruppi di Azione Patriottica, le “Fiamme Gialle” organizzarono e compirono innumerevoli azioni di sabotaggio e di contrasto alle forze armate nemiche. A Roma, fin dai primi dell'ottobre 1943, i rappresentanti del Corpo presero contatto con i Capi del Fronte della Resistenza, concretando così l'inserimento dei finanzieri nell'organizzazione patriottica, la quale si avvalse non solo dell'opera di elementi ben addestrati per le operazioni di guerriglia, ma anche del supporto morale e logistico di un solido apparato militare. Un battaglione del Corpo prese anche parte allo sbarco di Anzio ed alla liberazione di Roma, inquadrato nella V Armata americana. A Milano ed in quasi tutto il Nord Italia, l’opera del Corpo in favore del movimento resistenziale previde ogni forma d’aiuto alle bande partigiane, così come concordato con i vertici del Comitato di Liberazione Nazionale. Già nel febbraio 1945, il Colonnello Alfredo Malgeri, Comandante della Legione di Milano, predispose, d'accordo con il CLN, il piano insurrezionale che programmava l'impiego della Guardia di Finanza, a quel punto “unica forza regolare, militarmente organizzata, posta al servizio della causa”. Fu, quindi, preparato un piano per l’occupazione della frontiera italo-svizzera, furono impartite tutte le necessarie disposizioni affinché l’ordine fosse eseguito: contemporaneamente ed ovunque. Dopo colpi di mano che portarono alla acquisizione di mezzi blindati e di copiose armi e munizioni, dopo che il prefetto designato per Milano dal CLN si era insediato nella Caserma di Via Melchiorre Gioia (sede del Comando di Legione), la sera del 25 aprile 1945, i finanzieri occuparono i locali del “Popolo d'Italia” e nella notte sul 26, inquadrati in un reggimento di formazione con in testa il Colonnello Malgeri, con un’operazione fulminea, occuparono i settori loro assegnati dal piano e cioè: la Prefettura, il Municipio, il Palazzo della Provincia, la Stazione dell'E.I.A.R. ed altri edifici strategici. I tedeschi si arresero, pur disponendo di forze ragguardevoli. Nel medesimo contesto storico, non meno valorosa, infine, fu l'azione del Corpo in altre Regioni d'Italia, quali l’Umbria, la Toscana, la Liguria, il Piemonte e la Venezia Giulia. A Genova, nei giorni dell'insurrezione, i finanzieri presero viva parte al rastrellamento della città, attaccando le caserme ancora occupate dai tedeschi, difendendo dalla prevista distruzione le opere del porto, curando l'ordine pubblico e catturando un’intera colonna dell'artiglieria germanica. Nella Venezia Giulia, specialmente a Trieste, molti furono i Caduti del Corpo ed altissimo il merito degli interventi e delle operazioni di singoli militari e di interi reparti delle Fiamme Gialle. Il valore, l’abnegazione ed i sacrifici sostenuti dai finanzieri durante la Resistenza e nella Guerra di Liberazione sono stati tangibilmente premiati con la concessione, avvenuta nel 1984, della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Bandiera di Guerra del Corpo. Lo stesso Generale Cadorna, Capo militare del Comitato di Liberazione Nazionale, in una sua celebre lettera, indirizzata il 4 maggio 1945 al Comando della Guardia di Finanza di Milano, scrisse: “Le Fiamme Gialle, custodi dei confini della Patria, si sono ancora una volta trovate in linea quando è suonata l’ora dell’insurrezione per la cacciata dell’oppressore (.) Per la loro disciplina e la loro fermezza, esse hanno reso grandi servizi alla Causa della Libertà”.
Biografia di Salvo D’Acquisto Vice
brigadiere dei Carabinieri (Napoli, 17 ottobre 1920 - Torre di
Palidoro, Roma, 23 settembre 1943) Medaglia
d'Oro al V.M. - Arruolatosi volontario nell'Arma dei Carabinieri il
15 agosto 1939, divenne carabiniere il 15 gennaio 1940. Il 28 ottobre dello
stesso anno venne mobilitato con la 608a Sezione Carabinieri e sbarcò a Tripoli
il 23 novembre successivo. Tornato in Patria, dal 13 settembre 1942 fu
aggregato alla Scuola Centrale Carabinieri di Firenze per frequentarvi il corso
accelerato per la promozione a vice brigadiere, grado che conseguì il 15
dicembre successivo. Una settimana dopo venne destinato alla stazione di
Torrimpietra, una borgata a 30 km. da Roma. Lezione 5: a cura di Roberta Fossati 23 novembre 2015: Donne al fronte: le volontarie della CRI ABSTRACT DELLA LEZIONE: Fin dal settembre 1943, Unità Militari
della Croce Rossa si prodigarono per il soccorso ai feriti durante i
combattimenti per la difesa di Roma (Porta S.Paolo) ed in tutti i Presidi che
tentarono di opporre resistenza all'invasore. La Divisione Garibaldi operò in Jugoslavia dal 1943 al 1945, inserita come Unità dell'esercito Italiano, nell’Esercito Popolare Liberatore Jugoslavo (E.P.L.J.) combattendo così il nazifascismo in Montenegro, Bosnia, Erzegovina, Serbia, Kosovo. La Divisione comprendeva il Comando con un reparto scorta, quattro brigate composte da alpini della Divisione “Taurinense” e dai fanti della Divisione “Venezia” cui si aggiunse, ai primi di agosto del 1944 una nuova brigata, la V, al comando del Cap. Angelo Graziani, un reparto di artiglieria, un ospedale. Fin dal settembre 1943, unità militari della Croce Rossa si prodigarono per il soccorso ai feriti durante i combattimenti per difesa di Roma (Porta San Paolo) ed in tutti i presidi che tentarono di opporre resistenza all’invasore. In particolare esse presero parte alle operazioni per la liberazione della Sardegna. Nei Balcani l’armistizio sorprese un Gruppo di Ospedali da Campo C.R.I. (mobilitato), dislocato in Montenegro e articolato su tre Ospedali attendati, il 73°, il 74° e il 79°. I resti di tali formazioni dopo giorni di marcia a piedi si ricongiunsero con le divisioni "Venezia" e "Taurinense", confluendo quindi nella Divisione italiana partigiana "Garibaldi" ove operarono fino al termine del conflitto. In Italia formazioni organiche del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana venivano impiegate nell’ambito del rinato esercito alle dipendenze del Corpo Italiano di Liberazione (C.I.L.) nella 209ª Divisione Italiana ausiliaria e con il Comando Italiano 212. Successivamente furono impiegate nei Gruppi di Combattimento. Con la partecipazione attiva alla Resistenza, suggellata con l’olocausto delle Fosse Ardeatine di due Ufficiali, il Tenente medico CRI Luigi Pierantoni ed il Sottotenente Commissario CRI Guido Costanzi, il Corpo Militare della Croce Rossa Italiana costantemente vicino alle Forze Armate ed al popolo, dava alla Resistenza all’estero e alla Guerra di Liberazione in Italia, un’ulteriore silenziosa prova di valore, di patriottismo, di dedizione ai più alti ideali di libertà. Ora che sono passati 70 anni dalla storia succitata, il Corpo Militare della Croce Rossa Italiana è ancora impegnato laddove la Forze Armate ne richiedono il professionale intervento, per la assistenza sanitaria dei nostri soldati impegnati in teatri operativi esteri. Il 25 marzo 2013, anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, il mio pensiero di garibaldino e di Ufficiale del Corpo Militare, va alla memoria dei due colleghi che tanti anni fa decisero di immolare la loro giovinezza per non sottostare al Comando nazifascista di Roma. Affinché questo sacrificio non si debba mai più ripetere, bisogna tenere alta l’attenzione contro il negazionismo ed il revisionismo storico che tendono a cancellarne la memoria. EMILIO CARBONE (Magg. Commissario del corpo militare volontario c.r.i.) Tratto dalla rivista "Camicia rossa" periodico dell'associazione nazionale veterani e reduci garibaldini gennaio maggio 2013.
Cecilia Deganutti Udine 1914- Risiera di San Sabba 1945 Cecilia nasce a Udine ad ottobre del 1914, appartiene ad una famiglia benestante e cattolica friulana e si diploma alle Magistrali arcivescovili, ma a causa della guerra farà per poco tempo la maestra elementare a Castione di Strada. Cecilia frequenta inoltre il corso per diventare infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana presso il Comitato provinciale di Udine, e durante la guerra presterà servizio all’ospedale militare e civile della sua città. Dopo l’8 settembre del 1943 il Friuli viene occupato dai tedeschi, che istituiscono nell'intero territorio del Friuli Venezia Giulia e dell’Istria la Operationszone Adriatisches Küstenland (OZAK). Dopo l’armistizio può succedere, in tutta l’Italia occupata dai tedeschi, di assistere alla deportazione dei militari italiani, ma la linea ferroviaria Udine – Tarvisio, i cui treni provengono dall’Italia e dal fronte balcanico, con il suo ininterrotto passaggio di prigionieri militari e civili, di deportati e di deportate, è tale da suscitare nella popolazione del Friuli una vasta mobilitazione, che si attiva con le più disparate azioni di ribellione alla violenza nazista. Le stazioni che percorrono la ferrovia da Trieste fino a Tarvisio rappresentano per i deportati, chiusi nei carri bestiame, le ultime speranze di fuga o di soccorso prima del confine e sono tanti i cittadini che nelle stazioni friulane, cercano di fornire qualche genere di supporto. Cecilia dall’Ospedale di Udine viene spostata al pronto soccorso ferroviario, dove cura i partigiani feriti che vengono accolti dalle famiglie in città e assiste gli internati militari che sostano nei lunghi convogli alla stazione di Udine, dove le SS presidiano la stazione e colpiscono con il calcio del fucile anche le tantissime donne che portano generi alimentari o cercano di raccogliere i bigliettini che i deportati e le deportate fanno cadere al passaggio. E’ proprio l’esperienza del lavoro di soccorso alla stazione a convincere Cecilia della necessità di darsi alla lotta partigiana. Come Cecilia sono molti del resto i cattolici che in Friuli vanno persuadendosi della bontà della lotta partigiana in circostanze di guerra. Nessuno deve essere obbligato ad agire contro coscienza, ma ognuno può, assumendosene la responsabilità, fare la scelta della resistenza attiva. Cecilia è anche una collaboratrice dei cappellani don Giorgio Vale e don Albino Perosa del Tempio Ossario di Udine, punto di ritrovo di un importante e numeroso gruppo clandestino che opera assistendo e curando partigiani feriti e ospitando soldati alleati fuggiti dalla prigionia. Dal dicembre del ’43 questi gruppi, già attivi dopo l'8 settembre nella Carnia e nel Friuli, vanno a formare le “Brigate Osoppo“, in cui entra anche Cecilia, costituite su iniziativa dei cattolici e azionisti I loro segni distintivi sono il cappello dell’alpino e il fazzoletto verde e tra di loro si chiamano patrioti. Cecilia è staffetta e come corriere porta ordini e informazioni a diversi gruppi partigiani da Udine verso la Bassa Friulana e trasporta materiale di propaganda a Pordenone e a Venezia. Cecilia è davvero instancabile, tanto da collaborare anche con la missione italiana (del Regno del Sud) “Bartolo – Marco”, che paracadutata in Friuli Venezia Giulia, opera nella Bassa Friulana con il compito di coordinare le formazioni partigiane contro i nazisti. Il 6 gennaio del 1945 Cecilia, tradita da un componente della sua stessa missione, viene arrestata a casa sua a Udine. Tradotta nel carcere di Trieste, dove viene a lungo interrogata e torturata, Cecilia non parla e non rivela i nomi dei componenti degli aderenti alla “Osoppo”. La sorella Lorenzina, che ha un colloquio con lei attraverso la grata di una cella, riferisce che il suo primo pensiero è quello di chiedere se il suo arresto abbia causato problemi alla famiglia. Il 4 aprile ’45, è prelevata e condotta alla Risiera di San Sabba, l’unico campo di sterminio su suolo italiano, unico lager collocato alla periferia di una città popolosa, Trieste, dove, a pochi giorni dalla Liberazione, viene eliminata e bruciata nel forno crematorio. Le viene assegnata la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria.
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